Sotto la retorica sulla “ripartenza” – con il termine “resilienza” ormai inascoltabile – non c’è nulla di buono.
L’inflazione torna dopo oltre un decennio e nessuno sa più esattamente cosa fare. L’unica certezza padronale e governativa – a livello europeo – è che non deve stimolare aumenti salariali. Fa eccezione chi se li può permettere (la Germania, dove per ora sono stati solo promessi in campagna elettorale, ipotizzando di portare a 12 euro l’ora il salario minimo), ma che non si sappia troppo in giro, se no scatta l’emulazione.
Di fatto, come spiega dettagliatamente Guido Salerno Aletta su TeleBorsa, è arrivata a fine corsa una pratica schizofrenica interna all’Unione Europea, con una “politica fiscale restrittiva” (gli Stati dovevano comunque produrre, tutti, degli avanzi primari, contenendo la spesa pubblica anche in piena crisi) compensata però da una “politica monetaria fortemente espansiva” (tramite la Bce del periodo Mario Draghi e poi Lagarde), altrimenti i “mercati” sarebbero esplosi sotto il peso della crisi.
Un periodo lungo, oltre un decennio, che ha seminato contraddizioni impensabili (il costo del denaro sottozero, che a prestarlo ci si rimette invece di guadagnarci) e una stagnazione economica senza apparente via d’uscita.
Ora il big bang della pandemia, delle chiusure e riaperture a fasi alterne, dei momenti di euforia per il “ritorno alla normalità” cui seguono momenti di panico per le nuove varianti. Pensate a quel che accade al trasporto aereo ogni volta che “si chiude” verso alcuni paesi e immaginate se lì ci sarà mai un ritorno ai “bei tempi andati”. Nel frattempo saranno fallite altre decine di compagnie, licenziati migliaia di lavoratori, rottamati o lasciati marcire migliaia di aerei.
Ora le politiche dello scorso decennio risultano semplicemente inapplicabili, a meno di non voler morire rapidamente. E persino Draghi & co. auspicano una “revisione del Patto di Statbilità” e del Fiscal Compact che lo governa. Ma nessuno sa dire se e quando e come questo “evento” vedrà la luce.
E intanto i prezzi volano, soprattutto quelli energetici. E a pioggia tutti gli altri. Tranne i salari, che anzi diminuiscono in valore assoluto medio e in potere d’acquisto (causa inflazione). Che “ripresa” ci può essere senza domanda interna? Se la “nostra gente” non compra (o compra meno, con gli stessi soldi)?
Il dominio della finanza speculativa sull’economia reale ha prodotto una separazione di interessi pressoché totale. Chi vive di finanza, e può contare sulle “immissioni di liquidità” delle banche centrali, va alla grande. Chi vive di produzione reale è fermo o arretra.
Fin qui le esplosioni sociali sono state limitate, tamponate con elargizioni una tantum, sconti fiscali, robetta varia. Ma un meccanismo inceppato non regge a lungo, sotto sollecitazioni che hanno dimensioni globali.
Buona lettura.
L’inflazione torna dopo oltre un decennio e nessuno sa più esattamente cosa fare. L’unica certezza padronale e governativa – a livello europeo – è che non deve stimolare aumenti salariali. Fa eccezione chi se li può permettere (la Germania, dove per ora sono stati solo promessi in campagna elettorale, ipotizzando di portare a 12 euro l’ora il salario minimo), ma che non si sappia troppo in giro, se no scatta l’emulazione.
Di fatto, come spiega dettagliatamente Guido Salerno Aletta su TeleBorsa, è arrivata a fine corsa una pratica schizofrenica interna all’Unione Europea, con una “politica fiscale restrittiva” (gli Stati dovevano comunque produrre, tutti, degli avanzi primari, contenendo la spesa pubblica anche in piena crisi) compensata però da una “politica monetaria fortemente espansiva” (tramite la Bce del periodo Mario Draghi e poi Lagarde), altrimenti i “mercati” sarebbero esplosi sotto il peso della crisi.
Un periodo lungo, oltre un decennio, che ha seminato contraddizioni impensabili (il costo del denaro sottozero, che a prestarlo ci si rimette invece di guadagnarci) e una stagnazione economica senza apparente via d’uscita.
