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07/03/2022

ABC della guerra in Ucraina, o “la cura del linguaggio”

È difficile per chiunque orizzontarsi nell’uragano di parole che ci precipita addosso da ogni media. Tv, radio, giornali sparano – siamo in guerra, d’altronde – termini che sembrano di uso comune, comprensibili a tutti, che acquistano un significato anche se ne hanno altri. Ma che in genere vanno a comporre un puzzle dotato di un senso indicibile: andiamo alla guerra!

Per questo cerchiamo di fornire ai nostri lettori un “servizio minimo” ma indispensabile: chiarire la realtà che una parola o una frase nasconde o stravolge.

È una funzione che cerchiamo di assolvere con ogni articolo pubblicato, ma che richiede ormai una sorta di “vocabolario essenziale” cui rimandare, perché mentre si scrive di un fatto diventa difficile fare anche la “cura del linguaggio” di guerra.

Ci perdonerete dunque la struttura da dizionario poco enciclopedico, ma ci sembra meglio andare con ordine, per tirar fuori i concetti solidi avvolti da un ammasso di polvere propagandistica. Ovvio che questo “dizionario” andrà aggiornato di frequente. Ma siamo qui anche per questo…

No fly zone

Chiesta dal governo ucraino, rifiutata dagli Usa, questa frase sgorga a getto continuo dai più ottusi operatori della stampa come da qualche sedicente “politico” investito di una carica parlamentare a sua insaputa (senza aver fatto nessuna gavetta, insomma).

Come frase è nota a chiunque sia arrivato a vita adulta negli ultimi 30 anni. Perché ogni volta che gli Usa e la Nato invadevano un paese – debole, naturalmente – tra le prime misure adottate dichiaravano delle no fly zone.

Concretamente significava e significa che qualsiasi oggetto volante su un determinato territorio – aereo, missile, drone, deltaplano, aquilone, ecc -, se non appartenente alla coalizione occupante, sarebbe stato abbattuto.

Per dichiarare una no fly zone serve naturalmente avere il dominio militare dei cieli su una determinata area, altrimenti è solo fare aria nel vento.

Al momento in cui scriviamo – 7 marzo 2022 – il dominio dei cieli sopra l’Ucraina è dell’aviazione russa. Una fatto che determina la possibilità di colpire qualsiasi obiettivo a terra, ovviamente tenendo conto della forza o meno di una contraerea.

Il dominio militare dei cieli segna da decenni la possibilità o meno di vincere una guerra. Può accadere di perderla anche quando lo si ha (e lo sanno bene sia il Pentagono – Vietnam, Afghanistan – che i militari russi, anche loro in Afghanistan al tempo dell’Urss), ma è empiricamente provato che se non hai un’aviazione dominante hai fortissime possibilità di perdere. O comunque di pagare un prezzo abnorme.

Dunque chiedere ora una no fly zone sopra l’Ucraina che sostituisca il temporaneo dominio russo equivale a chiedere l’entrata in guerra della Nato, ovvero dell’unica coalizione militare che abbia una potenza aerea “simmetrica” – parità tecnologica e quantitativa, e probabilmente anche una superiorità – a quella russa.

Una contro-invasione della Nato – spiegano sia Joe Biden che i suoi generali – sarebbe l’inizio della Terza guerra mondiale che arriverebbe molto rapidamente all’uso delle armi nucleari.

Ma la guerra nucleare, da 70 anni, è anche l‘unica che non si può vincere, perché è assicurata la mutua distruzione non solo tra i belligeranti, ma anche del resto dell’umanità.

Dunque chi invoca “almeno” una no fly zone sta dicendo – lo sappia o meno – che bisogna schiacciare il bottone fine-di-mondo. Non sembra strano che lo capiscano i vertici Usa, mentre quelli europei – abituati alle “guerre” contro i poverissimi del Sahel o simili – sembrano non rendersene conto. Absolute beginners, nel nuovo imperialismo competitivo…

Inviare armi

Come sappiamo, il governo italiano e gli altri governi della Nato hanno già preso questa decisione, che si colloca appena un gradino sotto l’ingresso diretto in guerra.

E la discussione – su cui è stato immediatamente apposto il segreto militare – verte su quali armi inviare. E’ abbastanza chiaro (ai militari occidentali, se non altro) che inviare armi individuali leggere (fucili mitragliatrici, razzi antiaerei “a spalla”, ecc) è relativamente facile. Basta caricarli su camion che ufficialmente trasportano “altro” (viveri, vestiti, rifornimenti civili essenziali, ecc).

Certo, se l’intelligence russa viene a sapere quali convogli portano armi, la loro distruzione tramite attacco aereo è altrettanto facile. Ma si può evitare l’incidente che porta alla guerra semplicemente sostituendo gli autisti e la scorta con personale ucraino già al passaggio del confine. Una volta passato, affari loro… Molto più complicato è l’invio di mezzi pesanti (blindati, carri armati, pezzi di artiglieria di grosso calibro, ecc), che non possono essere occultati con altrettanta facilità. Una colonna di carri armati (con equipaggio ucraino, naturalmente) sarebbe facilmente bombardabile una volta passato il confine con il paese Nato di provenienza. E di fabbricazione...

Il che produrrebbe un doppio effetto negativo. a) Le armi che effettivamente arriverebbero (o stanno arrivando) non compenserebbero che marginalmente quelle che intanto l’esercito ucraino (e i battaglioni neonazisti) vanno perdendo in battaglia. b) I paesi da cui entrano o sono state spedite quelle armi entrerebbero in un cono d’ombra ambiguo, tra il co-belligerante dichiarato e il “furbetto del quartierino generale”. Lo scivolamento verso il coinvolgimento diretto in guerra sarebbe ad un passo.

Ancor peggio se si parla di aerei da combattimento. Quelli si possono far entrare in solo modo: volando. Ma anche se i piloti alla guida fossero ucraini, il paese da cui sono decollati sarebbe ufficialmente un belligerante contro la Russia (non puoi certo dire che non ti eri accorto che aerei da guerra decollavano dai tuoi aeroporti militari…).

Non a caso la Polonia si è affrettata a chiarire che questa eventualità, per quanto la riguarda, non si dà.

Inviare armi, insomma, è quasi un entrare in guerra. Basta un “incidente” e la frittata è fatta (e in una guerra l’incidente è la cosa più probabile…).

I governi che lo fanno, in ogni caso, anche se “migliori”, non possono certo aspirare al ruolo di “mediatori”.

Corridoi umanitari

In qualsiasi guerra l’attacco diretto alle città viene evitato il più possibile. Non mancano eccezioni – nazisti e Usa ne hanno cancellate diverse dalla faccia della terra (Hiroshima, Nagasaki, Fallujah, Coventry, molte città russe, ecc) – ma in genere si cerca di impostare l’assedio in modo da limitare il confronto armato ai soli combattenti.

Non per bontà d’animo – i generali non sanno cosa sia – ma per minimizzare le proprie perdite. Come teatro di guerra, infatti, le città sono un incubo per i militari occupanti. Vi sarete fatti una cultura cinematografica (da American sniper in giù), ma la realtà è in genere assai peggiore dei film.

E infatti l’unico punto su cui, nei primi tentativi di trattativa tra i governi russo e ucraino, era stato raggiunto un accordo era per l’appunto la creazione di corridoi umanitari per far uscire i civili dal alcune delle città che i russi avevano deciso di prendere.

Ma, per esempio a Maiupol, ai confini del Donbass, ben due tentativi di far uscire i civili si sono dovuti interrompere perché qualcuno ha cominciato a sparare colpi di mortaio. Il “chi è stato?” rimbalza ovviamente tra le parti, con accuse reciproche inverificabili empiricamente (un colpo di mortaio, diversamente dai missili, non può essere tracciato perché fa un percorso molto breve).

Dunque bisogna capire chi è – sul campo di battaglia – ad avere interesse che i civili restino in città il più possibile.

Usiamo una fonte insospettabile, il generale italiano Fabio Mini: “I corridoi umanitari, sempre siano attivati, serviranno a sfollare la gente e permettere così combattimenti senza ‘impedimenti’”.

Chiaro?

Prendiamo anche una seconda fonte, contattata dall’agenzia giornalistica AdnKronos, Vittorio Rangeloni, che da sette anni vive nel Donbass. Il quale riferisce di aver ricevuto ‘‘messaggi dalla popolazione di Mariupol che dicono di stare attenti, che sono stati minati i ponti, le strade e che i militari ucraini hanno creato posizioni nel centro della città, nei parchi gioco e negli asili”.

Insomma: l’interesse ad avere popolazione civile da frapporre tra sé e gli attaccanti è tutto dalla parte degli assediati. I quali, a Mariupol, sono i componenti del battaglione nazista Azov. Quelli che da otto anni martellano le repubbliche popolari, causando 14.000 morti, e che risultano al primo posto nella presunta “denazificazione” dichiarata ufficialmente da Putin.

Gli stessi – risulta dalle confessioni di alcuni mercenari georgiani partecipanti al “Majdan” del 2014 come cecchini – che avevano sparato sia sui manifestanti che sulla polizia, su indicazione Usa, che ne incolparono subito l’inetto Yanukovic, obbligandolo a fuggire e lasciare il campo.

In Italia qualcosa di simile è avvenuto con Piazza Fontana, quando un agente doppio – Cia e Sid, contemporaneamente – confezionò una bomba piazzata in una banca da un neofascista, ma per incolpare gli anarchici e sollevare una “maggioranza silenziosa” filo-golpista.

Concludendo: i militari russi avrebbero molto da guadagnare dalla fuoriuscita dei civili, perché potrebbero condurre un’offensiva basata sui bombardamenti, anziché con una battaglia casa per casa, con trappole di ogni tipo.

I nazi dell’Azov, all’opposto...

Fonte

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