Con le proteste contro il presidente Lukashenko che non accennano a
fermarsi, in questo inizio di settimana ha tenuto banco in Bielorussia
la misteriosa sparizione e le ricostruzioni conflittuali della sorte
dell’ultima leader dell’opposizione – o presunta tale – rimasta in
patria, Maria Kolesnikova. Se la tenuta del regime di Minsk continua a
non essere messa in serio dubbio dalla maggioranza degli osservatori,
nondimeno l’Occidente e i paesi dell’Europa orientale alleati di
Washington e Bruxelles continuano a soffiare sul fuoco del malcontento,
con l’obiettivo non tanto di appoggiare le aspirazioni democratiche
della popolazione bielorussa, quanto di aggiungere un altro tassello
alla strategia di accerchiamento della Russia di Putin.
Per quanto riguarda la Kolesnikova, il panico si era scatenato lunedì
in Occidente dopo la diffusione della notizia del suo rapimento in
centro a Minsk da parte di uomini mascherati che l’avrebbero spinta in
un van di colore scuro. Assieme a lei c’erano altri due attivisti
dell’opposizione, Anton Rodnenkov e Ivan Kravtsov. Fonti della polizia
bielorussa, citate dall’agenzia di stampa russa Interfax, avevano invece assicurato che nessuno dei tre era in stato di fermo.
Per alcune ore, l’enigma circa lo status di questi ultimi è stato al
centro dell’interesse della stampa internazionale e, soprattutto, ha
dato la possibilità ai governi occidentali e anti-russi in genere di
montare una nuova campagna contro la brutalità di Lukashenko. Il capo
della diplomazia UE, Josep Borrell, e i ministri degli Esteri di
Germania e Regno Unito hanno subito espresso preoccupazione per le
condizioni della Kolesnikova e dei suoi due colleghi. Da Bruxelles sono
poi arrivate minacce di sanzioni contro membri della cerchia di potere
di Lukashenko, sia per il presunto rapimento sia per le violenze seguite
alle proteste esplose dopo le discusse elezioni presidenziali del 9
agosto scorso.
Durissima è stata in particolare la presa di posizione del ministro
degli Esteri lituano, Linas Linkevicius, il cui paese, assieme alla
Polonia, coerentemente con la tradizionale feroce attitudine russofoba è
in prima linea nella battaglia contro Lukashenko. Linkevicius ha
definito i metodi a cui sarebbe stata sottoposta Maria Kolesnikova degni
della NKVD, la polizia politica dell’Unione Sovietica di Stalin. Lo
stesso diplomatico lituano ha affermato che simili episodi non sono
ammissibili nell’Europa del 21esimo secolo.
Se forse non lo sono da questa parte dell’oceano, lo sono invece
negli Stati Uniti, di cui la Lituania è uno strettissimo alleato. Nel
corso delle proteste contro la brutalità della polizia americana degli
ultimi mesi, infatti, nelle città USA sono stati documentati svariati
rapimenti “extra-giudiziari” di manifestanti, immobilizzati da individui
non identificati e caricati su veicoli privi di segni distintivi. I
fermati in questo modo sono stati rilasciati dopo molte ore, senza che
contro di loro sia mai stato emesso alcun provvedimento giudiziario
ufficiale.
Ad ogni modo, martedì sono poi emerse versioni dei fatti
contrastanti. I leader dell’opposizione Rodnenkov e Kravtsov sarebbero
giunti in Ucraina. A confermarlo è stato il ministero degli Interni di
questo paese, che ha precisato come il loro abbandono del territorio
bielorusso non sia stata una scelta volontaria ma seguita a un
provvedimento di espulsione deciso da Minsk.
Meno chiaro è il caso della Kolesnikova. Anch’essa avrebbe dovuto
essere espulsa e spedita in Ucraina, ma le cose non sono andate come
dovevano per Lukashenko. A questo proposito, sempre da Kiev è arrivato
un dettaglio che ha infiammato gli account sui social network dei
sostenitori occidentali dell’opposizione bielorussa. La Kolesnikova
avrebbe cioè distrutto il suo passaporto, impedendo così agli agenti dei
servizi di sicurezza bielorussi di farle oltrepassare il confine con la
forza.
