In diversi centri del paese imperversano le manifestazioni, con tanto di fabbriche vandalizzate, per le condizioni di lavoro sempre più difficili, stipendi miseri e carovita
La delocalizzazione degli stabilimenti produttivi è sembrata a lungo una soluzione quasi “magica” per il capitalismo occidentale. Bastava portare la produzione più hard – pesante, inquinante, a basso valore aggiunto, ecc – in paesi arretrati, a salari quasi zero e senza diritti sindacali et voilà, il gioco era fatto. I profitti volavano, i salari in Occidente crollavano e con essi anche la forza contrattuale dei lavoratori di casa propria.
Ma ogni soluzione di questo genere non fa che “esportare” per qualche tempo il problema. Ma lo riproduce.
E così anche la lotta di classe nei paesi destinatari delle delocalizzazioni è diventata hard.
In diverse città industriali del Bangladesh sono in questi giorni esplose le proteste di decine di migliaia di operai del settore tessile. In massa hanno abbandonato il posto di lavoro per manifestare contro condizioni di lavoro sempre più infami, stipendi da fame e carovita.
Una autentica insurrezione in cui decine di fabbriche sono state semi-distrutte e almeno una persona ha perso la vita, quando come al solito la polizia è intervenuta contro i cortei con gas lacrimogeni.
Il cuore delle proteste è localizzato nelle città di Gazipur, Ashulia e Hemayetpur, non a caso i tre centri industriali e tessili più importanti, nei pressi di Dacca, capitale del Bangladesh.
Secondo i sindacati almeno 100 mila manifestanti sono scesi in piazza per chiedere un aumento del salario minimo e migliori condizioni di lavoro. Ovviamente dal governo provano a minimizzare, con “fonti ufficiali” che parlano di soli 10.000 manifestanti.
Almeno 40 fabbriche sono state però teatro di azioni di protesta particolarmente dure.
Il Bangladesh è diventato nel tempo la fabbrica tessile del mondo. Ospita quasi 3.500 fabbriche del settore. Il salario base mensile è però di appena 75 dollari, e l’ultimo aumento risale ormai al 2018, quando fu fissato un salario minimo di circa 72 dollari al mese.
La domanda di nuovi aumenti aveva già provocato manifestazioni operaie, ma la scintilla è partita quando le associazioni padronali hanno proposto un aumento di appena il 25%, mentre i sindacati avevano chiesto di triplicare il salario minimo, portandolo a 208 dollari.
La partita è economicamente e politicamente centrale per il Bangladesh, dove l‘industria tessile rappresenta l’85% dei 55 miliardi di dollari di esportazioni annuali. Fin qui la parte del leone nella redistribuzione di questo reddito è stata completamente a favore dei profitti.
Le proteste salariali costituiscono inoltre una sfida anche per il governo del primo ministro Sheikh Hasina, al potere da circa 15 anni.
L‘inflazione e il deprezzamento della moneta locale ha svuotato il potere di acquisto dei lavoratori, che oggi – se accettassero le proposte padronali – guadagnerebbero comunque meno di quanto avevano conquistato nel 2017.
I principali marchi dell’industria bangla sono noti in tutto il mondo, proprio perché frutto delle delocalizzazioni: Gap, Levi Strauss, Lululemon, Patagonia, ecc.
E proprio questi marchi spingono sul governo perché metta fine alle proteste concedendo un aumento del salario minimo che ristabilisca quanto meno il potere d’acquisto precedente (di aumenti reali, ovviamente, non ne vuole neanche sentir parlare). Altrimenti i loro profitti si bloccano insieme alla produzione...
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