Il Consiglio dei Ministri del 28 ottobre scorso ha approvato il disegno di legge di bilancio (DLB) per il 2022, il più importante atto di politica economica di un Governo. Dopo mesi di elucubrazioni sulla “vera natura” di una compagine governativa che unisce praticamente tutto l’arco parlamentare, da LeU alla Lega, guidata da una equipe di cosiddetti tecnici siamo alla prova dei fatti. La legge di bilancio, infatti, ci dice, senza possibilità di equivoci, quale sarà la posizione del Governo nei principali campi dell’organizzazione sociale ed economica del Paese per il prossimo anno.
Studiare una legge di bilancio significa concentrare l’attenzione su due aspetti dell’intervento pubblico in economia: da un lato, l’ammontare delle risorse stanziate; dall’altro, come e dove queste sono allocate. Il primo aspetto si studia attraverso la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) e il Documento Programmatico di Bilancio (DPB), che stabiliscono il perimetro della manovra – il DLB – in termini di saldi di bilancio pubblico. Il secondo aspetto, il contenuto della manovra, si evince dalla legge di bilancio, un provvedimento appena definito nei suoi aspetti salienti (con il relativo disegno di legge, per l’appunto), ma che sarà oggetto di numerose revisioni da qui alla fine dell’anno nel suo iter parlamentare.
Il primo aspetto da analizzare è dunque il suo peso specifico: a prescindere dal contenuto delle misure fiscali, il Governo decide di spendere molto o poco? Rispondendo a questa domanda, saremo in grado di valutarne, a grandi linee, l’impatto macroeconomico, cioè il suo effetto sulle grandezze aggregate dell’economia, in primis il PIL e l’occupazione.
Il contesto entro cui si decide l’attuale manovra è quello della lenta ma progressiva fuoriuscita dall’emergenza pandemica, con il PIL che è caduto all’incirca del 10% nel 2020 e si risolleva del 6% nell’anno in corso, nonostante la precedente legge di bilancio (2021) avesse attutito il colpo, realizzando un disavanzo del 9,6% del PIL. Ciò significa che il crollo del PIL del 2020 è stato così profondo da non essere stato recuperato nonostante un ricorso alla spesa pubblica maggiore di quanto sia stato sottratto all’economia attraverso le tasse. Come abbiamo avuto modo di ripetere, persino la manovra del 2021 è stata inadeguata rispetto alla gravità della crisi pandemica, come dimostra ampiamente il crollo del 10% dell’occupazione (espressa in termini di unità lavorative annue), spia di un drastico abbassamento dei livelli di attività e della capacità di spesa del settore privato. In parole povere, lo sforzo fiscale si è rivelato insufficiente a recuperare i livelli di attività pre-crisi.
Bene, e cosa programma il Governo Draghi per il 2022? Ovviamente, riduce il deficit pubblico drasticamente, portandolo da quel 9,6% al 5,6%: il Governo decide di dimezzare uno sforzo già insufficiente, riportando il Paese sulla via dell’austerità, ossia verso il rispetto di quei vincoli di bilancio che hanno messo in ginocchio l’intera periferia d’Europa. Questo è il primo dato da considerare nella nostra analisi: la NADEF prima e il DPB dopo sanciscono un sensibile contenimento del disavanzo pubblico, dunque un minore stimolo pubblico alla domanda interna.
Sappiamo poi che la variabile più utile a soppesare l’impatto della manovra di bilancio su PIL e occupazione è il saldo primario di bilancio, che considera il disavanzo al netto della spesa per interessi sul debito pubblico (una spesa che va direttamente ad alimentare i profitti finanziari di grandi banche e ben difficilmente può stimolare l’economia reale). Se ci concentriamo sul saldo primario di bilancio, scopriamo che il Governo Draghi lo porta dal -6% del 2021 al -2,7% per il 2022: anche questo viene più che dimezzato. Nel contesto pandemico, ciò rappresenta una vera e propria misura di austerità che va nella direzione di riportare l’Italia verso la rigida disciplina di bilancio, nonostante la drammatica situazione economica e sociale in cui versa il Paese.
Questo dato stride fortemente con tutta la retorica sul Recovery Fund e sulla sua articolazione italiana, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR): mentre disoccupazione, povertà e precarietà devastano il tessuto sociale, lo Stato riduce il suo sostegno all’economia, senza che questo arretramento del settore pubblico trovi una qualche compensazione nelle politiche europee. Difatti, la Tabella III.1-16 del DPB mette nero su bianco che le sovvenzioni del Recovery Plan (l’unica componente che non va ad alimentare il debito pubblico, e dunque l’unica che non entra nel computo del disavanzo di bilancio) peseranno nel 2022 per lo 0,7% del PIL, nulla davanti alla riduzione del disavanzo primario del 3,3% (dal 6% al 2,7%) decisa dal Governo Draghi rispetto alla scorsa finanziaria. Una riduzione di risorse che potrebbe andare a finanziare sanità, istruzione, spesa sociale e previdenziale e tutte quelle emergenze che lavoratori e disoccupati sperimentano quotidianamente sulla propria pelle. Senza dimenticare la lunga lista di condizioni capestro che il Recovery Fund si porta appresso.
Non ci siamo ancora addentrati nei contenuti della manovra, eppure già inizia ad affiorare chiaramente il profilo di politica economica scelto dal Governo Draghi: una drastica riduzione dell’intervento pubblico emergenziale messo in campo per fronteggiare la pandemia. Draghi deve ricondurre il Paese entro quei vincoli di bilancio che assicurano la progressiva distruzione dello stato sociale ed il parallelo ampliamento dei margini di sfruttamento dei lavoratori italiani: eccola, la “vera natura” dell’attuale esecutivo.
Passiamo ora ad analizzare il disegno di legge di bilancio (DLB), che contiene maggiori dettagli sulle specifiche misure varate dal Governo per il prossimo anno. La cosiddetta manovra, ovvero la differenza tra le spese e le entrate già previste per il 2022 dai governi passati e le nuove spese ed entrate introdotte dal Governo in carica, ammonta (tra maggiori spese e minori entrate) a circa 24 miliardi di euro. La voce più consistente è quella che va ad incidere sul fronte delle imposte e delle tasse. Il DLB stanzia 6 miliardi di euro per una vaga riforma fiscale, che si vanno ad aggiungere ai 2 già previsti sul medesimo capitolo: un investimento consistente, che secondo l’art. 2 dovrebbe incidere in particolare su IRPEF e IRAP. Tuttavia, nulla viene specificato in merito alla suddivisone di quelle risorse tra quelle destinate alla riduzione delle imposte sulle persone fisiche (IRPEF), che gravano principalmente sui redditi da lavoro, e quelle destinate alla riduzione dell’IRAP, l’unica imposta che si riesce ancora a far pagare alle imprese dato che il sistema di tassazione dei redditi da capitale offre milioni di possibilità di elusione. La battaglia per le risorse destinate alla riforma fiscale è appena iniziata, con Confindustria che martella quotidianamente sulla riduzione dei contributi a carico delle imprese, puntando a fare il pieno di queste risorse: se così fosse, ai lavoratori non rimarrebbe davvero nulla di quei 6 miliardi.
Inoltre, nel paragrafo del DLB dedicato alla riduzione dell’IRPEF si parla sia dell’opportunità di ridurre alcune aliquote marginali. L’ipotesi più in voga è un’aggiustatina al ribasso della terza aliquota (misura che andrebbe a vantaggio dei redditi medi, in quanto coinvolgerebbe i redditi dai 28.000 euro annui in su), sia di una revisione del sistema delle detrazioni: il rischio è di togliere con la mano sinistra, riducendo le detrazioni, quello che si dà con la mano destra, abbassando una o più aliquote.
Il capitolo della manovra dedicato al fisco prevede anche 2 miliardi di euro per contenere l’aumento dei costi dell'energia. Secondo quanto recita l’art. 134 del DLB, il meccanismo dovrebbe sortire l’effetto desiderato, ossia calmierare l’aumento delle bollette, attraverso una riduzione degli “oneri generali” da parte dell’Autorità per la regolazione di reti, energia e ambiente (ARERA). Ciò significa che, mentre il mercato elettrico sta aumentando i suoi margini di profitto attraverso l’aumento dei prezzi delle forniture, lo Stato, anziché impedirlo regolando il prezzo dell’energia e ponendo dei paletti ai profitti delle multinazionali del settore, si fa carico di una parte di questo aumento. Sebbene questo possa, nell’immediato, alleviare il costo sociale dei rincari, nel medio termine questa misura non può funzionare, in quanto significa assecondare gli aumenti dei prezzi delle forniture da parte delle multinazionali, finanziando così l’aumento dei profitti privati a discapito della gestione e della manutenzione dell’infrastruttura (pubblica) della rete elettrica. Infine, vengono stanziati 650 milioni per rinviare ulteriormente l’introduzione di due imposte, la sugar tax e la plastic tax (finalizzate a disincentivare l’abuso di materie prime inquinanti e dannose per la salute), il cui peso dovrebbe gravare interamente sulle imprese; dovrebbe, perché lo Stato continua a rimandare l’entrata in vigore della misura.