Diversa
è stata la ricostruzione della TV di stato bielorussa. In questo caso, i
tre oppositori di Lukashenko erano diretti volontariamente verso il
confine con l’Ucraina prima dell’alba di martedì ma, una volta arrivati
nei pressi di un check-point, la loro auto avrebbe accelerato per
evitare una pattuglia di guardie di frontiera. Un qualche incidente
sarebbe poi seguito e Maria Kolesnikova avrebbe abbandonato
l’automobile, per poi essere fermata e messa agli arresti dagli agenti
di confine.
La Kolesnikova rimarrebbe dunque in territorio bielorusso, mentre le
altre principali leader auto-proclamate della rivolta si trovano ormai
all’estero. Sviatlana Tsikhanouskaya, il volto più noto in Occidente
dell’opposizione e prima sfidante sconfitta da Lukashenko nelle
presidenziali, ha trovato rifugio in Lituania, mentre Veronika Tsepkalo è
in Polonia. Come queste ultime, che avevano preso il posto sulle schede
elettorali dei rispettivi mariti, anche la Kolesnikova aveva sostituito un
candidato arrestato e a cui era stato impedito di correre per la
presidenza, il banchiere Viktor Babariko.
A un mese dalle contestate elezioni, la mobilitazione popolare in
Bielorussa era tornata a livelli importanti nella giornata di domenica
con una manifestazione che, secondo alcuni gruppi dell’opposizione, ha
potuto contare su oltre centomila persone nella sola Minsk. Le forze di
sicurezza di Lukashenko erano nuovamente intervenute ricorrendo spesso a
metodi brutali che, come all’inizio della protesta, sembrano essere una
delle ragioni principali del perdurare delle dimostrazioni.
Gli arrestati nel fine settimana sono stati un centinaio e ancora una
volta le preoccupazioni maggiori del regime sembrano riguardare gli
scioperi e le manifestazioni nelle fabbriche del paese, molte delle
quali controllate dallo stato. Se la mobilitazione dei lavoratori
bielorussi appare più o meno sotto controllo, grazie ai sindacati
ufficiali così come a licenziamenti e intimidazioni, ci sono segnali di
un persistente quanto giustificato malcontento nei confronti di
Lukashenko.
La situazione in questo senso non promette nulla di buono se si
considera l’impatto delle proteste sull’economia del paese. I dati
forniti lunedì dalla Banca Centrale bielorussa hanno mostrato ad esempio
come l’ex repubblica sovietica abbia bruciato quasi un sesto delle sue
riserve auree e di valuta estera nel solo mese di agosto per sostenere
la propria moneta durante il caos di queste settimane.
I timori per una rivolta che possa sfuggire di mano non agitano solo
Lukashenko, ma anche la stessa opposizione filo-occidentale, riunita nel
cosiddetto Consiglio di Coordinamento. Questa è una delle ragioni che
spinge i leader della protesta a tenere aperta la porta delle trattative
con il regime. L’altro motivo è da collegare invece al vicolo cieco in
cui si ritrovano, quanto meno al momento e soprattutto per via del
sostegno assicurato da Mosca a Lukashenko. La Bielorussia è d’altronde
un elemento fondamentale per il Cremlino nella strategia di
respingimento dell’offensiva UE/NATO verso i confini russi.
Ciò
non toglie che le manovre occidentali continueranno, nel tentativo di
destabilizzare il paese facendo leva sulle frustrazioni della
popolazione bielorussa e i metodi anti-democratici di Lukashenko, la cui
permanenza al potere non è vista peraltro con particolare interesse
nemmeno dalla Russia nel medio e lungo periodo.
Le preoccupazioni dell’Occidente e dei governi di Lituania, Polonia e
Ucraina sono soprattutto per il possibile compiersi del progetto di
“Stato Unitario” tra Russia e Bielorussia, sul tavolo da due decenni ma
sempre osteggiato da Lukashenko prima della recente marcia indietro,
resasi necessaria per incassare l’appoggio di Putin. Con questo piano di
integrazione realizzato, il fronte anti-russo vedrebbe infatti
spegnersi del tutto e anche per il futuro qualsiasi velleità di
“rivoluzione colorata”, ovvero di penetrare in Bielorussia per strappare
il paese all’orbita strategica di Mosca.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento