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04/07/2020

Non c’è democrazia senza riduzione dell’orario e redistribuzione del lavoro

In seguito alla Grande Depressione che colpì, in primo luogo, i paesi economicamente più sviluppati come gli Usa, la stragrande maggioranza della popolazione cadde nel panico e nella disperazione, ma soprattutto fu pervasa dalla rassegnazione. Non ci furono le rivolte che abbiamo visto pochi giorni fa e che sono scaturite dall’uccisione di G. Floyd, rabbia e frustrazioni non trovarono uno sfogo immediato, cosicché quando le organizzazioni dei lavoratori provarono ad alzare la testa fu troppo tardi. Si trovarono infatti la strada sbarrata dai caporali, dai capitalisti e dal loro braccio armato rappresentato dalla malavita organizzata.

In realtà, il sindacato dei lavoratori americani, ancor prima di essere messo fuori gioco, provò ad arginare il dilagare della disoccupazione, infatti il 20 luglio 1932 il consiglio direttivo della American Federation of Labor (uno dei più importanti sindacati statunitensi), riunitosi ad Atlantic City, fece una richiesta formale al Presidente Hoover per fissare un incontro tra le organizzazioni imprenditoriali e i sindacati, allo scopo di trovare un accordo per una settimana lavorativa di 30 ore.

La sintesi di questa mediazione trovò uno sbocco nella proposta di legge del senatore dell’Alabama Hugo L. Black, alla fine del 1932. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale, che si ebbe con l’approvazione al Senato, fu stroncato con l’ascesa di Roosevelt, il quale sposò le preoccupazioni e le angosce delle classi imprenditoriali, per le implicazioni rivoluzionarie del provvedimento, pertanto affossarono il disegno di legge alla Camera.

Al contrario di quello che accade oggi, negli Usa, in quel periodo storico, ci furono una serie di grandi imprese che si prodigano alla sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro, per far fronte alla disoccupazione, tra queste ricordiamo: la Kellogg’s, la Sears, la Standard Oil e la Hudson Motors.

Tra di esse si distinse la Kellogg’s di Battle Creek, Michigan, che già nel 1930 iniziò a portare avanti la politica di 4 turni di 6 ore al giorno, per 5 giorno a settimana, invece di 3 turni di 8 ore al giorno. Una tale riorganizzazione del lavoro avrebbe consentito, in base alle intuizioni del management aziendale, un rimedio alla disoccupazione, almeno nelle aree circostanti, e un aumento della produttività del lavoro, nonché il miglioramento complessivo delle condizioni di vita delle comunità di riferimento.

L’esperimento di Battle Creek rappresenta un passo importante, nell’ambito dell’evoluzione dei rapporti sociali di produzione, in relazione alla riduzione dell’orario di lavoro, anche per il fatto che fu la stessa azienda a proporre la soluzione. Esiste infatti un’ampia letteratura che descrive le virtù di quella scelta: diminuiscono gli incidenti, migliora la produttività, i lavoratori riescono a spendere il proprio tempo libero con i propri familiari, nelle attività religiose, nelle attività sportive, ma anche nella caccia, nella pesca, nella cura dei parenti malati, nella coltivazione dei fiori e dei vegetali nel proprio giardino, in biblioteca, eccetera.

L’aspetto più sorprendente di questa storia dei pionieri americani si può riassumere nella convinzione che se tratti bene i lavoratori, essi riescono a dare di più, in quanto si alimenta la spinta motivazionale ad essere più efficienti, s’impegnano a compiere il lavoro a regola d’arte, al punto che si verificano quelle condizioni perseguite con veemenza dalle forze imprenditoriali e santificate dai sacerdoti dell’economia aziendale nei templi accademici.

In riferimento al circolo virtuoso a cui abbiamo accennato, W.K. Kellogg, in un giornale del 1935, si vantava: “il costo unitario di produzione è così basso che possiamo permetterci di pagare tanto per sei ore quanto prima ne pagavamo otto”. (1)

Ma la bella novella, che subì un’interruzione durante il secondo conflitto mondiale, si esaurì nei primi anni '80 del secolo scorso, quando le politiche liberiste iniziarono a soffiare con forza e l’azienda fu costretta a seguire il flusso della corrente.

La singola realtà produttiva, come il singolo individuo, si piegano, finiscono per rimanere intrappolati nelle maglie dell’organizzazione sociale prevalente. La visione umanitaria tra i capitalisti non trova terreno fertile, si ripiega su se stessa, entra in contrasto con le leggi immanenti che rendono il capitale ciò che è: un rapporto di forza che tende a perpetuarsi, a crescere, a cumularsi, a chiedere continui sacrifici ai lavoratori, ad inglobare ogni cosa, ogni relazione produttiva.

D’altronde, qualcosa del genere è accaduto, in tempi, in modi e con benefici diversi, anche in Italia. In molti hanno ricordato le gesta e le politiche sociali di Adriano Olivetti, il quale ha cercato di essere un uomo ancor prima che un capitalista.

Ma quali sono i motivi per rievocare questa breve storia delle relazioni industriali della Kellog’s?

Forse, il primo fra tutti è mettere in evidenza che, nonostante nel panorama attuale esistano tanti capitalisti molto più ricchi di quelli sopramenzionati, ebbene, nessuno di loro, stando alle informazioni reperibili tramite l’oracolo di Google, si degna di fare una proposta con la stessa rilevanza sociale dei loro predecessori.

Anzi, le richieste che arrivano esprimono solo lamenti: non pagare le tasse, niente prestiti ma solo finanziamenti a fondo perduto, sbarazzarsi di qualsiasi forma di controllo sociale sul loro operato.

Insomma, sembra che la crisi epidemiologica, che ha ulteriormente aggravato la crisi economica dell’ultimo mezzo secolo, abbia sovra-stimolato la paura degli imprenditori di perdere il proprio potere o, per l’altro verso, abbia intensificato il bisogno istintivo degli stessi di acciuffare tutto ciò che è dentro il piatto.

Ecco perché, questi ultimi, nelle loro azioni quotidiane, si mostrano come dei soggetti con la bava alla bocca, ai quali stanno per sottrarre il pane.
Su queste basi non si può costruire la fiducia, anzi si alimenta la diffidenza di coloro che iniziano a ballare sui carboni ardenti e sbraitano: «macché! ci sono i padroni buoni?».

Certo che no!, rispondono in coro in tanti. E dicono: la maggior parte degli imprenditori, nell’esplicare il loro mestiere, solo una cosa sanno fare molto bene, cioè quella di ottenere profitti più elevati mediante lo sfruttamento, al fine di conservare, di preservare, di perpetuare se stessi, ancor prima di pensare alla collettività generale. Con l’assurda pretesa, beninteso, di voler far emergere una parte dell’insieme sul tutto ovvero credere, erroneamente, che quella parte di cui sono espressione rappresenti il tutto, quando il tutto è qualcosa di diverso dalla somma delle singole parti.

Del resto, se si analizza la situazione dei rapporti lavorativi del tessuto produttivo italiano, ma anche quello dell’area OCSE (2), si scopre che le organizzazioni del caporalato non ci sono solo nel settore agricolo (le baraccopoli di San Ferdinando e quelle di Borgo Mezzanone), esse trovano attuazione anche alla Fincantieri di Porto Marghera e di Ancona, così come nella logistica (Ceva Logistic Italia srl, vicino Pavia), senza tralasciare gli operai dei laboratori blindati che producono per l’alta moda e le migliaia dei giovani laureati italiani che raccolgono cipolle in Australia, eccetera.

Tutto questo variegato universo di persone risponde a un medesimo principio, ad una regola comune: lavorare di più e prendere meno.

Dunque, se si guarda a quello che accade con la prospettiva dei lavoratori, specialmente in questo periodo, la Kellog’s story sembra una favola, per giunta finita male. Una favola che si è dileguata, che non ha lasciato una traccia evidente nei libri di storia, mentre ci sono altre azioni che rimangono impresse nella memoria collettiva e vengono evocate da termini anglosassoni come Act, Deal, Recovery, ecc.,

E nonostante la situazione di crisi nella quale ci troviamo sia completamente diversa da quel periodo storico, sembra che le strategie adottate e proposte, sebbene siano state svuotate nella loro essenza, continuino a scimmiottare il mitico solco tracciato dall’Amministrazione di Roosvelt, con l’aggravante di presentarsi come una farsa.

