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05/10/2019

Iraq - Terzo giorno di proteste, 13 morti

di Chiara Cruciati

Sale il numero dei manifestanti uccisi in Iraq, attraversata da tre giorni di proteste popolari che prendono di mira tutte le manchevolezze e le colpe del governo. Corruzione, disoccupazione, mancanza di servizi accompagnano il paese da anni, decenni, dall’inizio dell’occupazione americana nel 2003 a oggi, senza soluzione di continuità.

E se negli anni appena trascorsi, sporadicamente, eruzioni di violenza hanno avuto come teatro Baghdad e il sud petrolifero, di nuovo i due poli a maggioranza sciita sono i cuori della protesta contro il governo di Adel Abdul Mahdi, nato dopo mesi di consultazioni e crisi interne post elezioni del maggio 2018.

Sarebbero almeno 13 gli uccisi, tra manifestanti e poliziotti, oltre 400 i feriti, tra Baghdad e il sud, tra Bassora e Nassiriya, i centri pulsanti della produzione del greggio iracheno eppure senza lavoro né servizi, come avevano ben dimostrato le ultime due estati, trascorse tra le manifestazioni di protesta degli abitanti, costretti a vivere tra continui blackout elettrici con oltre 45 gradi di temperatura nonostante a poca distanza le compagnie straniere continuassero a estrarre petrolio per l’esportazione.

La polizia usa gas lacrimogeni, cannoni ad acqua proiettili di gomma e proiettili veri per ricacciare indietro i manifestanti che in alcuni casi hanno preso di mira uffici pubblici e sedi governative e in altri hanno usato le armi. Alta tensione nella Zona Verde, il centro di Baghdad dove hanno sede le ambasciate straniere, il parlamento e i ministeri, riaperto alla cittadinanza lo scorso dicembre dopo 16 anni di chiusura totale. Qui internet è stato bloccato, mentre gli uffici venivano chiusi e un’esplosione veniva registrata nella notte: secondo fonti della sicurezza irachena, due missili diretti verso l’ambasciata statunitense. Da cui la rinnovata chiusura della Zona Verde, di nuovo inaccessibile.

A Baghdad il governo ha imposto il coprifuoco a tempo indeterminato a partire dalle 5 di questa mattina: “Tutti i veicoli e gli individui hanno il divieto totale di transito a Baghdad dalle 5 di oggi, giovedì, e fino a nuovo ordine”, si legge nel comunicato del primo ministro emesso la notte scorsa. Poche le eccezioni: i viaggiatori da e per l’aeroporto, le ambulanze, i dipendenti di ospedali e dipartimenti dell’acqua e dell’elettricità, i pellegrini. Ai governatori provinciali Abdul Mahdi ha dato l’autorità di decidere o meno il coprifuoco nelle province.

Secondo quanto riportato dal corrispondente di al-Jazeera nella capitale, stamattina erano pochissime le auto e le persone visibili nel centro cittadino, generalmente un caos di veicoli e pedoni. Baghdad silente, o quasi: colpi di arma da fuoco sono stati registrati a Tahrir Square, il centro delle proteste, dove alcune decine di manifestanti hanno dato fuoco a copertoni e sono stati circondati dalla polizia. E piccole proteste stanno comunque sfidando la chiusura, lontano dal centro.

Anche stavolta, come negli anni passati, a intitolarsi la piazza è il movimento sadrista. Vincitore delle elezioni di un anno e mezzo fa insieme al partito comunista, protagonista di un lento riavvicinamento a Teheran, il religioso sciita Moqtada al-Sadr è rimasto agli occhi della comunità sciita come una delle poche voci di critica e battaglia alle tare strutturali del disfunzionale Stato iracheno: ricchezze mangiate dalla corruzione, incapacità politica, marginalizzazione delle classi povere alla luce di miliardi di dollari per la ricostruzione piovuti dal decennio scorso e scomparsi.

È sua la chiamata allo sciopero generale, che potrebbe accendere ulteriormente le proteste, sebbene la sua lista politica “Sairoun” è parte della coalizione di governo.

Ma la situazione rischia di esplodere: la rabbia della gente, soprattutto dei giovani, la stragrande maggioranza della popolazione, senza lavoro né prospettive ha fatto saltare il tappo. Spesso lontani dai partiti politici, sono scesi in strada spontaneamente per rivendicare condizioni di vita dignitose. Il loro grido “Il popolo vuole la caduta del regime” richiama immediatamente gli slogan simbolo delle primavere arabe del 2011 che non hanno toccato l’Iraq.

Che ha invece attraversato anni di disperazione, terrorismo, occupazione di un terzo del paese da parte dell’Isis, di centinaia di miliardi di dollari di finanziamenti per la ricostruzione svaniti nelle pieghe della corruzione (Baghdad è il 12esimo paese più corrotto al mondo secondo l’indice Transparency International’s Corruption Perceptions Index). E che oggi, all’orizzonte, vede arrivare un nuovo conflitto, quello tra Iran e Stati Uniti, che potrebbe avere come terreno di scontro un paese in guerra permanente dal secolo scorso.

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