Questa ostilità è naturalmente ricambiata da tutti gli “europeisti”, sia da quelli molto interni all’establishment, sia da quelli – un po’ miopi (oggi ci sentiamo buoni) – che confondono regolarmente lo “spazio europeo” con i vaghi ricordi di un internazionalismo che non praticano più da decenni (anche perché le buone cause – tipo il Venezuela o i palestinesi – sono diventate terreno di guerra; e dunque se ne fugge).
Non è la prima volta che riprendiamo interviste di Jean-Luc Méléncon, fondatore e anima di questo movimento-partito, anche stavolta speriamo cocciutamente che i lettori si soffermino su quello che dice anziché sulle stronzate propalate dai suoi (e in larga parte anche nostri) molti nemici.
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Jean-Luc Mélenchon parla della fase politica in rapporto alla “rivoluzione dei cittadini” e al dibattito su sovranità e internazionalismo. E lancia la sfida all’egemonia della destra tedesca sulla politica europea.
Alle elezioni presidenziali francesi del 2017, l’avversario più importante di Macron a sinistra è stato Jean-Luc Mélenchon, che ha sfiorato per un soffio la possibilità di affrontare il futuro presidente al balottaggio. Nel periodo trascorso da allora, il movimento di Mélenchon, La France Insoumise, è diventato l’opposizione parlamentare più importante al governo di Macron.
In questa intervista, Mélenchon parla della politica de La France Insoumise, di come vede il dibattito su sovranità e internazionalismo ed esprime la necessità di sfidare l’egemonia della destra tedesca sulla politica europea.
Durante la tua campagna presidenziale hai fondato una nuova organizzazione politica, La France Insoumise. Hai imparato molto da altre nuove formazioni politiche della sinistra europea, come la spagnola Podemos. Si potrebbe dire, tuttavia, che ciò che sta succedendo in Gran Bretagna è diverso: il movimento che ruota attorno a Jeremy Corbyn si sta dando all’interno di strutture tradizionali, in un vecchio partito legato ai sindacati. In realtà, tra le altre cose il tuo immaginario politico recupera anche le vecchie tradizioni labour del governo del 1945. In che senso può interessarti questo processo, e come lo vedi in relazione a France Insoumise?
Non penso che le nostre forme di azione popolare siano nuove. Parliamo di rivoluzione dei cittadini, ma c’è sempre stato un coinvolgimento dei cittadini, un coinvolgimento civico. A essere cambiata è la società che ci circonda. Nel passato, la working class è stata il motore rivoluzionario della storia; questa classe ha vissuto in condizioni comuni, a diretto contatto con il problema della distribuzione della ricchezza. Il resto della società era composto da contadini o piccoli borghesi di cittadine provinciali. A essere diverso oggi è che il 99% della popolazione condivide lo stesso conflitto con l’1%. Le loro battaglie hanno caratteristiche comuni, molto più di quanto non accadesse nel diciannovesimo secolo o nella prima metà del ventesimo.
La popolazione mondiale aumenta esponenzialmente di numero – passando da 2,5 miliardi a 7 miliardi – ma è unita da preoccupazioni e richieste comuni. E le richieste più comuni riguardano l’accesso a quei beni che rendono possibile una vita dignitosa – elettricità, acqua potabile, casa, sanità, istruzione. Tutto dipende da queste reti collettive. Così si presenta un collettivismo spontaneo e la coscienza spontanea di un interesse comune, incentrato su risorse condivise.
Noi crediamo nella costruzione di una nuova coscienza rivoluzionaria – che chiamiamo la rivoluzione dei cittadini – attraverso le lotte e l’invito rivolto alle persone a riprendere il controllo sugli sviluppi della loro vita. Questo controllo riguarda la grandi questioni della vita pubblica, ma anche il cibo che metto nel piatto, quello che mangio, e quello che do da mangiare ai miei figli, l’aria che respiro. L’insoumission – la ribellione, il rifiuto a sottomettersi – e la rivoluzione dei cittadini sono connesse. Ciascun elemento della rivoluzione dei cittadini, ciascun esempio di questo doppio potere dei cittadini, rafforza la fiducia in loro stessi e l’importanza della loro insubordinazione.
La cosa interessante, per qualcuno della mia età, è l’aver visto entrambe le situazioni. Così possiamo vedere il cambiamento che voi non avete mai avuto nelle vostre vite, in quanto attivisti giovani. Per certi versi vi ritrovate con il vocabolario e le idee del ventesimo secolo nella realtà del ventunesimo. Dovete ancora trovare la strada giusta. Ma sono genuinamente sorpreso del cambiamento che vedo attualmente. E devo dirtelo, per spiegare come mai questi vecchi leader guidino dei movimenti giovani: non siamo semplicemente «sopravvissuti». Siamo quelli che resistono da sempre. Oggi le nostre resistenze entrano in connessione con le aspirazioni delle nuove generazioni.
Ecco perché, per tornare alle forme d’azione, l’esempio inglese è così eccezionale, unico. In nessun altro posto c’è stato un partito socialista di centro-sinistra così devastato dalla malattia neoliberale, dai suoi tradimenti, dalla sua schifosa opera di confusione delle menti delle persone, come in Gran Bretagna. Ma è anche vero che pochi partiti hanno sofferto uno shock violento, immorale, come quello rappresentato dal blairismo nel vecchio Partito Laburista. Quando Margaret Thatcher ha detto che il suo più grande successo è stato Tony Blair, aveva ragione. Tutti i partiti che hanno seguito l’esempio di Blair hanno rappresentato più che altro timide imitazioni. Nessuno ha abbracciato il tradimento sociale così apertamente come ha fatto Blair. Hanno tutti finto che le loro politiche fossero, in una qualche misura, “socialiste”.
In questo senso, in altri paesi, l’unico modo per aprire un sentiero diverso, per continuare la lotte delle precedenti generazioni, era liberarsi di questi partiti. C’è una forma di ingiustizia in tutto ciò: questi partiti appartenevano alla working class e sono stati rubati da un piccolo entourage di persone. In Gran Bretagna hanno trovato una soluzione differente. Ma noi dobbiamo considerare l’idea che, data la disorganizzazione, il disordine, le difficoltà politiche e morali presenti in tutti i paesi, emergeranno nuove forme. Non c’è un piano universale, ma la cosa sorprendente è che il vocabolario usato è, in verità, universale. Ieri ho parlato con il nostro amico John Trickett [membro laburista del parlamento inglese, Ndt], che mi diceva come spesso i nostri movimenti dicano le stesse cose e usino le stesse parole. Si vede che abbiamo una percezione comune della realtà.
Non so cosa accadrà nel Partito Laburista. Ma lo stiamo osservando con grande interesse. Ovunque, stiamo ricostruendo una grande forza politica che si prenda la responsabilità di fare l’interesse generale dell’umanità. Questo programma è una novità. Siamo stati abituati a sentirci dire che l’interesse generale fosse quello del capitale. Questo è un costrutto ideologico. Ma oggi, di fronte alla crisi generale che minaccia la vera e propria esistenza dell’ecosistema, l’interesse generale dell’umanità è la cosa che permetterà la nostra stessa esistenza futura. Così, malgrado gli slogan siano gli stessi, e l’analisi sia la stessa, potrebbe essere ancora vero che le forme differiscano da un paese all’altro. Ma in fin dei conti, chiunque di noi vinca per primo trascinerà gli altri con sé, e creerà una scorciatoia nel cammino che altri intraprenderanno. Se gli inglesi dovessero vincere per primi e guidare il resto di noi – e non è detto! – allora potrebbero accorciare la strada per tutti. Spero che sia così!
Negli ultimi anni abbiamo assistito a molte discussioni sull’internazionalismo e la sovranità nazionale. In Gran Bretagna è un tema particolarmente scottante, con tutto il dibattito sulla Brexit. Insieme a tutta La France Insoumise tu leghi questi problemi alla democrazia e alla proposta di fondare una nuova Sesta Repubblica. Qual è secondo te il legame tra sovranità e democratizzazione della vita pubblica?
Come France Insoumise, rigettiamo l’immagine presentata dalle forza social-liberali, che parlano di “internazionalismo” come maschera del capitale. La parola internazionalismo significa un accordo tra nazioni e tra persone democraticamente organizzate a livello nazionale. Le persone passano un sacco di tempo a discutere di nazionalismo e internazionalismo, ma la scelta che ci troviamo molto più spesso a compiere è tra combattere per o contro la sovranità popolare. Parlare dell’Unione Europea come di un’organizzazione “internazionalista” vuol dire svuotare il termine di significato, secondo me. Per gran parte degli europei l’Europa è il luogo in cui i diritti democratici vengono dissolti.
Ciò che viene applicato in Europa è l’equivalente moderno della dottrina di Breznev, dove alla Commissione Europea è permesso di intervenire nei singoli stati per preservare lo status quo. È stato Mr. Junker a dire che «non ci può essere democrazia al di fuori dei trattati europei». Noi pensiamo che non ci possa essere democrazia all’interno dei trattati europei. Non è democratico se una Commissione che nessuno ha eletto dice a ciascuna nazione, come se stesse controllando i conti di un’azienda, quello che dovrebbe o non dovrebbe fare, cosa è accettabile e cosa non lo è. Sono i parlamenti che dovrebbero decidere.
E dunque, non è vero che la scelta è tra il nazionalismo e l’internazionalismo rappresentato dall’Ue. L’Ue è la negazione della democrazia, l’idea che ci sia un dominio – l’economia – che viene prima della sovranità popolare. Questa è la dottrina dell’ordoliberismo, come se l’economia non fosse prima di tutto una relazione sociale, come se noi – il movimento dei lavoratori e le nostre storiche tradizioni – non fossimo nati grazie alla creazione di sindacati fatti per cambiarla, l’economia. E che cos’è un sindacato? In Gran Bretagna sapete bene, meglio di chiunque altro, che un sindacato rappresenta il mezzo per introdurre un controllo reciproco e dei limiti al potere che alcuni esercitano sugli altri. Questa è la democrazia, radicata nell’auto-organizzazione popolare.
Oggi questo succede all’interno del contesto nazionale. Se ci fossero state delle cornici di sovranità popolare e democratica a livello europeo, noi le avremmo appoggiate. Voglio un’Europa che proponga il linguaggio della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza tra tutti, e che parli il linguaggio universale di tutte le persone – una buona paga, un buon sistema di welfare, una buona istruzione. Come ha detto una volta il socialista francese Jean Jaurès, l’unica questione da porre in politica è quella della sovranità popolare. Tutto il resto dipende da questo, inclusa la questione della distribuzione della ricchezza, che è in sé stessa il problema di riaffermare la democrazia.
Il liberalismo non è una specie di legge di natura che scende dal cielo. L’economia di mercato non è emersa spontaneamente. È un’idea che appartiene al campo che Karl Marx ascriveva all’ideologia: parole che servono a mascherare relazioni sociali. Avendo compreso tutto ciò, mettiamo in campo un nuovo attore – le persone – al centro di tutte le nostre strategie. E la strategia per mettere insieme queste persone è l’elezione di un’assemblea costituente. Pensiamo che quando le persone si mettono insieme in un’assemblea costituente, questa diventa automaticamente un attore politico che definisce i propri diritti.
È importante notare che dopo la prima fase della Rivoluzione Francese, la prima assemblea nazionale che fu eletta aveva il proposito di scrivere una costituzione. All’interno di quell’assemblea, ci furono tre costituzioni in tre anni. Ci fu la costituzione dei girondini, quella dei montagnardi, e quella dei termidoriani che introdusse la Repubblica reazionaria. La costituzione montagnarda sancì la superiorità dei diritti sociali sugli altri diritti, dichiarando che la proprietà privata era solo una convenzione e un’abitudine. Mentre la costituzione termidoriana che venne dopo l’omicidio di Robespierre dichiarava la proprietà privata un diritto sacro e insisteva sul fatto che gli individui non avevano soltanto diritti, ma anche doveri. Certo, gli individui avevano il dovere di rispettare i diritti degli altri. Ma sono questi diritti, presi tutti insieme e rispettati dagli altri, che costituiscono il popolo.
Visto che La France Insoumise ha una prospettiva così critica sull’Unione Europea, cosa propone a livello europeo, e come si possono rapportare i governi di sinistra alle istituzioni e delle politiche neoliberali?
È importante chiedersi: contro chi stiamo combattendo? È facile parlare di capitalismo o di finanza in astratto; François Hollande ha detto che non sappiamo chi sono queste persone, non abbiamo alcun indirizzo. Ma invece ce l’hanno, un indirizzo, e una faccia – nella fattispecie, quella del governo di destra tedesco. La destra tedesca domina l’Europa e ha assoggettato tutto il continente a una specifica visione economica. Ha bisogno di un euro forte, così che i pensionati tedeschi possano comprare tanti prodotti importati. Ha bisogno di paghe basse, così che l’export di macchine tedesche – che rappresenta il 20% dell’economia tedesca – possa essere il più profittevole possibile, e così che i fondi di pensione tedeschi possano pagare il più possibile. È questa la base dell’agenda economica che domina l’Europa. I nostri giovani vivono vite limitate perché devono rispettare il quadro europeo e le sue politiche economiche.
Noi possiamo tracciare una diversa linea di sviluppo. Quando avremo il potere, applicheremo il nostro programma. Non perché siamo ideologici e dogmatici, ma perché è quello per cui le persone hanno votato. Se le persone hanno votato per quello, questo è quello che dobbiamo fare, anche se non è compatibile con i trattati europei. Sono i trattati che hanno bisogno di modifiche, noi non cambieremo la nostra politica. A queste condizioni, il nostro piano A è di sbarazzarci degli ostacoli ai diritti sociali e alla politica fiscale e di affermare un controllo democratico sulla Banca Centrale Europea. E il nostro piano B, se i trattati non potessero essere modificati, è di portare avanti la nostra politica lo stesso, insieme a chiunque sia disposto a farlo insieme a noi.
Se saremo al governo, ricorderemo a tutti che non può esserci un’Europa senza la Francia, e che tutte e tutti gli europei stanno cercando un’alternativa. Le persone vogliono essere europee, ma non a questo prezzo. Essere «europei» non significa essere schiavi. Abbiamo bisogno di cooperazione tra persone per migliorare la sanità, l’istruzione, i trasporti, i servizi pubblici, e cambiare la base produttiva, i processi produttivi, i modelli di consumo, per dare vita a una pratica economica compatibile con la sopravvivenza dell’ecosistema. Sappiamo che non possiamo vincere, non possiamo salvare l’ambiente, in un solo paese. Ma possiamo perdere collettivamente.
Questo è quello che farei se fossi il presidente francese. E penso che la cosa migliore sia che ciascuno sappia che sono molto pericoloso. O i nostri partner – inclusi quelli finanziari – sono ragionevoli, e riusciamo a raggiungere un buon accordo tra di noi, oppure questi accordi sono morti. I francesi non scompariranno. Anche se ci sarà una crisi economica, il giorno dopo il sole sorgerà lo stesso, e noi avremo comunque bisogno di fare colazione e portare i figli a scuola. L’economia, per forza di cose, si rimetterà in moto.
Quanto al Regno unito, vogliamo fare una nuova offerta di collaborazione europea agli inglesi. Per adesso, l’Europa si limita a chiedere di obbedire ai limiti della sovranità popolare. Ma gli inglesi sono estremamente ribelli – nel senso di indipendenti. Non sorprende, allora, che siano stati i primi a dire «Arrivederci e grazie». Capisco le molte contraddizioni insite nel voto sulla Brexit. Ma è vero anche questo: tra quelli che volevano restare in Europa ci sono molti internazionalisti, amici dei francesi, che hanno pensato che l’Europa fosse utile ai loro figli, ma anche persone che non amavano niente e nessuno se non i soldi e pensavano che l’Europa servisse alla City. Ci viene chiesto di credere alla purezza delle intenzioni, che nessuno dei due fronti può ragionevolmente pretendere.
*Jean-Luc Mélenchon è il leader di La France Insoumise e parlamentare per Marsiglia. David Broder è uno storico e traduttore inglese, redattore europeo di Jacobin.
Questa intervista è tratta da Tribune. La traduzione è di Gaia Benzi, pubblicata su Jacobin Italia
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