Si pensi allo slogan, Jobs Act, coniato dai creativi del marketing relazionale che hanno lavorato per conto di Renzi. Nelle intenzioni, il legislatore ha fatto riferimento alla trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a “tutele crescenti”; nella pratica si è assistito a trasferimenti di denaro pubblico a fondo perduto nelle casse delle imprese, le quali, molto spesso, sono ritornate alla contrattazione precedente, dopo aver incassato il bottino.

Per fortuna, non tutti i lavoratori cadono nella trappola dicotomica di buono e cattivo. Infatti spunta quel tale che dice che non ha un padrone e ama il proprio lavoro, non perché gli venga imposto dall’esterno, piuttosto in quanto gli consente di esprimere se stesso, di dare una forma ai propri pensieri, mediante un atto creativo. In fondo, alcuni di loro sono capaci di darsi i compiti da svolgere e quindi riescono a vivere, indebolendo la catena di comando che i proprietari del capitale tessono giorno dopo giorno.

La soddisfazione di questi lavoratori non deriva dall’essere comandati o dal comandare, mentre deriva, a mio avviso, dall’essere in relazione con gli altri e quindi apprendere con gli altri, dal produrre sintesi comuni in un processo lavorativo che miri a superare i compartimenti stagni.

Nella fase più acuta del lockdown, con tutte le storture e i soprusi che sono stati rilevati direttamente dai lavoratori, è emersa una nuova forma di consapevolezza, che non è stata efficacemente esplicitata. Essa consiste nel riconoscimento che il lavoro di un dipendente di un supermercato o quello di un migrante che si spacca la schiena nella raccolta delle verdure, nei campi agricoli, o ancora il lavoro di un infermiere, di un dottore, di un operatore ecologico così come quello di un tecnico che permetta l’erogazione della corrente elettrica, siano, in fondo, dei lavori molto più importanti di quelli svolti dai manager dell’alta moda o della finanza.

Perlomeno sotto l’aspetto della funzione sociale, in quanto garantiscono la soddisfazione dei bisogni essenziali.

Pertanto, se quasi tutti abbiamo rinunciato al consumo e alla condivisione dei pasti in un ristorante o in una mensa aziendale, di certo, non avremmo assunto lo stesso comportamento inibitorio, se avessimo trovato i supermercati vuoti. Gli episodi di panico collegati alla mancanza di generi alimentari essenziali sono scemati gradualmente, quando si è percepito o, forse, si è compreso che c’erano dei lavoratori che non rimanevano a casa, continuavano a produrre, nonostante gli elevati rischi a cui erano esposti. Non solo perché c’era un vincolo contrattuale esterno, un “obbligo padronale o istituzionale” che doveva essere ottemperato, ma soprattutto perché, a mio avviso, avvertivano – e continuano ad avvertire – la responsabilità sociale del lavoro che stavano esplicando e sapevano, forse inconsapevolmente, che da un loro rifiuto ne sarebbe scaturito un caos generale.

Tuttavia, alla luce di questi ultimi aspetti positivi, che abbiamo cercato di delineare, la situazione economica e sociale si è aggravata ulteriormente: in Europa sono circa 40 milioni i lavoratori per i quali si è dovuti ricorrere agli ammortizzatori sociali, nella sola Germania circa 10,7 milioni di lavoratori sono stati coinvolti nel cosiddetto Kurzarbeit, cioè il lavoro a tempo parziale integrato dai sussidi del Governo.

In queste circostanze anche gli inguaribili ottimisti sono arrivati alla conclusione che la ripresa complessiva del sistema sia ostacolata, sebbene, a maggioranza, i rappresentanti dei Governi nazionali siano riusciti ad allentare l’asfissiante Patto di Stabilità e abbiano promesso d’inondare l’economia reale con un fiume di denaro.

Sulla questione del denaro, però, si apre una disputa interminabile che, per certi aspetti, sembra quasi insanabile. Poiché la stragrande maggioranza delle persone, da una parte, si accosta ad esso in maniera feticistica e gli attribuisce un potere magico, dimenticando che corrisponde ad un rapporto sociale; dall’altra, esso diventa l’oggetto del contendere tra gli strati sociali contrapposti, e in questa lotta, se i lavoratori, i disoccupati, i precari e tutti coloro che costituiscono la stratificazione sociale meno abbiente, non riusciranno a trovare un linguaggio comune, le loro istanze finiranno per disperdersi, ancor di più, in mille rivoli, soccombendo alle pressioni della rendita finanziaria e fondiaria, nonché alle prevaricazioni degli imprenditori.

I quali, com’è già evidente, finiscono per sottrarre la fetta più grossa della torta, con la stampella della politica.

In che cosa consiste il linguaggio comune, nel quadro dei rapporti sociali di produzione in cui siamo immersi?

In primo luogo, significa capire che se la politica non riesce a cogliere i cambiamenti repentini a cui stiamo assistendo, con il precipitare della crisi, allora non possiamo delegare, in modo unilaterale i problemi che viviamo ad altri, come se noi non fossimo parte del problema.

In altri termini non possiamo aspettarci che i rappresentanti della politica nazionale si pongano il problema dei problemi, ossia la disoccupazione, se noi stessi non ce lo poniamo.

Significa, altresì, essere in grado d’individuare le questioni dirimenti, ogni volta che si presentano nel contesto di riferimento e quindi far notare, per esempio, che l’attuale Ministro del lavoro ha compiuto un notevole passo indietro, rispetto agli annunci fatti all’inizio del mese di maggio, sulla possibile riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Affinché la formulazione della norma sparisse dall’orizzonte, è bastato un solo ringhio da parte di Confindustria; di conseguenza, lo slancio politico iniziale ha partorito il Fondo nuove competenze (art. 88 del Decreto “Rilancio”), qualcosa di completamente diverso dall’idea che è stata espressa precedentemente.

L’articolo parla di rimodulazione dell’orario di lavoro per quelle imprese che rispettino determinati parametri e dimostrino di essere in difficoltà. Pertanto qualora si trovino in una situazione di calo delle vendite e della produzione, esse possono ridurre l’orario di lavoro dei loro dipendenti, senza intaccare il salario, poiché hanno la facoltà di accedere al Fondo di circa 230 milioni di euro, a patto che quegli stessi lavoratori si sottopongano al vincolo della formazione.

Quindi, si ritorna nella medesima gabbia delle illusioni: le imprese sostengono che la mancanza di lavoro dipenda dalla formazione inadeguata dei lavoratori, la politica avalla la tesi, i sindacati, per lo più, assistono alla festa che i formatori si apprestano a godere.

In questo processo, sarebbe opportuno che i lavoratori riuscissero a discernere che la loro ricollocazione mediante i corsi di formazione, pagati profumatamente e a dismisura, nella migliore delle ipotesi, celi un duplice messaggio: il primo trasmette, sia sotto il profilo della forma sia del contenuto, mutatis mutandis, trovatevi un altro lavoro, mentre il secondo rende evidente che un’Agenzia Formativa sia in procinto di celebrare i funerali all’azienda.

Eppure, nel procedere del nostro ragionamento, non possiamo non rilevare le sfumature logiche di quei soggetti che agiscono nella direzione di rompere il circolo vizioso, in quanto, su questa via, riusciamo a cogliere le variazioni che mettono in discussione le forme di pensiero monolitiche ed uniformi, che sfociano nell’apatia, nella monotonia, nell’inerzia ed infine nella regressione.

A tal proposito occorre rilevare un altro aspetto degno di nota, legato alla crisi epidemiologica e che è stato preso in considerazione, in modo accidentale, nel mese di aprile, dalla Task force del Ministero dell’innovazione: nel cercare di trovare una soluzione al distanziamento sociale, nei luoghi di lavoro, hanno suggerito una turnazione che ruotasse attorno alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, precisando che lo Stato avrebbe contribuito a sostenere la spesa aggiuntiva di un simile intervento, poiché, la sua attuazione avrebbe comportato dei costi inferiori a quelli della cig a zero ore

Purtroppo, quest’ultima opzione è rimasta una pura ipotesi contabile, che è durata come il battito delle ali di una farfalla. Pertanto, a livello politico non è stata accolta, non è stata recepita, per l’esito a cui è approdato il Governo, ovvero l’articolo qui sopra citato, ma anche per la mancanza di consapevolezza sull’argomento, non è stata recepita dalla gran parte dei lavoratori dipendenti e relative organizzazioni sindacali.

Perciò, un cambiamento positivo nei rapporti lavorativi non può avvenire senza la spinta degli artefici della produzione, di tutti coloro che ogni giorno s’ingegnano per mettere in moto quei processi lavorativi che consentono di trasformare la materia grezza in prodotti finiti e utili a soddisfare i più disparati bisogni, che permettono di erogare quei servizi indispensabili alla cura, alla crescita culturale, alla mobilità di tutte le persone, che ci rendono possibile l’accesso all’acqua potabile quando apriamo un rubinetto nelle nostre case e così via.

Ma tutto questo non è sufficiente. Occorre anche prendere atto che la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non può venire alla luce, non può prendere corpo, se i venditori delle proprie prestazioni lavorative non sono capaci di affrontare il conflitto con i proprietari dei mezzi di produzione, mentre trovano gioco facile nel farsi la concorrenza tra di loro e quindi sono coinvolti in meccanismi che mirano ad allungare i tempi di lavoro ed abbassare i salari.

Nel trovarci atomizzati, frastagliati, frammentati, precarizzati, parcellizzati, abbiamo perso di vista il senso e le radici della storia e abbiamo dimenticato, che in Italia, per esempio, il riconoscimento della settimana lavorativa di 8 ore per 6 giorni avvenne nel 1919, come conseguenza delle lotte e delle occupazioni delle fabbriche da parte del movimento operaio.

Dalla proposta della Prima Internazionale del 1866, che rivendicava l’introduzione del limite legale di 8 ore alla durata delle attività lavorative, fino alla sua attuazione, durante il cosiddetto Biennio Rosso 1919/20, passarono 54 anni.

Fu solo grazie alla ripresa del ciclo delle lotte operaie negli anni '60 del secolo scorso che si approdò, nei primi anni '70, agli accordi contrattuali che prevedevano una settimana lavorativa di 40 ore, guadagnando così un altro giorno di riposo a settimana, senza decurtazioni di salario.

Se il movimento dei lavoratori langue, non riesce a trovare dei valori solidali comuni, non è capace di elaborare una sintesi delle varie rivendicazioni particolari, allora è in difficoltà, soccombe per l’elevato tasso di disoccupazione, cade nella guerra tra poveri, e così via dicendo.

Sulla base di queste ultime considerazioni, quindi, ci chiediamo: cosa accade nel mondo accademico internazionale che è in contrasto con i fautori del liberismo selvaggio e con i sostenitori della flessibilità lavorativa a gogo?

Ebbene, tra i tanti articoli che hanno cercato di analizzare e quindi di trovare soluzioni coerenti ai problemi sollevati, con l’intensificarsi della crisi economica odierna, ho selezionato Democratizing work (3), un appello condiviso da 3.000 ricercatori di tutto il modo e pubblicato su 37 giornali internazionali, in 25 lingue diverse.

Gli autori, durante le fasi più acute del lockdown, osservano, colgono e giustamente rilevano una serie di contraddizioni che normalmente non sono evidenti, quindi affermano una tesi che, in qualche modo, collima con il nostro modo di procedere, rispetto all’importanza che il lavoro assume nelle relazioni sociali, per ciò che concerne la soddisfazione reciproca di quei bisogni che rendono la vita degna di essere vissuta.

E siccome non viviamo in un mondo completamente automatizzato, ci sono milioni di persone che ogni giorno si alzano, fanno la colazione e si spostano verso quei luoghi di lavoro dove svolgono attività essenziali, così come ci sono altri milioni di lavoratori che svolgono attività simili, effettuando turni di notte.

Di questo mondo sommerso e quasi invisibile, in tanti si sono accorti solamente durante la Pandemia. Infatti, molti di quelli che sono rimasti a casa, successivamente al blocco delle attività su tutto il territorio nazionale, hanno cercato di entrare in empatia con quei lavoratori che mettevano in pericolo la propria salute, la loro stessa vita; inoltre, nelle grandi città, tutti sapevamo, implicitamente, che se l’operatore ecologico non avesse prestato il proprio servizio, saremmo stati circondati dalla spazzatura.

Quindi, per quest’ultimo esempio come per tantissimi altri, possiamo delineare il concetto di “lavoro essenziale”, ossia quell’attività svolta da un essere umano che ci consente di far fronte alla gestione dei problemi complessi, che sorgono da una miriade di interazioni sociali poste in essere da individui e gruppi che si muovono in base alla dimensione spaziale e quella temporale.

