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02/12/2020

La solitudine dell'Armenia/2. L'assalto turco al Caucaso e il cinismo della UE

di Marco Santopadre

(per la prima parte clicca qui)

Non si allenta la tensione in Armenia tra le opposizioni e l’esecutivo del primo ministro Nikol Pashinyan, accusato di aver firmato una vera e propria resa nei confronti dell’Azerbaigian. I detrattori del premier sperano ora di ottenerne la destituzione o quantomeno le dimissioni e la convocazione di nuove elezioni, mentre il presidente Armen Sarkissian preme per la costituzione di un governo di unità nazionale.

Intanto gli sfollati che abbandonano le loro case nei territori conquistati da Baku o ceduti agli azeri dall’accordo siglato tra Armenia, Azerbaigian e Russia continuano a raggiungere Erevan, mentre la capitale della Repubblica di Artsakh, Stepanakert, è ormai una città fantasma. A partire sono anche migliaia di siriani e libanesi di origine armena che negli ultimi anni, per sfuggire alla guerra civile i primi e alla crisi economica e politica i secondi, si erano trasferiti nei territori strappati a Baku con la guerra del '91-'94.

Alcuni sono stati attirati anche negli ultimi mesi dagli espliciti inviti provenienti da Pashinyan che, dopo gli iniziali toni concilianti nei confronti di una soluzione negoziale del conflitto, non ha esitato a esasperare il suo discorso nazionalista. Ed ora quelli che la propaganda azera e turca definisce “coloni” siriani e libanesi hanno perso tutto e si sono trasformati in profughi, o si ritrovano in un territorio assediato dalle truppe dell’Azerbaigian.

Soprattutto grazie ai droni kamikaze israeliani (Harop) e a quelli armati di missili a guida laser turchi (Bayraktar), le truppe azere hanno velocemente sbaragliato le milizie armene riconquistando dopo quasi 30 anni circa il 40% del Nagorno-Karabakh, a nord dell’enclave e soprattutto a sud, vicino al confine con l’Iran, dal quale l’Artsakh rimane ora completamente tagliato fuori.

Pur avendo evitato la catastrofe totale, quando i combattimenti lambivano ormai la periferia di Stepanakert, l’intervento pacificatore russo ha cristallizzato una situazione sul campo nettamente favorevole all’Azerbaigian. Il timore degli armeni è che Baku possa tentare di spazzare via ciò che rimane dell’Artsakh, anche se la presenza sul territorio di 2mila militari russi rappresenta, almeno per ora, un deterrente considerevole.

Non mancano quindi tra gli armeni le recriminazioni nei confronti della strategia di Mosca, accusata di essere intervenuta troppo tardi e di tenere il piede in due scarpe per non rompere con Baku e Ankara. Alcune delle correnti più radicali del nazionalismo armeno potrebbero accentuare la propria distanza dalla Russia, che pure rimane l’unico reale garante all’integrità territoriale e all’esistenza stessa dell’Armenia. Un diffuso disincanto nei confronti del soffocante e al tempo stesso altalenante abbraccio russo potrebbe favorire  l’apertura di eventuali spazi di manovra per altre potenze, prime tra tutte la Francia.

Gli appetiti francesi e il cinismo dell’Ue

Nei giorni scorsi alcuni aerei carichi di aiuti umanitari sono partiti da Parigi alla volta di Erevan, mentre il Senato francese votava a stragrande maggioranza (con un solo voto contrario e l’astensione di En Marche, il partito di Macron) una risoluzione che chiede all’esecutivo di riconoscere la sovranità dell’Armenia sul Nagorno-Karabakh.

La Francia ospita più di 600mila armeni, e negli ultimi mesi è stata protagonista di una feroce polemica con la Turchia dopo gli strali di Macron contro quello che ha definito il “separatismo islamico” nell’esagono, sullo sfondo della competizione tra i due paesi nell’Egeo; in passato, inoltre, la scelta di Parigi di riconoscere ufficialmente il genocidio armeno aveva mandato Erdoğan su tutte le furie. La Francia tenta di recuperare un minimo di ruolo nel Caucaso e il suo storico ascendente sull’Armenia, dopo che durante il conflitto con l’Azerbaigian il suo tentativo di mediazione è stato ignorato e il gruppo di Minsk dell’OSCE al quale appartiene, insieme a Russia e Stati Uniti, è stato completamente scavalcato dall’iniziativa di Mosca.

