La monarchia di Mario Draghi inciampa in continuazione. Tanto viene salameleccato nei Palazzi e nelle Redazioni, tanto più viene individuato come nemico principale a livello popolare.
Se ne era avuta prova con lo sciopero generale dell’11 ottobre, il primo unitario tra tutti i sindacati di base, che ha avuto una riuscita al di là delle aspettative, anche se naturalmente del tutto insufficiente a creare grandi problemi politici.
E un’altra prova è stata fornita dalle manifestazioni “no green pass”, ora in deciso calo, che mettevano insieme follie “no vax” e complottismi da osteria, che prendevano di mira la Cgil e niente affatto Confindustria (che pure è il soggetto che aveva voluto il green pass), ma mettevano comunque Draghi nel mirino.
E non poteva essere altrimenti, visto che il governo è pur sempre la risultante di tutti gli interessi e di tutti i condizionamenti internazionali (economici e non).
La “solidità” del governo, e del progetto sovranazionale che lo ha prodotto, poteva essere esibita grazie non solo al coro entusiastico di media e istituti sovranazionali (dal Fmi all’Ocse, dalla Commissione Europea alla Casa Bianca, ecc.), ma anche “grazie” al collaborazionismo assoluto dei tre principali sindacati nazionali – Cgil, Cisl, Uil – che fanno da decenni a gara per chi è più “complice” (indimenticata definizione di Maurizio Sacconi, ex ministro berlusconiano).
Ora questo pilastro del presunto “consenso sociale” viene momentaneamente meno. Non crediamo infatti che la proclamazione dello sciopero generale per il 16 dicembre sia l’inizio di un diverso atteggiamento rispetto al governo, al “draghismo europeista” e al recinto politico del cosiddetto “centrosinistra”.
Ma certo è un fatto di cui bisogna tener conto, perché mostra l’esistenza di problemi sociali che non è più possibile nascondere sotto il tappeto delle “politiche dei due tempi” (tipo: “adesso facciamo ripartire l’economia, poi vedremo come far migliorare la condizione di chi lavora e dei poveri”). E dunque sarà bene guardare con attenzione a quel che sta accadendo.
In fondo, l’ultimo sciopero generale proclamato da sindacati confederali risale ad ormai sette anni fa, proclamato – come oggi – soltanto da Cgil e Uil, con la Cisl nel ruolo di cagnolino più fedele di tutti. E anche questo, infondo, è uno sciopero a babbo morto, ossia fuori tempo massimo, se l’intenzione è davvero quella di ottenere modifiche alla “legge di stabilità” scritta secondo le regole del PNRR.
Allora fu proclamato “per protesta” contro il jobs act, che cancellava tra l’altro l’art. 18 e consegnava i lavoratori all’arbitrio assoluto delle aziende.
Quello del 16 dicembre sarà di 8 ore, quindi giornata piena, come quando si scioperava sul serio. Ma resteranno fuori la sanità (per ovvie ragioni, in piena pandemia) e i trasporti pubblici (per ragioni burocratico-legislative superabili); ossia i due comparti che avrebbero dato con chiarezza il senso di “fermare il paese”. E di rendere perciò credibile una volontà anche solo timidamente conflittuale.
Ma è leggendo la nota congiunta di Cgil e Uil che emerge la differenza abissale tra dichiarazioni di facciata e ciò che ribolle – magari detto male – nei posti di lavoro.
“Venerdì scorso, la Cgil, e questa sera, la Uil hanno riunito i propri singoli organismi statutari per una valutazione sulla manovra economica varata dal Governo.
Pur apprezzando lo sforzo e l’impegno del Premier Draghi e del suo Esecutivo, la manovra è stata considerata insoddisfacente da entrambe le Organizzazioni sindacali, in particolare sul fronte del fisco, delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali e del contrasto alle delocalizzazioni, del contrasto alla precarietà del lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, della non autosufficienza, tanto più alla luce delle risorse, disponibili in questa fase, che avrebbero consentito una più efficace redistribuzione della ricchezza, per ridurre le diseguaglianze e per generare uno sviluppo equilibrato e strutturale e un’occupazione stabile“.
C’è bisogno di tradurre? Semmai di sottolineare...
Lo “sforzo e l’impegno” del governo non coprono praticamente nessuno dei problemi di lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani e donne. Ossia il 90% della popolazione, quella che teoricamente i sindacati dicono di voler rappresentare.
Una prova solare sta nella “riforma fiscale” presentata, che taglia (di poco) le aliquote del lavoro mediamente retribuito e non dà assolutamente nulla a chi guadagna pochissimo (sotto il 15.000 euro lordi annui, ossia sotto i 1.000 euro al mese...).
Peggio ancora sulle pensioni, con il ritorno alla criminale “legge Fornero”, con giusto un anno di “mediazione” a “quota 102”. E poi obbligo di privatizzazione sui servizi pubblici essenziali (acqua, trasporti, rifiuti, ecc.), nessun limite alle delocalizzazioni di rapina da parte di imprese multinazionali o “locali”. Niente di niente per ridurre la disoccupazione o alleviare la povertà. Anzi, la trasformazione del “reddito di cittadinanza” in salario di schiavitù con obbligo di trasferimento in qualsiasi parte d’Italia.
Ma soprattutto, se politiche del genere vengono ideate persino “alla luce delle risorse, disponibili in questa fase”, quando mai sarà il momento di “cominciare a dare” anche alle fasce più deboli?
Evidentemente MAI.
Ci permetterete di ricordare che noi e i sindacati di base lo avevamo capito da tempo. Ora anche Cgil e Uil sono costrette ad ammetterlo, molto controvoglia. Evidentemente nella platea degli iscritti e mal rappresentati sta covando parecchia insofferenza.
Lo sciopero del sindacalismo di base, anche al di là della sua presa immediata, è servito quindi a far vedere che un’alternativa sindacale esiste, può crescere sia sul piano quantitativo che della “qualità” dell’offerta (c’è sicuramente molto da lavorare per ricomporre e ricostruire una logica politica che superi “i piccoli orticelli”).
Aggiungiamoci pure la ripresa di parola degli studenti, con le oltre 30 occupazioni soltanto a Roma.
Non c’è insomma ancora una presenza di movimento di dimensioni all’altezza dei problemi sociali. Ma l’insofferenza cresce, cerca forme di organizzazione, progetti, programmi, rappresentanza.
E i primi ad andare in affanno sono proprio quei “corpi intermedi” che da decenni non fanno più il loro mestiere (rappresentare interessi sociali e proporre/imporre riforme conseguenti).
Un buon segno, insomma, se stiamo all’analisi fredda e oggettiva dei fatti. Senza alcuna illusione sui protagonisti, che certamente non stanno “rivedendo le proprie posizioni”, ma sono costretti a inventarsi qualcosa per non scomparire.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento