L’ex presidente sudanese Omar al-Bashir, deposto da un golpe militare
una settimana fa, è stato trasferito in una prigione di Khartoum,
Kobar, dopo una settimana di arresti domiciliari nel palazzo
presidenziale.
A renderlo noto è la famiglia. Che perde altri pezzi: ieri un
portavoce del Consiglio militare, Shams Eldin Kabashi, ha fatto sapere
che anche due fratelli del dittatore sono stati arrestati,
nell’ambito di una campagna detentiva “contro i simboli del precedente
regime”.
Nell’ultima settimana sono stati decine gli arresti delle personalità
più in vista del vecchio regime, ma tuttora mancano numeri precisi.
Sotto il controllo dell’esercito, aggiunge il portavoce, anche membri
delle forze armate irregolari fedeli al partito di governo di Bashir.
Ma le proteste proseguono. I manifestanti, centinaia di migliaia in
tutto il paese, in piazza dal 19 dicembre scorso, non intendono cedere: a
gestire la transizione è al momento l’esercito che ha già imposto
misure di militarizzazione del paese. La gente chiede un governo
civile e il trasferimento dei poteri dal Consiglio militare a un nuovo
esecutivo, ma per ora ha solo ottenuto la rimozione del coprifuoco
notturno, il rimpasto dei servizi segreti e la riduzione dello stato di
emergenza.
Ieri a scendere in strada nella capitale sono stati i medici e il personale sanitario:
con i camici bianchi hanno marciato dal principale ospedale della città
al luogo del sit-in permanente, di fronte al quartier generale
dell’esercito, dove da settimane stazionano migliaia di persone dandosi
il cambio e sfidando gas lacrimogeni e arresti. La paura, come dicono i manifestanti, è che “ci rubino la rivoluzione”.
Nelle stesse ore a manifestare erano di nuovo i giornalisti che
chiedono di passare la gestione dei media pubblici a loro rappresentanti
indipendenti.
A placarsi sono intanto le ostilità negli Stati meridionali
del Blue Nile e del South Kordofan: ad annunciare uno stop della lotta
armata nelle due regioni fino al prossimo 31 luglio è il Sudan’s
People’s Liberation Movement-North (SPLM-N), tre mesi di tregua
come atto di buona volontà a seguito della rimozione di Bashir. “Un
gesto di buona volontà – ha detto Abdulaziz al-Hilu, il leader del
movimento scissosi otto anni fa da quello di liberazione del Sud Sudan e
che tuttora rivendica l’indipendenza da Khartoum – per dare
un’occasione per l’immediato trasferimento del potere ai civili”.
Ma a muoversi sono anche i paesi vicini. Ieri il Sud Sudan, Stato
nato nel 2011 ottenendo l’indipendenza da Khartoum e privandolo dei
ricchi pozzi petroliferi che hanno in parte provocato la crisi economica
che ha inizialmente scatenato le proteste, si dice pronto a fare da
mediatore della crisi politica.
Il presidente sudsudanese, Salva Kirr, si è
detto pronto a sostenere il popolo sudanese e le sue “aspirazioni
democratiche” attraverso “una mediazione delle attuali negoziazioni tra i
vari gruppi politici del Sudan”. Si fa avanti anche l’Uganda che si dice – parola del ministero degli esteri – potrebbe garantire asilo politico a Bashir, visto il ruolo svolto dal dittatore nel mediare l’accordo di pace tra governo ugandese e Sud Sudan.
E non poteva mancare il generale
golpista Abdel Fattah al-Sisi, rapidissimo nello scaricare Bashir e a
dichiarare il proprio sostegno alla giunta militare. Il
presidente egiziano, martedì, ha chiamato al-Burhan, capo del Consiglio
militare, per offrire il supporto del Cairo nella transizione.
Infine gli Stati Uniti. Washington sarebbe pronto a
rimuovere Khartoum dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo, dice il
dipartimento di Stato senza aspettare di vedere se quello che la Casa
Bianca definisce “un cambiamento significativo” sia effettivamente
rispettoso del volere del popolo del Sudan. Non stupisce: gli
Stati Uniti stavano già valutando la decisione con Bashir, criminale di
guerra ricercato dalla Corte Penale Internazionale, ancora al potere.
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