Ora il big bang della pandemia, delle chiusure e riaperture a fasi alterne, dei momenti di euforia per il “ritorno alla normalità” cui seguono momenti di panico per le nuove varianti. Pensate a quel che accade al trasporto aereo ogni volta che “si chiude” verso alcuni paesi e immaginate se lì ci sarà mai un ritorno ai “bei tempi andati”. Nel frattempo saranno fallite altre decine di compagnie, licenziati migliaia di lavoratori, rottamati o lasciati marcire migliaia di aerei.
Ora le politiche dello scorso decennio risultano semplicemente inapplicabili, a meno di non voler morire rapidamente. E persino Draghi & co. auspicano una “revisione del Patto di Statbilità” e del Fiscal Compact che lo governa. Ma nessuno sa dire se e quando e come questo “evento” vedrà la luce.
E intanto i prezzi volano, soprattutto quelli energetici. E a pioggia tutti gli altri. Tranne i salari, che anzi diminuiscono in valore assoluto medio e in potere d’acquisto (causa inflazione). Che “ripresa” ci può essere senza domanda interna? Se la “nostra gente” non compra (o compra meno, con gli stessi soldi)?
Il dominio della finanza speculativa sull’economia reale ha prodotto una separazione di interessi pressoché totale. Chi vive di finanza, e può contare sulle “immissioni di liquidità” delle banche centrali, va alla grande. Chi vive di produzione reale è fermo o arretra.
Fin qui le esplosioni sociali sono state limitate, tamponate con elargizioni una tantum, sconti fiscali, robetta varia. Ma un meccanismo inceppato non regge a lungo, sotto sollecitazioni che hanno dimensioni globali.
Buona lettura.
Guido Salerno Aletta – Teleborsa
La realtà, assai grave, è sotto gli occhi di tutti.
Da una parte, la crisi sanitaria ha sconvolto le decennali granitiche certezze europee sul rigore fiscale, che viene eluso in prospettiva con la teoria del “debito buono”, quello per gli investimenti nel settore ambientale e dell'informatica: affari per qualcuno, ma crescita assai poca.
Dall’altra parte, davanti all’inflazione che si è manifestata all’improvviso, e virulenta dappertutto, la BCE che si è intestata da decenni il ruolo di “Guardiano del Risparmio” non sa più che cosa fare. Non si sentono più i severi moniti pronunciati per decenni.
Ce lo hanno raccontato fino alla noia, negli anni scorsi, che l’inflazione è la tassa più iniqua, perché riduce il potere di acquisto di salari e pensioni, perché taglieggia il risparmio accumulato faticosamente negli anni, e che per questo motivo la BCE ha come unico mandato, assoluto ed inderogabile, la stabilità della moneta.
E poi, un po’ alla volta, ci hanno convinto che no, un po’ di inflazione non guasta: la stabilità monetaria si ha quando i prezzi aumentano ad un livello “vicino ma non superiore al 2% annuo”.
Il motivo è uno solo: dopo la crisi del 2008 e le feroci strette fiscali che ne sono seguite per controllare deficit e debiti pubblici, la competizione economica basata sui bassi salari aveva portato alla deflazione dei prezzi.
Mentre con l’inflazione la moneta perde valore, perde potere di acquisto perché il livello generale dei prezzi sale, con la deflazione avviene il contrario: la moneta aumenta di valore, perché i prezzi scendono. Con la stessa moneta, si compra una maggiore quantità di merce.
Le conseguenze della deflazione sono devastanti per il mondo della produzione: deflazione significa che i debitori si trovavano a dover rimborsare un debito che ha un valore reale superiore all’importo ricevuto. Chi ha preso a prestito 100 euro per comprare 100 Kg di farina, rimborsa al creditore 100 euro con cui si possono comprare 105 Kg di farina, mentre il pane prodotto è sceso ad un prezzo inferiore della farina.
Alzando i tassi di interesse già nella prima metà del 2011, la BCE era tornata subito al suo ruolo di Guardiana della moneta dai rischi dell’inflazione: ma i mercati erano ancora in subbuglio per la devastante crisi greca, per quella bancaria spagnola e per le difficoltà crescenti dell’Italia.
Il collasso delle banche e dei mercati era diventato assai più pericoloso del temuto rialzo dei prezzi. La BCE, a partire dal novembre del 2011, portò a zero il tasso di riferimento per le operazioni di rifinanziamento, ed introdusse un tasso negativo sempre più gravoso sui depositi di liquidità eccedenti la riserva obbligatoria: l’obiettivo era di rendere il credito meno costoso e di indurre le banche ad utilizzare le somme ricevute con le operazioni di rifinanziamento.
A partire dal marzo del 2013, anche la BCE cominciò ad immettere liquidità comprando mensilmente titoli di debito sul mercato: dopo le Abs’s (Asset backed securities) debito pubblico in quantità mai viste prima.
Facendo questi acquisti massicci di titoli di Stato, la BCE ha determinato un abbassamento drastico dei tassi di interesse, sia su quelli già in circolazione sia su quelli di nuova emissione: l’Italia ne ha beneficiato ampiamente, con la riduzione del differenziale, lo spread, rispetto al Bund.
Comprando più titoli sul mercato secondario di quante fossero le nuove emissioni, i tassi di interesse sono diventati negativi. Così facendo, ha dato un sollievo rilevante ai debitori: cittadini, imprese e Stati, si sono visti ridurre i tassi di interesse. I mutui per l’acquisto degli immobili, anche per via della possibilità di fare delle surroghe, sono scesi a livelli estremamente convenienti.
La politica monetaria espansiva della BCE, anche utilizzando strumenti non convenzionali come il QE, ha bilanciato la politica fiscale restrittiva che è stata adottata con il Fiscal Compact, che richiede il pareggio strutturale dei bilanci pubblici e la riduzione del rapporto debito/PIL.
Abbiamo dunque trascorso un intero decennio, dal 2009 al 2019, con una politica fiscale europea fortemente restrittiva e con una politica monetaria che a partire dalla fine del 2011 è stata al contrario enormemente espansiva.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: vista la stretta fiscale, con gli aumenti delle tasse e la riduzione delle spese, i ritmi di crescita delle economie europee si sono ridotti. L’Italia non aveva mai registrato tassi di crescita economica e di inflazione così bassi come nel 2019, alla vigilia della crisi sanitaria. Nonostante l’enorme liquidità immessa dalla BCE, l’obiettivo della “stabilità monetaria con l’inflazione ad un livello vicino ma non superiore al 2% annuo” non è mai stato raggiunto.
Vista la bassa crescita economica indotta dalla politica fiscale restrittiva, ed i bassi tassi di interesse derivanti dalla politica monetaria espansiva, nessuno ha avuto motivi per investire nell’economia reale: non gli imprenditori, perché la capacità produttiva già installata era già sufficiente a coprire la domanda poco dinamica; né le Banche ed i Fondi, per via degli interessi minimi che ne avrebbero tratto.
La liquidità immessa dalla BCE, al pari di quello che è accaduto negli Usa con la Fed, ha incentivato investimenti prevalentemente finanziari e speculativi, in Borsa e sui futures delle materie prime. Bolle ed inflazione, sono le inevitabili conseguenze.
In quasi due anni di emergenza sanitaria, abbiamo registrato interventi straordinari di spesa dei Governi europei, con la sospensione del Fiscal Compact e l’avvio dei programmi di investimento nel settore ambientale e della informatica finanziati dal New Generation UE. La BCE ha ripreso gli acquisti del QE sin dal novembre del 2019 ed ha avviato il PEPP a partire da marzo 2020.
I Governi non si possono tirare indietro, vista la recrudescenza della crisi sanitaria: spingono sulle vaccinazioni ed i richiami, temendo che nuove restrizioni all’attività produttiva ed alle relazioni sociali possano interrompere il positivo rimbalzo dell’economia verso i livelli del 2019.
Stretta fra l’inflazione, che non è mai stata così alta da decenni, ed i timori per le ricadute sull’economia di una nuova crisi sanitaria, la BCE traccheggia: se alza i tassi di interesse, mette al tappeto tanti debitori e scoraggia i pochissimi investimenti programmati; se riduce la immissione di liquidità, in un contesto di grandi emissioni di debito pubblico, rischia di scatenare un pandemonio sul mercato.
È stato troppo comodo dare addosso per anni ai Governi spendaccioni, troppo comodo alzare i tassi di interesse solo per controllare la crescita dei salari: il Trattato europeo e lo Statuto le imponevano rigore assoluto.
E sarebbe troppo scomodo, ora, dover riconoscere che la decennale politica dei tassi negativi ha danneggiato anche le banche europee disincentivando il credito, che ha indotto le assicurazioni vita ad investire in asset più rischiosi, che ha incentivato gli investimenti prevalentemente finanziari e speculativi.
Invece di stroncare la speculazione che bastonava gli Stati, tra cui l’Italia, la BCE le ha fornito tutta la liquidità possibile, come la Fed.
Ora tace: non controlla i Mercati, ma ne è succube.
Nonostante l’inflazione, la BCE traccheggia.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento