Ultim’ora: Un raid israeliano nei dintorni di Damasco ha causato la morte di un militare e il ferimento di altri cinque. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa governativa siriana Sana, gli attacchi aerei israeliani sono iniziati questa notte all’una e sono proseguiti con missili terra-terra provenienti dalle alture del Golan. Secondo l’agenzia Sana la difesa anti-aerea siriana “ha respinto l’aggressione e ha abbattuto la maggior parte” dei missili. In Israele le sirene sono suonate in mattinata a Umm al Fahm e nella regione della Samaria in seguito al lancio di un missile antiaereo dalla Siria, esploso in aria. A riferirlo sono le forze armate israeliane.
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Sul campo di battaglia siriano torna a farsi “sentire” la Turchia. Nel mirino c’è ancora una volta principalmente l’area nord-est, retta dalla cosiddetta Amministrazione del Nord e dell’Est della Siria, o Rojava, a guida del Partito dell’Unione Democratica (Pyd) curdo, in coabitazione con le truppe statunitensi.
Da ormai diversi mesi l’esercito di Ankara sta cercando pretesti e provocazioni per rompere l’equilibrio militare stabilitisi nella zona dopo i tre precedenti interventi militari diretti nell’area, al fianco dei propri “proxy” islamisti; tali equilibri, oltre alle milizie curde Ypg/Ypj, vedono coinvolti anche l’esercito siriano a fare da cuscinetto in alcune aree.
Contemporaneamente al rinnovato attivismo turco, non casualmente sembra aver ritrovato verve anche l’Isis, che riesce ad estendere la propria guerriglia sia nel nord-est, sia nelle ampi aree centrali desertiche delle province di Homs e Deir-ez-Zor. Del resto risulta difficile pensare che il nuovo leader al-Qurashi, quando sarebbe stato ucciso, si trovasse per caso in un villaggio a pochi chilometri del confine turco, in un’area, la provincia di Idlib, nella quale è presente in forze l’esercito di Ankara a protezione delle milizie islamiste, per impedire a Damasco di riprendere controllo della zona.
L’attacco più clamoroso, l’Isis lo ha messo a segno a fine gennaio nell’area di Ghuwaryan, nella città di Al-Hasakah, dove si trovava una prigione in cui molti militanti dell’ex-califfato erano detenuti con le proprie famiglie e stavano dando luogo ad una rivolta carceraria. Il 20 gennaio, infatti, una cellula ha tentato di attaccare l’edificio per liberarli, riuscendo, poi, addirittura a prendere il controllo dell’area. Le Ypg hanno impiegato circa 10 giorni per ripulire la zona, pagando un pesante tributo di sangue. Ancora oggi, i miliziani in fuga che sono riusciti a nascondersi nei campi profughi presenti nell’area sono causa di scontri.
Immediatamente dopo, l’aviazione turca ha avviato un’operazione militare vasta, denominata “aquila d’inverno”, che ha preso di mira non solo il nord-est della Siria, ma anche la regione irachena dello Shengal ed alcuni campi profughi in territorio iracheno controllati dal PKK, i quali sono stati la culla del sistema di governo messo poi in piedi nel Rojava.
Questi raid non sono stati accompagnati dalla grancassa mediatica che solitamente i vertici turchi mettono in scena ogni qual volta ordinano operazioni simili. A tacere, però, sono anche i vertici USA nell’area, la cui presenza militare consente la sopravvivenza dell’Amministrazione Autonoma a guida curda in una zona così tempestosa.
In tal senso, i vertici curdi, sin dall’insediamento dell’Amministrazione Biden, ancora non ricevono risposta circa le prospettive future dell’impegno statunitense in Siria, ufficialmente ancora in esame, da parte della Casa Bianca. A preoccuparli vi sono diversi fattori.
In primo luogo, gli USA continuano a negare la non applicazione per il Rojava del Caesar Act, ovvero l’embargo “in stile cubano” nei confronti del governo siriano e degli asset economici ad esso collegato decretato dal Congresso USA nel 2019. Tale embargo sta mettendo economicamente in ginocchio non solo i territori sotto il controllo dello stato siriano, ma anche il Libano e il Rojava stesso, il quale, al di là dell’ostilità politica, era dipendente dagli scambi con Damasco in molti comparti.
In secondo luogo, Biden non ha voluto rinnovare alla società Delta Crescent Energy la licenza di sfruttamento (saccheggio) dei pozzi petroliferi presenti nei territori sotto controllo curdo; essi sono i più grandi della Siria e costituiscono il principale motivo di ostilità fra l’entità a guida curda e il governo di Damasco, che viene privato di una fonte di reddito vitale in tempo di guerra. Tale utilizzo “politico” in funzione di embargo anti-Damasco del greggio siriano rappresenta, dal punto di vista dei vertici del Rojava, la garanzia che gli USA abbiano un interesse concreto per rimanere, essendo, d’altronde, impossibile aspettarsi che ne abbiano di più “nobili”. Attualmente non è chiaro che fine faccia il greggio estratto in quelle aree.
Insomma, il rischio, per le milizie curde, di essere abbandonate dagli USA è sempre dietro l’angolo, il precedente di Afrin e l’Afghanistan insegnano.
Sul fronte del Governo Siriano, le cose vanno meglio solo da punto di vista diplomatico e dei rapporti internazionali. Oltre ad avere sempre al proprio fianco gli alleati del cosiddetto “Asse della Resistenza”, ossia Iran ed Hezbollah, e la Russia, Damasco, infatti, ha riottenuto il riconoscimento di una rappresentanza diplomatica anche da parte degli ex nemici di Giordania, Oman, Emirati Arabi Uniti ed un atteggiamento meno ostile anche da parte di Arabia Saudita e Qatar, al momento apparentemente rassegnatisi all’idea che sia impossibile disfarsi del Presidente Assad. Addirittura sembra che la Siria verrà presto di nuovo ammessa nella Lega Araba.
Dal punto di vista interno, invece, oltre alla rinnovata minaccia dell’Isis nelle aree desertiche e la crisi causata dal Caesar Act, Damasco deve periodicamente fare i conti con la ripresa delle ostilità in alcune aree che parevano pacificate, mentre non sembrano riaprirsi nel breve prospettive di ripresa della campagna militare per la riconquista di Idlib.
Da questo punto di vista, anche i tentativi di Putin di convincere la Turchia a ritirarsi, prendendo atto della rinnovata legittimità internazionale nei confronti del governo siriano sono andati, come si vede, a vuoto.
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