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12/02/2022

Alvaro Garcìa Linera: “Viviamo un tempo di sconvolgimento dell’ordine mondiale”

Intervista con Alvaro Garcia Linera. L’ex vicepresidente della Bolivia Álvaro García Linera, uno dei più acuti pensatori della sinistra latinoamericana, ha definito il mondo post-pandemia come «un tempo di crepuscolo» pieno di paradossi, e ha avvertito che i governi progressisti della regione «sono obbligati a farsi carico di sfide più audaci».

«Il tempo che stiamo vivendo è un momento singolare. Da un lato si sono manifestati un insieme di limiti, di contraddizioni, di lacerazioni dell’attuale ordine mondiale planetario. Ma allo stesso tempo non si sono aperte, con impeto radiante, opzioni, alternative a ciò che già si sta esaurendo», ha detto.

In un’intervista esclusiva a Télam, l’intellettuale e docente universitario ha riflettuto sulle sfide del progressismo nel terzo decennio del XXI secolo, ha evidenziato la necessità imperiosa di «unire il popolo con la classe media» e ha fatto appello a sviluppare «nuovi linguaggi e programmi» che si colleghino con le aspettative di quel settore sociale.

In videoconferenza tra La Paz e Buenos Aires, ha affrontato con coraggio questioni complesse che generano polemiche, come il cortocircuito tra estrattivismo, sviluppo e cambiamento climatico, e, inoltre, ha proposto una complesso di misure concrete per le amministrazioni di tipo progressista. “La particolarità di questi governi è che stanno affrontando la peggiore crisi economica degli ultimi 100 anni“, ha affermato.

Nato a Cochabamba, in una famiglia che ha definito culturalmente di “classe media” ed economicamente di “classe bassa“, García Linera si è recato in Messico prima di compiere 20 anni per studiare all’UNAM del paese azteco e, al suo ritorno in Bolivia, ha stretto legami con le comunità contadine e minerarie.

In seguito sarà uno dei fondatori dell’Esercito Guerrigliero Túpac Katari, esperienza di lotta insurrezionale per la quale fu arrestato, torturato e trasferito in carcere in custodia cautelare e senza condanna, dove ha studiato sociologia da autodidatta.

Viene rilasciato nel 1997 e, tre anni dopo, conosce Evo Morales, nell’ambito della cosiddetta “Guerra dell’Acqua”. Oggi ha 59 anni, ha una delle più grandi biblioteche della Bolivia e ha curato, come autore o coautore, più di una decina di libri.

Nell’ambito di una lista propositiva per la gestione delle crisi, l’intellettuale boliviano ha evidenziato la necessità di una tassa bancaria che avanzi in una matrice d’imposta progressiva, nonché di un accordo regionale per una “riforma energetica” basata sullo sfruttamento del litio e lo sviluppo di “industrie collegate”.

Nella sua analisi della nuova ondata progressista in America Latina, che negli ultimi mesi ha visto i trionfi di Gabriel Boric in Cile e di Xiomara Castro in Honduras, l’autore de “La potenza plebea” ha avvertito che “il vecchio mondo del libero mercato sta mostrando delle crepe” sebbene “sia ancora in vigore“, mentre sorgono opzioni che cercano di sostituirlo.

E in tal senso ha sottolineato: «È un neoliberismo retrogrado, anacronistico, autoritario, vigilante, che vuole vivere del passato. E che durerà poco“.

Per García Linera, “il nuovo progressismo ha basato la sua vittoria più sulla mobilitazione elettorale che sulla mobilitazione di piazza. E questo stabilisce alcune caratteristiche di questa nuova ondata, apre porte e ne chiude altre: è un progressismo che ormai non viene più dalla mano di leader carismatici, ma con leader politici moderati che stanno rispondendo alle nuove circostanze”, ha ragionato dialogando con questa agenzia.

“Le circostanze porteranno o costringeranno gradualmente le leadership a dover intraprendere una serie di trasformazioni più radicali, perché il costo sociale della crisi economica e della crisi medica è troppo grande“, ha previsto in quella che lui stesso ha presentato come la sua principale ipotesi di lavoro per i dilemmi del progressismo e i crocevia del presente nella regione.
 
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In questo post-pandemia, in un mondo più concentrato e ingiusto, quali sono le basi per una prospettiva progressista?

