06/10/2020
Russia - I pigmei della chiesa ortodossa tentano di esorcizzare Lenin
Il mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa continua a non far dormire liberali e bacchettoni. Il tema è stantio. Ha perso di mordente. Bisogna escogitare sempre nuove trovate per tenerlo a galla.
Ogni tanto, quando comincia a perdere di sapore, si aggiunge olio nuovo al barattolo dei peperoncini, e così si va avanti ancora un po’. Arriva però il momento in cui si devono cambiare proprio i peperoncini.
Così con il mausoleo. Da qualche decennio, ex “comunisti”, beghini ortodossi, “democratici” delle più varie sfumature, chiedono che il corpo di Lenin – “la mummia”, come sono usi dire, credendo così, non pronunciandone il nome, di poter esorcizzare le proprie perenni paure – venga tolto dal mausoleo e messo sottoterra da qualche parte, secondo la tradizione della chiesa ortodossa.
Ora, però, questo non basta più; si deve proprio rinnovare l’intera “confezione”. La soluzione migliore, sarebbe ovviamente quella di rivendicare il ripristino della situazione architettonica ante-1924; anzi, ante-1917: le mura del Cremlino che fanno da sfondo a file di chioschi, banchi, gazebo, come moderna riedizione dei mercati sulla piazza Rossa nel XVII secolo.
Peccato che il complesso, insieme alla necropoli coi resti dei combattenti della rivoluzione d’Ottobre, sia patrimonio dell’Unesco e non si possa toccare. Ma l’Unesco non impedisce comunque che, chiunque lo desideri, ci faccia un pensierino.
E allora ecco che l’Unione degli architetti, meno di un mese fa, aveva lanciato l’idea, poi rientrata, di indire un “concorso di idee”, come quelli che vanno di moda anche tra le nostre amministrazioni comunali, sulla futura destinazione del mausoleo che, disgraziatamente per loro, deve rimanere al proprio posto.
Manco a dirlo, l’eventuale destinazione, diversa dall’attuale, prevederebbe la sepoltura del corpo di Lenin e la trasformazione della struttura, qualificata, bontà loro, quale “indiscusso capolavoro architettonico”, in museo, filiale dell’esistente museo “Aleksej Ščusev”, l’architetto che realizzò il mausoleo.
Calato il silenzio per qualche settimana, ecco che anche il metropolita Ilarion, a capo del Dipartimento sinodale per le relazioni esterne ecclesiastiche, gioca a chi la spara più grossa: dopo la sepoltura del corpo di Lenin, ha biascicato in diretta tv, e “io non ho dubbi che prima o poi, quando l’ideologia comunista sarà ‘sprofondata nel passato’, il corpo di questa persona verrà sepolto”, bisognerà trasformare il mausoleo in “museo delle repressioni di massa”.
Come mai? Semplice: “È accaduto che l’avvio del terrore rosso, l’inizio delle repressioni di massa della popolazione russa, sia legato proprio a questa persona e, naturalmente, io ritengo che la piazza Rossa non sia esattamente il luogo adatto a questo individuo”.
E se già in passato si è parlato di realizzare al posto del mausoleo una cappella o una chiesetta; se il capo del Consiglio degli esperti per l’arte e l’architettura della Chiesa ortodossa, Leonid Kalinin, fantastica della possibilità di realizzarvi un centro per riti religiosi – ma dovrebbe prima “cambiare status”, si è subito ripreso – ecco che Ilarion affonda con la pretesa che, al posto di “quell’individuo”, “traditore della patria”, sarebbe “probabilmente logico metterci un museo delle repressioni di massa“.
Ben detto, che diamine! “Millecinquecento milioni” di persone arrestate dal luglio 1937 a novembre 1938, aveva detto e ribadito una decina di anni fa, ai microfoni della nemtsoviano-naval’niana “Eco di Mosca”, il collaboratore della benemerita Memorial, lo “storico” Nikita Petrov.
Un refuso, perdinci; ma intanto fa sempre il suo porco effetto, tanto più che il “Centro Eltsin” dà il proprio patrocinio a simili trasmissioni.
Lì per lì, si erano anche dimenticati delle cifre certificate persino dal loro padre spirituale, Nikita Khuščëv – che sarebbe poi stato così solerte a riabilitare “le vittime ingiustamente represse” – il 1 febbraio 1954, secondo cui “nel periodo dal 1921 fino a oggi”, cioè nel corso di 33 anni, “per delitti controrivoluzionari sono state condannate 3.777.380 persone, di cui 642.980 alla pena capitale, 2.369.220 alla detenzione in lager e prigione per periodi fino a 25 anni, 765.180 a ssylka e vysylka” (rispettivamente: confino, espulsione, esilio in luoghi molto periferici all’interno del paese, la prima, e divieto di risiedere in alcuni specifici luoghi, la seconda). Miliardi e miliardi di “vittime del comunismo”! E il primo istigatore altri non fu che Lenin!
Risparmiamo ai lettori la specificazione particolareggiata, anno per anno, delle condanne e dei luoghi di detenzione – carcere, colonia, campo di lavoro, ecc., sia gestiti dal GULag, dalla Direzione carceraria del NKVD, o altro.
D’altronde, sono alla portata di chiunque abbia davvero intenzione di informarsi – ricordando solo che oltre i 2/3 dei reclusi nei lager del GULag, erano costituiti da criminali comuni, condannati per omicidio, rapina, contrabbando, teppismo, banditismo, ecc.; mentre i cosiddetti “repressi”, di regola, erano meno di un terzo.
Fanno eccezione, scrive lo storico Igor’ Pykhalov, gli anni 1944-1948, allorché la categoria del banditismo “ricevette un significativo incremento nelle persone dei vlasovtsi, polizei, starosti e altri fiancheggiatori dei nazisti, combattenti contro la tirannia comunista”.
Ancora più bassa era la percentuale di “politici” nelle colonie di lavoro correttivo. E anche i reclusi nei cosiddetti Lager speciali, creati nel 1948, così come nelle preesistenti prigioni speciali – vi erano concentrati i condannati per spionaggio, diversione, terrorismo, oltre a trotskisti, destri, menscevichi, socialisti-rivoluzionari, anarchici, nazionalisti, emigrati bianchi, ecc. – e che venivano occupati in lavori pesanti (sì: erano condannati a lavorare!), agli inizi del 1952 erano meno di quarantamila.
Oggi in Russia, a proposito delle repressioni degli anni ’30 e ’40, è di moda dire: “condannati senza aver fatto nulla”.
Nel corso di una conferenza di un paio d’anni fa, vennero lette alcune documentazioni degli anni ’40 e, tra la massa di delitti comuni, ce n’erano anche alcuni “politici”, con l’applicazione del famigerato art. 58 del Codice penale della RSFSR. Eccone alcuni esempi:
1942. Ottobre. Art.58, c.7. Dieci anni con confisca dei beni. Direttore di fabbrica; aveva fatto rapporto sulla conclusione dei lavori di costruzione dell’officina e invece non c’erano altro che le fondamenta (accertato dalla commissione).
1942. Ottobre. Art.58, c.9. Dieci anni. Operaio delle ferrovie; con gli amici hanno preso di petto (colloquiale: hanno bevuto; ndt) e hanno fatto fuori i materiali per la riparazione del ponte, risultato parzialmente danneggiato.
1942. Novembre. Art.58, c.13. Quindici anni con confisca dei beni. Addetto all’anagrafe; aveva negato a un ufficiale del RKKA ferito la registrazione e la residenza per il domicilio temporaneo e si era espresso nei suoi confronti in termini volgari: “Peccato che al fronte non ti abbiano ammazzato. Ora non mi faresti perdere tempo”.
1943. Gennaio. Art.58, c.16. Fucilazione. Acciuffato ex ufficiale bianco, in precedenza mandato al confino. Operava con una radio-trasmittente. Scoperta rete di sabotatori.
1943. Gennaio. Art.58, c.7. Quindici anni con confisca dei beni. Responsabile deposito combustibili e lubrificanti, sorpreso a vendere sottobanco i prodotti.
1943. Marzo. Art.58, c.8. Fucilazione. Anonimo; riacciuffato durante un riesame degli incartamenti. Con calunnie, nel 1939 aveva fatto arrestare il proprio superiore per prenderne il posto e anche un vicino di casa, per occuparne l’appartamento.
1943. Marzo. Art.58, c.17. Cinque anni. Conservava volantini di agitazione tedeschi.
1943. Maggio. Art.58, c.8. Fucilazione. Bandito aveva ucciso un uomo, risultato essere un ispettore arrivato da Mosca.
1943. Maggio. Art.58, c.7. Quindici anni. Condannato segretario del comitato distrettuale. Voleva fare rapporto sull’aratura in coincidenza con una data scaramantica. Ma, nelle nostre zone, a volte agli inizi di maggio c’è ancora la neve. Furono rovinati dozzine di macchinari e una cinquantina di cavalli furono fatti lavorare fino a farli morire.
1943. Maggio. Art.58, c.7. Dieci anni. Trattorista alticcio aveva confuso il campo, dato che c’era ancora la neve e aveva arato quello coi cereali vernini.
Il commento dell’oratore alla conferenza era stato: “La versione secondo cui l’articolo 58 veniva applicato forzatamente, per via dell’eccessiva mitezza degli altri articoli del Codice Penale ‘totalitario’, è qui confermata in maniera eccellente“.
Ora, la molto legittima domanda che sorge spontanea al lettore è: serve ai comunisti, in Italia, conoscere le omelie dei moderni liberali russi e rivangare le storie dei loro antesignani?
Beh. Se la molto moderna “Fact-check, Stopfake.org”, mentre taccia di “informazioni false”, per dire, quella di tre candidati dell’opposizione bielorussa con cittadinanza israeliana, si prende anche la briga di oscurare post Facebook sulle condanne inflitte in URSS negli anni ’30 contro i ladrocini di proprietà pubbliche, in quanto “negazione dei crimini dello stalinismo”, o di censurarne altri a proposito dei Paesi che, a partire dal 1933 e fino al luglio 1939 avevano concluso patti, accordi, intese con la Germania hitleriana, prima del patto di non aggressione tedesco-sovietico del 23 agosto 1939; se una banda di eurosproloquiatori, con il molto attuale obiettivo di mettere oggi al bando comunismo e comunisti, si ritiene in diritto, ad ogni decennale di quel 23 agosto, di infamare l’Unione Sovietica e i comunisti di tutto il mondo; allora può tornare utile conoscere anche come, a carte latitudini, ci si diletti a rotolarsi nei liquami dell’odierno liberalismo russo post-eltsiniano.
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