Dichiarazioni roboanti a parte, però, Parigi è allineata alla posizione di equidistanza che l’Unione Europea ha adottato nell’ennesimo conflitto caucasico. Bruxelles ha stretto vari accordi con Baku per assicurarsi forniture di gas che rendano l’Ue meno dipendente dalle esportazioni della Federazione Russa. Sono numerosi i corridoi energetici e commerciali che collegano l’Azerbaigian alla Georgia e alla Turchia, bypassando i corridoi russi: oltre al gasdotto transanatolico e a quello Baku-Tbilisi-Erzurum,ci sono anche l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars.

Nelle scorse settimane è entrato poi in funzione il TAP (Trans Adriatic Pipeline), il metanodotto che porta il gas azero estratto nel giacimento offshore di Shah Deniz II, nel Mar Caspio, fino al Salento, dopo aver attraversato Georgia, Turchia, Grecia e Albania.

Per quanto indebolito dal crollo del prezzo degli idrocarburi, l’Azerbaigian può contare su circa mille miliardi di metri cubi di riserve di gas naturale e su sette miliardi di barili di riserve petrolifere complessive, e costituisce quindi un partner assai più appetibile e interessante della piccola Armenia.

Le esportazioni dell’Azerbaigian valgono circa 15 miliardi di dollari all’anno. L’Italia è il principale partner commerciale dell’Azerbaigian, con un interscambio pari a quasi 6 miliardi di dollari annui, mentre il volume degli scambi tra Baku e Ankara si ferma, per ora, a neanche 2 miliardi. L’italiana Leonardo ha venduto all’Azerbaigian gli aerei d’addestramento M 346 e spera di piazzare anche la versione da combattimento.

Non stupiscono quindi le parole di circostanza pronunciate dal ministro degli Esteri Di Maio a proposito del conflitto azero-armeno e la generale accondiscendenza dell’esecutivo italiano nei confronti dell’espansionismo turco e delle continue provocazioni di Ankara.

L’assalto turco al Caucaso

Se dal punto di vista formale il vincitore del recente conflitto è l’Azerbaigian, sul piano internazionale ad avvantaggiarsene è soprattutto la Turchia.
Il regime di Erdoğan ha adeguatamente preparato le forze armate azere rifornendole di droni e di altri armamenti moderni che hanno reso l’arsenale armeno, per lo più di provenienza russa, in gran parte obsoleto.

Come già accennato, sono stati soprattutto i droni in dotazione all’esercito azero a fare la differenza, permettendo a Baku di eliminare in pochi giorni centinaia di pezzi di artiglieria e di tank armeni, oltre a varie batterie antieree, lasciando le truppe di Erevan e Stepanakert indifese. Le ultime forniture di droni turchi – per un valore di circa 64 milioni – sono arrivate a Baku poche settimane prima dell’inizio del conflitto.

Un’inchiesta del giornalista Andrés Mourenza pubblicata dal quotidiano spagnolo El País ricorda come la maggior parte dei droni forniti all’Azerbaigian siano stati prodotti dalla Baykar Technologies di Selçuk Bayraktar, genero del presidente Erdoğan. Con un costo medio di 5 milioni, un TB2 della Baykar è assai più economico di un caccia (che ne costa anche 100) e può condurre bombardamenti altrettanto micidiali senza oltretutto esporre i piloti ad alcun rischio, essendo gestito da remoto.

I sistemi di difesa antiaerea armeni, compreso il russo “Repellent” studiato appositamente per contrastare i droni, si sono dimostrati in gran parte inefficaci contro i TB2 turchi e gli Harop israeliani. L’ottima performance realizzata in Nagorno-Karabakh costituisce un ottimo spot per l’azienda del genero di Erdoğan, che dopo aver venduto vari esemplari all’esercito turco (già impiegati contro i curdi e le truppe siriane) e alle milizie jihadiste in Siria e in Libia, ora aspira a ritagliarsi altre fette di mercato competendo con i giganti americani, russi e cinesi.

Senza intervenire ufficialmente, Ankara ha inviato al fronte propri consiglieri militari, e soprattutto ha schierato migliaia di mercenari jihadisti – le stime più verosimili parlano di duemila – reclutati e addestrati nei territori del Nord della Siria che Ankara ha occupato nell’ottobre del 2019 con l’operazione “Sorgente di Pace”.

Dopo aver combattuto in Libia sempre per conto di Ankara, a essere impiegati in prima linea risparmiando così ingenti perdite alle truppe azere sono stati i miliziani della “Divisione Hamza” e delle brigate “Sultan Murad” e “Sultan Suleiman Chan”, in alcuni casi spediti a Baku qualche giorno prima dell’inizio dei combattimenti, a dimostrazione della premeditazione che ha guidato la strategia turco-azera.

D’altronde già durante il lungo conflitto all’inizio degli anni ’90, mujaheddin afghani, volontari ceceni, Lupi Grigi turchi e miliziani bosniaci combatterono a fianco dell’esercito dell’Azerbaigian, mentre a dar man forte agli armeni ci pensarono soprattutto cosacchi russi e ucraini e volontari provenienti da Ossezia e Grecia.

Dalla fine di luglio all’inizio di agosto di quest’anno, l’esercito turco ha condotto imponenti esercitazioni congiunte con quello azero, con il coinvolgimento di truppe di terra, veicoli blindati, artiglieria, aviazione militare e della contraerea.

Durante i combattimenti Erdoğan ha incitato più volte Ilham Aliyev a non fermarsi, e a riprendersi non solo le province azere conquistate da Erevan nel '91-'94, ma anche lo stesso Nagorno-Karabakh. Opponendosi fino a quando ha potuto a qualsiasi tregua, il “sultano” ha preteso di sedere al tavolo negoziale come parte in causa e ora si prepara a mandare soldati turchi sul terreno in qualità di peacekeepers.

Per quanto la Russia, attraverso il cessate-il-fuoco del 9 novembre, abbia ristabilito il proprio ruolo di primus inter pares nell’area, estendendo la propria presenza militare al Nagorno-Karabakh e riuscendo ad escludere la Turchia dalla firma dell’accordo, è evidente che Ankara è riuscita a penetrare di prepotenza nel “cortile di casa” di Mosca, ridimensionando l’influenza di quest’ultima nello spazio geopolitico ex sovietico.

Com’era accaduto già nel quadrante siriano ed in quello libico, la Russia è di fatto costretta ad una coabitazione competitiva con il progetto neo-ottomano di Erdoğan, che dopo alterne vicende e numerosi passi falsi soprattutto in Egitto, in Tunisia e nella stessa Siria, si protende ora verso oriente, alla ricerca di una maggiore egemonia nei confronti delle varie repubbliche ex sovietiche turcofone e islamiche.

La vittoria sull’Armenia rappresenta una boccata d’ossigeno per il “sultano” che può usarla per puntellare la sua popolarità in patria, erosa dalla crisi economica aggravata dall’emergenza Covid, facendo appello al trasversale nazionalismo del panorama politico turco, rinfocolato dalle nuove opportunità panturche.

Anche dal punto di vista economico Ankara potrebbe trarre vantaggio dall’avventura armena. Il cessate il fuoco prevede la realizzazione, attraversando il territorio armeno, di una via di collegamento che congiunga l’Azerbaigian con l’enclave rappresentata dalla Repubblica Autonoma di Naxçıvan, con cui Ankara condivide un breve tratto di frontiera. Ammesso che l’Armenia ne consenta la realizzazione, la Turchia potrebbe così aprirsi un prezioso corridoio strategico fino al Mar Caspio, e da lì proiettarsi ulteriormente verso est.

Mentre la SOCAR (State Oil Company of Azerbaijan Republic) potrebbe sommare nuovi investimenti a quelli già realizzati in Turchia, ben 19 miliardi di dollari in raffinerie e società di distribuzione dei prodotti petroliferi, il debito contratto da Baku con Ankara per sostenere lo sforzo bellico rappresenta per quest’ultima un’ulteriore occasione per rafforzare la propria influenza sulla “nazione sorella”. 

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