Il tempo che stiamo vivendo è un momento singolare. Da un lato si sono manifestati un insieme di limiti, contraddizioni, strappi nell’attuale ordine mondiale planetario. Ma allo stesso tempo, si sono aperte, con impeto radiante, opzioni, alternative a ciò che già si sta esaurendo.

È un tempo di tramonto, ma non di una nuova alba. È il paradosso di questo momento. Le cose non stanno funzionando bene, gli antagonismi ci stanno facendo a pezzi, ma non riusciamo a vedere cosa potrebbe sostituirle.

Il vecchio mondo del libero mercato, del libero scambio, dello Stato minimo, dell’assenza di diritti sociali e dell’ignorare le disuguaglianze, si sta sgretolando da tutte le parti. Eppure è ancora vigente: nelle istituzioni conservatrici, nella Banca Mondiale, nel FMI, nel consenso che, nel mondo, la globalizzazione è la cosa più importante.

Sebbene inizi a mostrare segni di tramonto, di indebolimento, non sappiamo cosa sostituirà quel mondo. Sappiamo da dove veniamo, da dove stiamo uscendo, ma non riusciamo a collegarlo all'orizzonte ci aspetta.

Questo è un momento molto complicato, con la mancanza di alternative globali alla globalizzazione, sebbene l’America Latina abbia compiuto rinnovati sforzi per mostrare una via. Ma quello sforzo non si irradia in tutto il mondo e, a sua volta, ha battute d’arresto: avanza, retrocede, avanza, retrocede.

E in questo tempo liminale di certezze infrante, di orizzonti di prevedibilità del futuro mutilati, iniziano ad emergere molteplici proposte. Il progressismo è una di quelle proposte. Ma ha avuto una controparte con l’emergere di proposte neoliberiste e ultraconservatrici, autoritarie.

Nessuno sa con certezza cosa accadrà e sorgeranno molteplici opzioni di sostituzione e rimpiazzo, nessuna delle quali dominante, irradiante o egemonica, ma in conflitto. E quindi dovremo vivere per diversi anni prima che una delle opzioni possa sostituire egemonicamente questo tramonto del neoliberismo.

Questa disputa sul nuovo orizzonte epocale dovrà risolversi in 5, 10 o 15 anni, perché le persone non possono vivere indefinitamente nell’incertezza. Oggi il progressismo latinoamericano è una delle varia opzioni che, pur nella debolezza, lotta per sostituire l’orizzonte neoliberista. Non è abbastanza forte per prevalere, ma non è nemmeno sufficientemente debole per scomparire.

Crisi e interrogativi

Preferisce non parlare di cicli ma di onde, perché sono più corte. Dice anche che i nuovi leader progressisti dell’America Latina non sono emersi da grandi mobilitazioni e li definisce leader moderati. Questo tipo di leadership deve approfondire alcune delle proprie azioni o è un processo che, in futuro, porterà nuove politiche?

In America Latina è sorto un dibattito su quale fosse il futuro del progressismo. Noi abbiamo proposto il concetto di onde, la logica che quando sono processi intensamente rivoluzionari, non sono ciclici, ma si dispiegano in onde. Vanno e vengono, vanno e vengono di nuovo.

La prima ondata ha avuto il momento di maggiore irradiazione tra il 2005 e il 2006, fino al 2014: il continente ha fatto grandi progressi, abbiamo tirato fuori dalla povertà 70 milioni di latinoamericani. E poi c’è stata una contro-ondata, un ritorno delle forze conservatrici: si è perso in Uruguay, in Argentina, in Brasile, in Bolivia con un colpo di stato, si è perso in Honduras, si è stato in Paraguay.

Ma questo ritorno delle forze conservatrici, più indurite, più reazionarie – il caso della Bolivia è l’esempio paradigmatico di questo indurimento ‘fascistoide’ del neoliberismo – ha avuto vita breve. Inizia nel 2015 e dura quattro anni, e di nuovo, a partire dal 2019, inizia a retrocedere e c’è una nuova ondata progressiva.

La vittoria in Messico con (Andrés Manuel) López Obrador, la vittoria in Argentina con il presidente (Alberto) Fernández, la vittoria in Bolivia con Luis Arce, la vittoria in Honduras con Xiomara (Castro), la vittoria in Perù con (Pedro) Castillo, la vittoria in Cile con (Gabriel) Boric. Una nuova ondata.

