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02/02/2022

Il lavoro è povero, il governo è cieco

Piano piano, senza fretta, strani discorsi si fanno largo in luoghi inattesi.

Abbiamo sentito, per esempio, dopo decenni di encomi a prescindere, qualche timida critica politica all’operato della polizia in piazza. È accaduto dopo la serie di cariche e manganellate distribuite sugli studenti, un po’ in tutta Italia, cosa che rimanda evidentemente ad un ordine dall’alto. “Politico”, insomma, proveniente dal governo o almeno dal Ministro dell’Interno.

Viene il sospetto che quando persino Letta e altri lamentano le “manganellate sui nostri ragazzi” stiano effettivamente preoccupandosi solo dei propri figli e/o nipoti, in senso familiare. Visto che la sbirraglia in piazza sembra prendersela con chiunque, compresi i cortei promossi da quella parte studentesca che vegetava tranquilla sotto l’ala della Cgil.

Meglio tardi che mai, comunque. Se l’omertà a favore delle polizie comincia ad incrinarsi, è in fondo solo un bene.

Qualcosa di simile avviene anche sul fronte del lavoro. Pochi giorni fa un Pierluigi Bersani come al solito prodigo di metafore, addirittura parlando nel salottino esclusivo di Lilli Gruber, ha lamentato che “il 70% dei nuovi lavori è precario, mentre prima era solo (solo!?) il 13%”.

Sui giornali si allarga lo spazio per gli articoli che parlano dei working poor, quegli “strani” lavoratori che sgobbano anche più di otto ore al giorno e ricevono un salario che non basta per vivere. E neanche per sopravvivere alla meno peggio.

Un terzo dei lavoratori dipendenti italiani è ormai in queste condizioni: il 32,4% percepisce una “salario” al di sotto del livello di povertà (il 60% della retribuzione media nazionale).

Fioccano le “storie” di persone di ogni età, alle prese con la tragedia quotidiana di dover cercare “aiuto” in associazioni e organizzazioni “caricatevoli”, che ti regalano un pacco di pasta e qualche genere di prima necessità. Perché dopo aver pagato affitto e bollette non resta nulla dello stipendio.

Qualcuno, più audace, scopre un po’ in ritardo che in Italia il salario medio – negli ultimi 30 anni – è diminuito del 2,9%. Ed è l’unico paese europeo con un dato negativo (vedi la tabella sopra).

E teniamo presente che si tratta di salari in termini monetari, senza calcolare l’incidenza dell’inflazione reale (il famoso “carrello della spesa”) e l’innumerevole quantità di servizi pubblici nel frattempo privatizzati e quindi molto più costosi (la sanità, in primo luogo, con la sua orgia di ticket e prestazioni esigibili solo pagando). Tutte cose che abbattono il potere d’acquisto di quella cifra comunque ridotta.

E allora si devono chiamare ricercatori che da anni insistono sul disastro combinato dai vari “pacchetti Treu”, “legge Biagi”, ecc., che hanno legalizzato oltre 40 forme di “contratti atipici”. Tutta roba approvata da governi di centrosinistra e centrodestra, indifferentemente, fino al colpo di maglio finale, il Jobs Act di Renzi & Co., che ha cancellato l’articolo 18 (divieto di licenziamento senza giusta causa), rendendo ogni lavoratore italiano un precario a tutti gli effetti. Debole, ricattabile e ricattato.

Cose che Bersani, per esempio, conosce benissimo, essendo state approvate – insieme alle privatizzazioni – mentre lui era ministro e/o parlamentare.

Fioccano anche i consigli per “curare” questa situazione, che ha pessimi effetti non solo sui lavoratori e le loro famiglie, ma anche sull’economia in generale e sui profitti delle imprese. È una banalità che però sfugge ai neoliberisti: se i “tuoi” lavoratori non possono comprare quello che produci, poi guadagni meno.

La furbata “ordoliberista” (alla tedesca, insomma) si concretizzava nella produzione orientata alle esportazioni. In cui i clienti finali sono in altri paesi o in altri continenti. E dunque i bassi salari servono per competere con altre imprese, battendole sul prezzo.

Solo che – con la “globalizzazione” e le delocalizzazioni – questo meccanismo si è generalizzato. Tutti fanno così e all’improvviso (con la crisi iniziata nel 2008, mai finita e poi aggravata dalla pandemia) chi non ha una “domanda interna” si trova improvvisamente più in difficoltà di altri. Succede alla Germania, che è il capofiliera europeo, succederà presto anche a tutti gli altri (piano piano, un po’ alla volta).

E, non a caso, proprio in Germania il nuovo governo medita di alzare il salario minimo (da 8,50 a 12 euro l’ora, però lordi) per rivitalizzare i consumi interni e dare un po’ di “mercato” in più alle proprie aziende. Lo capiscono persino gli imprenditori, che infatti prima erano contrari, adesso molto meno. Anzi...

Qualcuno lo spieghi al “governo dei migliori”, che continua ad andare avanti sulla vecchia strada, ignaro di tutto, tra gli applausi di imprenditori idioti e sempre pronti a scappare.

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