Un simile approccio rinforza l’assunto, come ci ricordano gli autori dell’articolo, che il lavoro non può essere considerato solo come una risorsa tra le altre o addirittura posto alla stessa stregua di una merce, di cui il management aziendale possa disfarsi a proprio piacimento e secondo dei puri calcoli di convenienza economica.

Senza il dispendio di energie e di tempo, senza l’applicazione della loro intelligenza alle attività che, di volta in volta, sono chiamati a svolgere, per conto e sotto il rigido controllo dei dirigenti di aziende private (4), che devono rispondere agli interessi degli azionisti, una gran parte dei beni e dei servizi, indirizzati alla soddisfazione dei bisogni, non verrebbero alla luce.

Nel documento, infine, ci sono altri due aspetti che attirano la nostra attenzione.

Il primo pone in evidenza la necessità di controbilanciare il potere decisionale dei Consigli d’Amministrazione, nel senso che si avanza la proposta per la creazione di un organismo che rappresenti i lavoratori nelle imprese, allo scopo di partecipare, in modo attivo e con un determinato peso istituzionale, a tutte quelle importanti decisioni da cui dipendono le sorti delle aziende; ci sono delle scelte per le quali la condizioni d’esistenza di migliaia di lavoratori e lavoratrici assumono una valenza superiore ai giochetti di potere che vengono messi in mostra dai dirigenti e dai proprietari dei mezzi di produzione. Ma questo passaggio implica, non solo il riconoscimento che i dipendenti siano in grado di partecipare alla gestione delle imprese, ma anche la messa in discussione della proprietà privata del capitale fisso.

Il secondo aspetto, oltre a essere strettamente connesso al primo, è, per certi versi, molto più complesso, poiché fa riferimento all’articolo 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che afferma: ogni persona ha diritto al lavoro.

Qui, nell’appello del documento si riconosce che la condizione necessaria e sufficiente, affinché si creino le circostanze per democratizzare i rapporti lavorativi, sia quella di assicurare un impiego a tutti. Altrimenti detto, se non si realizza “il pieno impiego”, non è possibile spingersi al di là dei rapporti sociali di produzione che stiamo vivendo negli ultimi decenni.

Finché persistono i disoccupati, i working poors, gli stagisti, i tirocinanti, i lavoratori intermittenti, a chiamata, pronti per l’uso, eccetera, sarà molto difficile democratizzare le condizioni di vita di tutti i lavoratori. Tuttavia, gli studiosi che hanno sottoscritto quest’ultima rivendicazione, che costituisce una parte fondamentale del documento, non si sono resi conto, a mio modo di vedere, che non vengono indicate le strategie per conseguire l’obiettivo ritenuto prioritario.

In questo caso, si affidano ad un generico appello alla creazione di una Garanzia di Impiego, che poggia su una norma generale ed astratta, anche se di nobile coniatura e che noi condividiamo, ma nulla dice su quale strada percorrere, sul come individuare le soluzioni coerenti con lo sviluppo delle forze produttive.

Ecco perché, in relazione a questi ultimi concetti, penso sarebbe interessante porre due domande agli autori del documento:

1) come mai nelle vostre proposte non ci sono tracce, non ci sono collegamenti con tutta la storia del movimento per la riduzione dell’orario lavorativo?

2) è possibile democratizzare i rapporti lavorativi, se si prescinde dalla lotta per redistribuzione del lavoro complessivo sociale?

Note:

(1) Six-hour shifts satisfied Kellog’s appetite for productivity, InformationWeek, 04/05/202, https://www.google.it/url

(2) Sorry we missed you, di Ken Loach, e La legge del mercato, di Stéphane Brizé, sono solo due film documentari, tra i tanti, che descrivono in modo lucido e puntuale il degrado e il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, in contesti diversi dall’Italia.

(3) Isabelle Ferreras, Julie Battilana, Dominique Méda, Democratizing work, il manifesto, 16/05/2020

(4) Qualcosa del genere accade anche nel settore pubblico, sebbene con modalità diverse, ci limitiamo, però, a sottolineare che il processo di privatizzazione, negli ultimi 30 anni, si è spinto a tal punto da far assomigliare l’organizzazione degli Enti pubblici sempre di più a quella delle aziende private, manca solo il fatto che nei loro Statuti dichiarino che perseguono il profitto.

Fonte

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