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18/04/2019

Sudan - Bashir in carcere, le proteste proseguono

L’ex presidente sudanese Omar al-Bashir, deposto da un golpe militare una settimana fa, è stato trasferito in una prigione di Khartoum, Kobar, dopo una settimana di arresti domiciliari nel palazzo presidenziale.

A renderlo noto è la famiglia. Che perde altri pezzi: ieri un portavoce del Consiglio militare, Shams Eldin Kabashi, ha fatto sapere che anche due fratelli del dittatore sono stati arrestati, nell’ambito di una campagna detentiva “contro i simboli del precedente regime”.

Nell’ultima settimana sono stati decine gli arresti delle personalità più in vista del vecchio regime, ma tuttora mancano numeri precisi. Sotto il controllo dell’esercito, aggiunge il portavoce, anche membri delle forze armate irregolari fedeli al partito di governo di Bashir.

Ma le proteste proseguono. I manifestanti, centinaia di migliaia in tutto il paese, in piazza dal 19 dicembre scorso, non intendono cedere: a gestire la transizione è al momento l’esercito che ha già imposto misure di militarizzazione del paese. La gente chiede un governo civile e il trasferimento dei poteri dal Consiglio militare a un nuovo esecutivo, ma per ora ha solo ottenuto la rimozione del coprifuoco notturno, il rimpasto dei servizi segreti e la riduzione dello stato di emergenza.

Ieri a scendere in strada nella capitale sono stati i medici e il personale sanitario: con i camici bianchi hanno marciato dal principale ospedale della città al luogo del sit-in permanente, di fronte al quartier generale dell’esercito, dove da settimane stazionano migliaia di persone dandosi il cambio e sfidando gas lacrimogeni e arresti. La paura, come dicono i manifestanti, è che “ci rubino la rivoluzione”. Nelle stesse ore a manifestare erano di nuovo i giornalisti che chiedono di passare la gestione dei media pubblici a loro rappresentanti indipendenti.

A placarsi sono intanto le ostilità negli Stati meridionali del Blue Nile e del South Kordofan: ad annunciare uno stop della lotta armata nelle due regioni fino al prossimo 31 luglio è il Sudan’s People’s Liberation Movement-North (SPLM-N), tre mesi di tregua come atto di buona volontà a seguito della rimozione di Bashir. “Un gesto di buona volontà – ha detto Abdulaziz al-Hilu, il leader del movimento scissosi otto anni fa da quello di liberazione del Sud Sudan e che tuttora rivendica l’indipendenza da Khartoum – per dare un’occasione per l’immediato trasferimento del potere ai civili”.

Ma a muoversi sono anche i paesi vicini. Ieri il Sud Sudan, Stato nato nel 2011 ottenendo l’indipendenza da Khartoum e privandolo dei ricchi pozzi petroliferi che hanno in parte provocato la crisi economica che ha inizialmente scatenato le proteste, si dice pronto a fare da mediatore della crisi politica.

Il presidente sudsudanese, Salva Kirr, si è detto pronto a sostenere il popolo sudanese e le sue “aspirazioni democratiche” attraverso “una mediazione delle attuali negoziazioni tra i vari gruppi politici del Sudan”. Si fa avanti anche l’Uganda che si dice – parola del ministero degli esteri – potrebbe garantire asilo politico a Bashir, visto il ruolo svolto dal dittatore nel mediare l’accordo di pace tra governo ugandese e Sud Sudan.

E non poteva mancare il generale golpista Abdel Fattah al-Sisi, rapidissimo nello scaricare Bashir e a dichiarare il proprio sostegno alla giunta militare. Il presidente egiziano, martedì, ha chiamato al-Burhan, capo del Consiglio militare, per offrire il supporto del Cairo nella transizione.

Infine gli Stati Uniti. Washington sarebbe pronto a rimuovere Khartoum dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo, dice il dipartimento di Stato senza aspettare di vedere se quello che la Casa Bianca definisce “un cambiamento significativo” sia effettivamente rispettoso del volere del popolo del Sudan. Non stupisce: gli Stati Uniti stavano già valutando la decisione con Bashir, criminale di guerra ricercato dalla Corte Penale Internazionale, ancora al potere.

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