La seconda voce più consistente della manovra, dopo il capitolo fisco, è quella esplicitamente destinata a sovvenzionare le imprese private: ben 4,1 miliardi di euro dedicati a finanziare l’internazionalizzazione delle imprese, i contratti di sviluppo (soldi alle imprese, anche estere, che realizzano grandi investimenti in Italia), gli acquisti di beni strumentali (costi delle imprese che vengono trasferiti allo Stato) ed un fondo per la liquidità alle piccole e medie imprese. Una pioggia di denaro che viene messa a servizio del profitto privato: questo è dunque il capitolo di spesa più rilevante della manovra Draghi, un regalo alle imprese che vale più del doppio dei 2 miliardi di euro destinati al Fondo Sanitario Nazionale. Per questo Governo, i profitti privati vengono prima dell’investimento in sanità, con buona pace di tutta la retorica governativa sull’emergenza pandemica.
L’ultimo, rilevante tassello di questo DLB è quello dedicato al Reddito di Cittadinanza (RdC). Sebbene con l’art. 19 la misura sia marginalmente rifinanziata, con uno stanziamento di 1 miliardo per il 2022 che garantisce per quell’anno il raggiungimento delle stesse risorse del 2021 (circa 8,8 miliardi), il Governo provvede ad un’importante riforma dello strumento. L’art. 20 incide in maniera significativa sul funzionamento del RdC, che rende particolarmente stringenti le condizioni per il suo accesso e mantenimento. In primo luogo, i soggetti potenzialmente occupabili vedranno ridursi il reddito di 5 euro al mese a partire dal sesto mese, a prescindere dalla ricezione o meno di offerte di lavoro. E se qualche offerta di lavoro dovesse arrivare, peggiorano molto le condizioni che il percettore di RdC è costretto ad accettare: non potrà rifiutare più di due offerte di lavoro (fino ad oggi erano tre), che potrebbero essere a tempo determinato fino a 80 km dalla residenza, o in somministrazione, o part-time. Se dovessero essere a tempo indeterminato, potrebbero essere in tutta Italia a partire dalla seconda offerta. Se rifiuti, perdi il beneficio. Inoltre, quello stesso beneficio, che prima era trasferito al datore di lavoro che assumeva il percettore di RdC a tempo indeterminato, gli verrà ora trasferito anche se assume part-time, a tempo determinato e addirittura in apprendistato.
Il Governo pensa anche ad oliare la macchina: il 20% del beneficio verrà trasferito, in caso di occupazione, alle agenzie di collocamento private, che hanno così tutto l’interesse a gettare il percettore di RdC in pasto alle fasce più basse del mercato del lavoro, con offerte di occupazione a condizioni misere che potranno essere rifiutate solo a costo di perdere il sussidio. In questo modo, il Reddito di Cittadinanza si trasforma progressivamente in un moltiplicatore di precarietà, che rischia di amplificare la tendenza delle imprese a sostituire lavoratori stabili con lavoratori precari: tale effetto moltiplicativo appare infatti direttamente proporzionale alle risorse che il Governo promette alle imprese capaci di occupare percettori di RdC.
La manovra, analizzata per sommi capi, indica chiaramente la via scelta dall’esecutivo per uscire dalla crisi pandemica: una difesa a tutto campo del profitto privato portata avanti estendendo l’area dello sfruttamento del lavoro ed erodendo ulteriori margini di stato sociale. Ci sono dentro tutte le richieste di Confindustria e tutte le pretese delle istituzioni europee: l’Italia riprende la via dell’austerità, ed i pochi soldi a disposizione vengono indirizzati alle imprese. Questa perfetta sintesi tra gli interessi del capitale nazionale e quelli del capitale europeo è forse la più chiara rappresentazione del compito politico affidato a Draghi, mirabilmente svolto con la sua prima manovra finanziaria.
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