D’altra parte, il neoliberismo, quando torna nella contro-onda del 2015 o 2016, non porta niente di nuovo: ricicla e riscalda quella vecchia minestra, quei vecchi gnocchi che erano stati elaborati dieci anni prima, e li riporta marci, verdi, acidi. È un neoliberismo retrogrado, anacronistico, indurito, autoritario, vigilante.

In Bolivia c’è un colpo di stato, in Argentina si parla della Gestapo (antisindacale): è una logica del libero mercato poliziesco. In Brasile si dice che tutti i comunisti avrebbero dovuto essere uccisi, e negli Stati Uniti con (Donald) Trump che per poco quasi ha bruciato il Parlamento pur di non riconoscere la vittoria di (Joe) Biden.

È un neoliberismo indurito ma non propositivo, non è più portatore di speranza. Un neoliberismo indurito e malinconico, che vuole vivere del passato. E dura poco.

Poi emerge questa nuova ondata di governi progressisti. Ma il nuovo progressismo non è accompagnato da lotte sociali o grandi ribellioni sociali, come il 2001 in Argentina, o il 2003 e il 2005 in Bolivia. È un progressismo che ha stabilito la sua vittoria più nella mobilitazione elettorale che nella mobilitazione di piazza.

È un progressismo che non viene dalla mano di leader carismatici, ma con leader politici che stanno rispondendo alle nuove circostanze del momento. I leader carismatici emergono in momenti eccezionali e ora è il momento di leader più moderati.

La chiave della vittoria è stata anche nella loro moderazione, e questo deve essere compreso da sinistra. Ma la particolarità di questi nuovi governi è che stanno affrontando la peggiore crisi economica degli ultimi 100 anni.
 
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Reincontrarsi con le classi medie, la sfida del progressismo per consolidare un blocco sociale

Nel suo duplice ruolo di uomo di idee, ma con esperienza nella gestione politica, Álvaro García Linera conosce la sfida di gestire lo Stato con un governo con indirizzo progressista e radici popolari.

La sua esperienza come vicepresidente della Bolivia tra il 2006 e il 2019 – tredici anni al fianco di Evo Morales – lo ha portato a comprendere il rischio che corrono i progetti politici che promuovono la distribuzione del reddito quando, una volta al potere, realizzano processi di mobilità ascendente ma trascurano la “modifica della soggettività” dei settori che ne hanno migliorato le condizioni di vita.

Questo fenomeno, avverte l’intellettuale con curriculum da statista, può portare «al disagio della classe media» di fronte alle gestioni progressiste, una situazione che è già stata vissuta nella regione e davanti alla quale ogni Paese deve individuare lo proprie cause «per stabilire politiche pubbliche che spingano la classe media dalla parte dell’uguaglianza e così evitare discorsi conservatori e razzisti».

«L’unione del popolare con la classe media deve essere l’obiettivo di questo nuovo progressismo, con nuovi programmi, per tornare a questa alleanza», ha esortato in una parte chiave del dialogo esclusivo con Télam.

E ha fatto un appello: «Non consegniamo la classe media ai settori conservatori. Il progressismo ha la grande sfida di riunirsi con la classe media per garantire la vittoria del popolare».
 
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In Argentina, parte dell’opposizione è combattuta tra presentarsi come moderata e inasprirsi, cercando di sedurre – dentro e fuori dalle proprie forze politiche – i settori medi attenti a un discorso estremo che cerca di esprimere le proprie frustrazioni. In questo contesto, come si possono riconquistare e avere un messaggio interessante per quei gruppi sociali che sono anche loro vittime del neoliberismo?

I governi progressisti della prima ondata hanno ottenuto la vittoria perché hanno avuto la capacità di unire i settori popolari, i più sfruttati e umili, con i settori medi. Hanno trovato una formula giusta e capi, parole e immagini giuste, che hanno permesso di formare un blocco sociale progressista che è durato un decennio o quasi un decennio.

Il nostro obiettivo in questa seconda ondata deve essere lo stesso: ristabilire il blocco dei settori operai, contadini e più svantaggiati, con i settori medi latinoamericani. Qui sta la possibilità di vittoria.

Le leadership moderate che le forze progressiste hanno progettato per la seconda ondata hanno scommesso sull’unione dei settori subalterni con i settori medi, e questo ha dato loro la vittoria. Ha funzionato. Ma quelle alleanze sociali non sono mai durature: è un metodo per costruire alleanze e i tuoi alleati oggi possono separarsi.

Metto il caso della Bolivia: le politiche di successo attuate dal governo progressista di Evo (Morales) hanno permesso al 30% della popolazione indigena e contadina di uscire dalla povertà. È un grande risultato. Alcuni continuavano ad essere contadini e operai, ma con redditi medi, e altri sono passati nella classe media. Persone di origine indigena popolare, ma con attività in proprio, o che sono entrate all’università e sono professionisti.

È la costruzione dell’uguaglianza. Ma promuovendo questo c’è anche una modifica della soggettività sociale: un compagno indigeno con un aratro egiziano e una casa di mattoni e paglia è diverso dallo stesso compagno con un trattore, una casa di mattoni e un figlio professionista grazie all’istruzione gratuita. La sua soggettività è cambiata, le sue aspettative sono cambiate, i suoi legami sono cambiati.

A volte il progressismo non si rende conto dei frutti della sua conquista e continua a ripetere le cose mentre la società è già cambiata. Le aspirazioni sociali sono cambiate. Nonostante una parte della società sia rimasta molto in basso, e si devono capire e proporre cose per questi settori, per il settore che ha avuto una mobilità sociale ascendente, non posso usare lo stesso linguaggio.

C’è una nuova classe media che sottrae alla vecchia classe media tradizionale le sue vecchie posizioni, i suoi vecchi piccoli privilegi: questa classe media indigena ha una formazione universitaria e viene dal sindacato, ed entra in Parlamento, nei Ministeri.

Prima, la vecchia classe media più ´immaginabilmente blancoide´ risolveva i problemi degli appalti per lo Stato nel circolo del tennis, o cenando in un’ambasciata. Ora quei problemi si risolvono nel sindacato, in un’assemblea.

Questa ascesa sociale plebea fa sentire emarginata la classe media tradizionale e, sebbene inizialmente sostenesse le politiche di uguaglianza, ora si sente colpita e, invece di mescolarsi e integrarsi con la nuova classe media, ciò che fa è rinchiudersi e radicalizzasi.

Questo è il punto di partenza della ‘fascistizzazione’ della classe media tradizionale.

E cosa dovrebbe fare il progressismo di fronte a questo fenomeno di svolta conservatrice del ceto medio?

Il progressismo deve comprendere il processo sociale. Occorre trovare meccanismi per recepire le aspettative di quel settore intermedio, che è stato raggiunto dalla valanga popolare che ha migliorato il proprio reddito. Ci sono diverse fonti di disagio nella classe media e in ogni paese è necessario scoprire da dove viene quel disagio.

Ogni paese richiede uno studio particolare perché l’obiettivo deve essere: dobbiamo incorporarlo. Non cediamola ai settori conservatori. Contendiamo la leadership e la soddisfazione delle aspettative di uguaglianza dei ceti medi dal progressismo, e non lasciamole nelle mani delle forze neoliberiste, che non risolveranno i loro problemi.

Le forze conservatrici non si preoccupano della classe media, parlano a suo nome ma la disprezzano, la considerano perdente. I vincitori sono quelli che hanno grandi imprese o i loro soldi nei paradisi fiscali. Bisogna pensare a una serie di proposte, come una forte riforma fiscale che non colpisca la classe media ma piuttosto i ricchissimi; è un elemento importante.

Dobbiamo recuperare le aspettative di preoccupazione per l’ambiente che interessano alle classi medie. A quella classe media illuminata, istruita accademicamente o con piccole imprese, devi dire: «Ascolta, con i neoliberisti infuriati starai peggio, qui abbiamo una soluzione». Il progressismo deve riconnettersi con la classe media per garantire la vittoria del popolo.

Quindi, quali sono le sfide principali di cui i nuovi movimenti progressisti devono farsi carico in questo contesto senza precedenti?

Nessun progressismo si era preparato ad affrontare un momento così eccezionale. E qui sorge il nuovo paradosso: nuovi leader, nuovi governi progressisti che erano preparati a una gestione più amministrativa e di ricostituzione di diritti ridotti dalla restaurazione conservatrice, ma che non si erano preparati per affrontare una così grave crisi economica e sanitaria.

In questa seconda ondata progressista, abbiamo governanti con una visione più di amministrazione della cosa pubblica, che sarebbe stata adeguata, se non si fosse verificata la crisi pandemica.

Quindi, la mia lettura, che è un’ipotesi di lavoro, è che il nuovo progressismo di questa seconda ondata deve affrontare con rinnovato splendore gli effetti di una pandemia e di una crisi economica che nessuno aveva previsto. E questa nuova ondata sarà costretta ad affrontare sfide più audaci per superare favorevolmente gli effetti di questa crisi economica e sanitaria.

Le circostanze costringeranno gradualmente la dirigenza a intraprendere una serie di trasformazioni più radicali, perché il costo sociale della crisi economica e della crisi sanitaria è troppo grande. E lì si vengono delineando alcuni assi di lavoro su cui il progressismo potrebbe lavorare per superare questa crisi.

Uno è un nuovo ruolo per lo Stato: più audace in termini di redistribuzione di ricchezze e oneri, e questo comporta anche una riforma fiscale più audace. Alcuni paesi lo hanno fatto implementando le tasse sulla ricchezza, la grande ricchezza, e questa è una buona strada che forse dovrà essere praticata un po’ di più.

Con le tasse sulle banche è giunto il momento, perché è un settore che ha guadagnato molto nella crisi e che deve condividere il peso delle responsabilità con il resto della popolazione.

Poi la riforma energetica, da fare gradualmente, in una prospettiva che dialoghi con la natura e non sia predatoria, senza abbandonare l’ottenimento di eccedenze da forme estrattive per ridistribuirle immediatamente nella società, e non perché rimangano nelle mani di pochi ricchi.

Poi, ovviamente, anche l’ampliamento dei diritti dei settori più vulnerabili, il rafforzamento e l’emancipazione del movimento delle donne, nella prospettiva della sovranità della donna sul proprio corpo.

Sono tematiche nuove che il primo progressismo ha affrontato tangenzialmente e che questo nuovo progressismo dovrebbe affrontare come elementi nucleari della sua nuova agenda di emergenza di fronte a un momento di catastrofe globale.

La nuova faccia del neoliberismo

In contrasto con la riflessione delle leadership moderate, appare il paradosso di un tempo con una destra sempre più radicalizzata. È una nuova destra o è la stessa con differenti manifestazioni? È opportunismo per attrarre nuovi settori?

Certamente siamo di fronte a nuove espressioni della destra. È il neoliberismo, il programma non è cambiato. Anti-Stato, anti-diritti, anti-uguaglianza. Non è cambiato. Ha rinnovato parte dei volti, una nuova generazione che è emersa e che porta aria di rinnovamento, di nuova generazione, ma gli argomenti centrali rimangono gli stessi.

L’uguaglianza nel lavoro, nella ricchezza, nel rapporto tra uomini e donne, tra i popoli indigeni e le oligarchie, è un'”immoralità”, per dirla visceralmente, che va combattuta con tutti i mezzi.

Oggi è un liberalismo furioso, rabbioso, che fa schiuma, non irradia speranza. Si arrabbia, insulta, aggredisce. E vede la democrazia come uno strumento sacrificabile, se fosse il caso. È un neoliberismo rabbioso e, quindi, sempre più autoritario. E questa non è forza, è debolezza.

Quando non riesci più a convincere e ricorri al bastone, è perché sei debole, anche se sei violento e ti imponi temporaneamente con la tua violenza. Ma è debolezza, perché un pensiero è potente, è forte, quando si irradia; quando viene imposto con le botte, non è più forte.

Ciò che sta sostituendo l’impronta espansiva di un pensiero è l’impronta del bastone, del massacro, della morte. I processi di globalizzazione cominciano a mostrare debolezze, cominciano a retrocedere; la globalizzazione continua e durerà sicuramente, ma ormai non è in espansione, è entrata in una fase di contrazione.

Il progressismo oggi affronta anche la frammentazione di istanze e interessi diversi che, per la loro specificità, molte volte è difficile unire in un’idea globale. Come si affronta la difficoltà di dare risposta a temi specifici con un proprio peso senza vanificare la possibilità di una costruzione collettiva?

Questa è una questione chiave in qualsiasi costruzione di politiche progressiste: come combinare l’universale con il particolare. Molte volte le proposte universalistiche sono un particolarismo dominante; e ci sono anche universalismi che propongono il beneficio di tutti.

Ad esempio il tema indigeno. In società come quella boliviana, peruviana o guatemalteca, è chiaramente una questione universale, perché sono la maggioranza. Nel caso della Bolivia, quella maggioranza demografica è diventata una maggioranza politica, e ora sono loro a guidare il paese.

E il meticciato che deve essere costruito viene dall’Indianità; perché prima il meticciato che si rivendicava era quello del ceto medio, di lingua spagnola, proprietario, bianco.

Ma nelle società in cui il movimento indigeno non è la maggioranza, si direbbe, è una questione di minoranza? In alcune cose si, in altre no. Che non ti discriminino a causa del colore della tua pelle, del tuo cognome e del modo in cui parli.

È una questione universale, non è una questione di minoranza; perché ovviamente gli indigeni sono maggiormente discriminati. È l’indigeno, è l’uomo del villaggio, è la testolina nera, che in certi momenti sarà anche discriminata.

L’America Latina, l’Argentina, il Cile, hanno cognomi stranieri e locali, ed entrambi hanno lo stesso diritto di entrare dalle porte principali delle piazze, delle istituzioni, dell’istruzione, delle banche, della cittadinanza. È una politica universale. Questa affermazione è universalista.

Quindi, in ogni Paese, il progressismo deve avere questa capacità di considerare proposte universali e rivendicare quelle locali. Il movimento sociale ha queste fasi; momenti di lotte universali e momenti di lotte corporative.

E il momento in cui sorgono le lotte più frammentate, più corporative, è un momento complicato; perché è più facile per un governo progressista prendere decisioni quando l’umore punta a politiche universali per tutti. Ed è più complicato muoversi tra le ondate di richieste corporative, settoriali, frammentate.

Ma è qui che sta la grande capacità del progressismo di sapersi muovere e distinguersi in ogni frammentazione, nelle cose comuni.

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“Abbiamo ereditato un’economia estrattivista e dobbiamo usarla temporaneamente”, ha detto García Linera

Álvaro García Linera è abituato al dibattito, entra in discussione come la temperanza del professionista e non evita argomenti scomodi, anche quando mettersi in gioco può comportare dei costi.

Questa disposizione è diventata evidente nelle ultime settimane, dopo che ha iniziato a circolare sui social network un suo testo del 2012 in cui affrontava la polemica sull’estrattivismo degli idrocarburi, anche se potrebbe trattarsi di miniere, esplorazione subacquea del fondale marittimo o la tecnica del fracking per ottenere combustibili con tecniche non convenzionali.

Una questione molto attuale per un’Argentina che, da un lato, ha bisogno di dollari per finanziare lo sviluppo e la diversificazione della struttura economica, ma che avrà anche bisogno di valuta estera per pagare il debito lasciato in eredità dall’amministrazione di Cambiemos.

«Abbiamo ereditato un’economia estrattivista, dobbiamo prenderla e usarla temporaneamente, con la prospettiva di annullarla, annullarla gradualmente, ma lo faremo quando avremo sollevato le persone dalla povertà, avremo garantito loro salute, lavoro, istruzione, università gratuita e possibilità di impiego», ha descritto a mo’ di diagnosi in un’intervista esclusiva a Télam.

García Linea ha avvertito che «la sua risposta ai compagni che fanno una lettura a volte ingenua dell’estrattivismo» è che fino a quando tali obiettivi non saranno raggiunti, è necessaria «una transizione in cui le risorse naturali che escono dall’estrazione siano maggioritariamente controllate dallo Stato per politiche redistributive».

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In materia di ambiente, è possibile avere uno sviluppo sostenibile senza politiche tanto rigide come l’anti-estrattivismo?

Suppongo che la domanda abbia a che fare con un mio testo diffuso in Argentina, che è un testo che ho scritto nel 2012, quasi un decennio fa, in un momento molto preciso, in particolare, quando c’era qui in Bolivia un problema attorno a un’autostrada. E rivendico quel testo perché è mio, però è scritto in quel particolare momento.

Era un testo di combattimento: difendo l’idea generale, e uso una cifra data da (Eric) Hobsbawm, che dice che l’1% più ricco della popolazione mondiale inquina il doppio di 3,5 miliardi di persone.

Dico quindi che tutta l’umanità deve farsi carico di politiche per prendersi cura dell’ambiente, ovviamente, ma che è quell’1% dell’umanità quello a cui dobbiamo applicare maggiormente le politiche per proteggere la natura, e non ai 3,5 miliardi di persone povere che spesso non hanno nemmeno di che mangiare.

A volte non sappiamo come differenziarlo. Imporrò oneri, restrizioni, limitazioni, punizioni, tasse su quell’1%, e con quei 3,5 miliardi di persone che inquinano la metà, stabilirò altri tipi di meccanismi più moderati, a medio o lungo termine, a seconda delle loro condizioni di vita.

Uso questo esempio per arrivare all’America Latina, che è una società in cui parte del suo reddito deriva dall’attività mineraria, dall’estrazione di idrocarburi e dalla produzione alimentare intensiva. Abbiamo l’obbligo e la responsabilità morale come esseri umani di intraprendere la lotta contro il cambiamento climatico e l’emissione di gas serra, ma non possiamo farlo sospendendo il loro reddito oggi.

Di quale economia arancione parlerò ai bambini che andavano a scuola con le seggiole di mattone, dove la loro lavagna era il muro?

Ora voglio citare due critiche che i compagni fanno all’estrattivismo: la prima è che il progressismo non gli ha dato abbastanza importanza. Sì, e devi dargli abbastanza importanza. Deve essere nelle nostre politiche pubbliche come elemento prioritario.

In secondo luogo, la produzione estrattiva va solo a vantaggio dei più ricchi. Non lo direi. Va bene che lo dicano ad altri governi, ma non ai governi progressisti.

In Bolivia, l’estrazione di gas e petrolio è rimasta nelle mani dei boliviani. Abbiamo nazionalizzato: l’85% della rendita petrolifera rimane nelle mani dello Stato e il 15% va a società private. Prima i neoliberisti lasciavano il 18% dei profitti nel paese e l’82% li portavano all’estero. Qui abbiamo ribaltato la situazione.

D’altra parte, il progressismo deve avere una politica di transizione graduale verso altre forme di produzione della ricchezza, in cui le eccedenze restano nelle mani dello Stato perché possano essere ridistribuite: perché generino salute, educazione e cibo per formare una nuova generazione di lavoratori, professionisti e tecnici che ci portano alla transizione verso un’economia non estrattiva.

Tuttavia, ci sono proposte che ci dicono di smettere di estrarre risorse naturali: cioè di smettere di ricevere il 60% delle nostre esportazioni. E con cosa le sostituiamo? Da dove arriveranno i soldi?

Il 60% delle esportazioni e dei guadagni in valuta estera proviene dal gas, dal petrolio, dai minerali. Che ci dicano di smettere di produrre è condannarci a lasciare il 40% o il 50% della popolazione in condizioni di povertà assoluta.

Ci sono anche alcuni difensori dell’anti-estrattivismo che, in una lettura molto reazionaria, immaginano che il mondo indigeno dovrebbe essere il contadino con la sua casetta di paglia che contempla la natura.

No. Questo va bene per la cartolina turistica, ma l’indigeno boliviano vuole una buona scuola, una casa di mattoni, istruzione, andare all’università, viaggiare, essere un professionista. E ha il diritto di farlo. Non possiamo fossilizzare l’immagine degli indigeni in una cartolina per i turisti.

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García Linera e l’affetto per l’Argentina: «Ci hanno conquistato l’anima»

Nel novembre del 2019, Álvaro García Linera si è salvato la vita insieme a Evo Morales e altri membri del MAS boliviano, salendo a bordo di un aereo dell’Aeronautica Militare Messicana che li ha portati nel Distretto Federale, dove è stato loro dato rifugio per un mese, per poi stabilirsi in Argentina dopo l’inizio del governo del Frente de Todos (FdT).

Da quel 13 dicembre 2019, quando è arrivato a Ezeiza, l’ex vicepresidente della Bolivia si è stabilito a Buenos Aires con i suoi affetti e, da buon esule in cerca di adattamento, ha cercato alcune routine, tra cui passeggiare per la città come un anonimo passante munito di relativa mascherina, un’esperienza che ha amato e che ha raccontato in un recente discorso alla Facoltà di Diritto dell’UBA.

García Linera è grato all’Argentina, afferma che il sostegno del governo FdT e la solidarietà di molte persone comuni «hanno conquistato l’anima» sua e della sua famiglia, ma afferma anche che nel paese ha trovato «il più potente ambiente intellettuale di lingua spagnola», di cui si confessa «ammiratore».

Un’altra particolarità di queste terre, che sottolinea con gratitudine, è «la presenza, la forza e l’emancipazione del movimento delle donne», una percezione che lo ha portato a concludere che in questo senso «l’Argentina è andata molto più avanti del resto del continente.»

“È un ambiente molto bello, e lo desidero con intensità perché è un ambiente in cui vorrei che la mia bambina crescesse, perché in generale l’America Latina è eccessivamente maschilista e violenta nei confronti delle donne“, contrasta e poi aggiunge che nella società argentina «si vede che la donna si è emancipata, in piccole cose, in cose più grandi, qualcosa che manca al resto dell’America Latina».

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Il legame con l’Argentina

Come ti ha trattata l’Argentina nell’anno che hai condiviso qui con Evo Morales?

L’Argentina è stata molto generosa con noi. Come famiglia, perché siamo arrivati esiliati con mia moglie e mia figlia, e con Evo, e da allora una parte della nostra vita e della nostra anima è l’Argentina. E non è una frase retorica. Ci hanno conquistato l’anima.

Atteggiamenti così belli e decisivi, come quello del presidente (Alberto) Fernández, che ha usato tutto il suo prestigio per ottenere che il movimento di altri cancellieri e di altri paesi salvasse Evo, perché volevano uccidere Evo, denigrarlo, volevano vedere il suo corpo trascinato tra le tribune e mostrarlo, come fecero nel 1946 con un altro popolare presidente della Bolivia, Gualberto Villarroel, che fu linciato e impiccato in piazza.

I giovani militanti progressisti in Argentina ci hanno dato le loro case in cui vivere. Quando siamo arrivati ​​con mia moglie e mia figlia non avevamo altro che una valigia e una borsa di vestiti di Alba, nemmeno una carta d’identità, non avevamo niente.

E l’università ci ha offerto l’opportunità di lavorare con dignità, di diffondere le nostre conoscenze per vivere, perché è di quello che viviamo, del nostro lavoro. L’Università di San Martín e l’UBA ci hanno aperto le porte: ma ci sono stati due o tre mesi che abbiamo dovuto vivere nelle case di amici, di militanti.

Questo non si dimentica mai nella vita. Perché un esiliato è solo, non ha niente, e in quella solitudine c’erano degli argentini che ci hanno accolto, ci hanno aperto le porte, ci hanno dato la possibilità di dormire tranquilli, dopo aver potuto lavorare.

Come si può dimenticare? Mai. Per strada, le persone che ci riconoscevano nonostante la mascherina, nessuno ci ha mai disturbato. Ci facevano commenti positivi, si scattavano foto. Mi ha molto emozionato. E, naturalmente, i nostri compatrioti boliviani, che quando siamo arrivati e ci hanno riconosciuto, ci hanno regalato verdure, ci hanno regalato tutto. Ero imbarazzato, era troppa generosità.

Lei è arrivato in Argentina in un momento storico intenso per il suo confronto politico e i suoi dibattiti, quali riflessioni ti ha lasciato quell’esperienza?

L’ambiente intellettuale è molto potente. Ho imparato moltissime cose. È l’ambiente intellettuale più potente di lingua spagnola. Persone straordinariamente preparate. È un lusso e un onore aver insegnato con loro. Sono un ammiratore del mondo intellettuale argentino.

Ho solo una piccola e affettuosa osservazione: a volte, mentre gli europei meno capaci fanno proposte e schemi intellettuali universalisti, gli argentini più brillanti di loro non osano fare proposte più universali.

Evidentemente è molto bello avere vedute locali, fondate sulla storia, è un bene che sia così. Ma penso che ci sia anche abbastanza massa critica per fare proposte di carattere universale, al di sopra degli accademici che leggiamo all’università, del Nord America o dell’Europa.

Quel pensiero è già mezzo morto, qui c’è vita: bisogna avere il coraggio di avere una lettura più ambiziosa. E lo dico per gli argentini, per i messicani, in tantissimi intellettuali latinoamericani c’è moltissima ricchezza, profondità e creatività, rispetto a quanto continua a pervenirci in modo ripetitivo e poco creativo dall’accademia europea e nordamericana.

D’altra parte, ho anche il ricordo del potere della donna. L’Argentina è il luogo in tutta l’America Latina dove si nota la maggiore presenza, forza ed emancipazione nel movimento delle donne. È evidente nelle donne, da quando sono bambine, da quando sono in fasce. Questo mi piace.

Fonte originale

L’intervista completa si trova qui.

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