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03/11/2021

Il Commissario Quirinalizio prossimo venturo

I giochi politici in questo paese non contano più nulla. Con grande dispiacere dei giornalisti di punta, abituati da almeno 30 anni a vivere di pettegolezzi e “retroscena”. Però non sanno far altro, e quindi insistono nel praticare l’unico sport che conoscono.

Il “pezzo forte” della settimana sono le parole di Giancarlo Giorgetti, ministro dello sviluppo economico e testa pensate della Lega “di governo”. Presentando l’annuale “libro di Bruno Vespa”, ha fulminato i presenti prospettando una soluzione per il rebus-Quirinale di cui ben pochi osano parlare apertamente: “Già nell’autunno del 2020 le dissi che la soluzione sarebbe stata confermare Mattarella ancora per un anno. Se questo non è possibile, va bene Draghi” che “potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto”.

Lasciamo perdere le questioni personali, di cui nulla sappiamo, vista la nostra lontananza da certi giri. E vediamo cosa significherebbe istituzionalmente e soprattutto sul piano europeo e/o dei “mercati”.

Comunque la si giri, la formula di Giorgetti esplicita un bisogno della classe dominante (non solo italiana): non toccare nulla nell’attuale governance del Paese. Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi garantiscono soprattutto l’Unione Europea e i mercati finanziari (hanno, come si dice, “grande credibilità internazionale”).

La Costituzione formale è un limite abbastanza superabile. Il “bis” temporaneo al Quirinale è già stato sperimentato con Giorgio Napolitano, per lo stesso motivo, dunque non sarebbe una forzatura istituzionale ma solo una scelta “poco opportuna”. E quindi chissenefrega.

Ma questa soluzione ha il difetto di valere soltanto per un anno, quello che separa l’elezione del nuovo Capo dello Stato dalle elezioni politiche del 2023.

Per “mettere in sicurezza” il PNRR, e le “riforme strutturali” imposte dall’Unione Europea come condizione vincolante per l’erogazione delle successive rate del Recovery Fund, serve sicuramente più tempo, visto che il relativo cronoprogramma arriva al 2026.

La classe dirigente non può insomma rischiare che tra un anno e mezzo ci sia un Parlamento inattendibile quanto quello attuale, senza alcun personaggio di statura internazionale, magari con una maggioranza – come quattro anni fa – poco in linea con gli standard richiesti dai “mercati”.

C’è da dire che neanche i cosiddetti “partiti” presenti nell’attuale Parlamento hanno alcun desiderio di ritrovarsi a dover decidere tra attuazione delle chiacchiere elettorali (prometteranno come sempre di tutto e il contrario di tutto), con l’unico effetto – sicuro come la morte – dello spread in volo verso vette ineguagliabili. Con le conseguenze che abbiamo imparato a conoscere e in assenza della “rate” su cui si sta facendo conto.

Dunque l’attuale governance di “garanzia europea” va mantenuta almeno per i prossimi cinque anni.

Per far questo Mario Draghi è al momento ancora insostituibile. Ma appare difficile che possa tornare ad essere, dopo le elezioni, di nuovo premier senza un’investitura popolare. La quale a sua volta appare davvero improbabile, viste le lacrime e il sangue che cominciano a far capolino tra le nebbie che circondano sia la “legge di stabilità” che, soprattutto, le “riforme”. Lacrime e sangue che tra un anno e mezzo sarebbero decisamente più evidenti di oggi.

Già dieci anni fa l’operazione fatta con un altro Mario, Monti in quel caso, fu un flop clamoroso che aprì le porte alla breve e scorbutica stagione del “populismo” (equamente diviso tra “vaffa” e razzismo).

Dunque servirebbe il bis dell’operazione che ha portato Draghi a Palazzo Chigi, come se le elezioni non fossero nel frattempo avvenute e con tutti i cosiddetti partiti che entrano nella compagine governativa solo per obbedire al “grande illuminato”.

I rischi sono evidenti. Quanti oggi strizzano l’occhio a questa ipotesi, a risultati elettorali definiti, potrebbero avere la tentazione di giocare diversamente (perché rafforzati o indeboliti dall’esito). Scombinando le attese internazionali e complicando il percorso delle “riforme” con altre “pensate” impreviste, come lo sono in parte state quota 100 e il reddito di cittadinanza.

Più semplice, invece, se Mario Draghi fosse stato nel frattempo “elevato” alla massima carica. Potrebbe esercitare il suo ruolo in modo molto forte – anche queste forzature sono già state fatte, da Cossiga in poi, e da Mattarella stesso quando diede l’incarico a Cottarelli, indicato da nessuno – assumendo di fatto anche la parte di primo ministro, magari figurativamente lasciata a Daniele Franco (attuale ministro dell’economia) o altra figura equivalente pescata nel vivaio della Banca d’Italia.

In effetti sarebbe un semipresidenzialismo di fatto. Un’anticipazione della riforma costituzionale che, a bocce ferme, non può essere neanche ipotizzata (tantomeno realizzata in soli 121 mesi).

Al di là dei piagnistei dei “difensori della Costituzione formale” – sono 100 anni quasi esatti dalla repubblica di Weimar, e si sa com’è finita – una simile forzatura risponde a un’esigenza per nulla “nazionale”.

La classe dirigente attuale – imprenditoriale e non – non ha infatti più alcun limite nei confini, vissuti alla pari di quelli regionali o provinciali (si bada alla differenza di regole locali, cercando quella più vantaggiosa per sé, ma senza alcun “disegno di sviluppo” particolare).

Tenere inchiodata l’attuale governance – centrata su Draghi – è un problema di efficienza nella realizzazione di una nuova divisione del lavoro tra paesi europei. Gli interessi della classi popolari, i bisogni, le speranze delle nuove generazioni, non possono trovare alcun posto (se non nella retorica, tipo quella “per i giovani” quando si parla di pensioni o debito pubblico).

La presidenza della Repubblica, da questa angolatura, diventa una carica che deve forzatamente essere assunta da un “commissario europeo”, con compiti anche operativi (che la Costituzione italiana non prevede, ma chissenefrega).

Un Commissario Quirinalizio. Che anche simbolicamente restituisce l’immagine di un paese commissariato e in vendita. Come la Grecia dopo la capitolazione di Tsipras.

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