È piuttosto difficile incontrare per strada qualcuno che abbia mai sentito nominare la European Round Table for Industry (abbreviata in ERT). Eppure, nel mondo delle lobbie essa ha un ruolo cruciale nell’indirizzare le politiche comunitarie attraverso studi e proposte, come quelle fatte con il Vision Paper 2024-2029 appena pubblicato, il terzo dal 2014.
Quando, sul finire del 2022, il Parlamento europeo è stato scosso dal Qatargate, è sembrato come se i cittadini della UE avessero scoperto per la prima volta la corruzione. Era impossibile che i rappresentanti del consesso che rappresenta il «destino manifesto» di unità e progresso del continente potessero cedere a vili affari di soldi (1,5 miliardi di euro stimati ogni anno per influenzare i politici europei).
La realtà è che Bruxelles è ormai diventata la roccaforte mondiale dei lobbisti. È stato calcolato che nella città ve ne sono oltre 25 mila, appartenenti a circa 10 mila organizzazioni regolarmente registrate con questo esplicito scopo, secondo regole approvate dalla Commissione UE: esse sono spesso direttamente coinvolte nel processo di elaborazione di risoluzioni e leggi.
La ERT è un po’ la madre di tutti questi gruppi di pressione. Essa riunisce quasi 60 tra presidenti e amministratori delegati di multinazionali con base europea, con una vasta gamma di settori rappresentati. L’adesione è personale e avviene su invito, a dimostrazione della chiusura di questo tipo di organizzazione, concentrata su ‘come rendere la UE competitiva’ e rafforzarla nello scenario globale.
Questo è stato lo scopo sin dalla nascita, ed è anzi stato uno dei vettori che hanno portato infine a Maastricht. A fondare la ERT sono stati, nel 1983, 17 tra i più importanti industriali del continente (tra cui Carlo De Benedetti e Umberto Agnelli), che sentivano inadeguate le politiche CEE per favorire il dinamismo e la competitività delle grandi aziende europee rispetto a quelle statunitensi e giapponesi.
I salti in avanti fatti da parte della costruzione union-europeista a cavallo tra anni Ottanta e anni Novanta (l’Atto Unico Europeo e il Trattato di Maastricht) sono stati preceduti da una intensa attività di analisi e orientamento dell’ERT. Tutto ciò insieme alla collaborazione speciale messa in piedi dai «Quattro motori dell’Europa», ovvero le regioni avanzate di Auvergne-Rhône-Alpes, Baden-Wurttemberg, Catalogna e Lombardia.
La storia dell’ERT ci aiutare ad osservare come, dietro all’architettura della UE, ci sia stata la regia di una vera e propria borghesia europea. Seppur nelle difficoltà dettate dalla particolarità di questa forma di integrazione politico-economica, gli ultimi trent’anni di essa sono proceduti nella direzione e al ritmo deciso da una compagine padronale che pensa su dimensione continentale, per conquistare competitività a livello globale.
La ERT tuttora persegue questo scopo con documenti come il Vision Paper. Il quadro tracciato in maniera introduttiva è quello che abbiamo più volte delineato in questo giornale: l’intensificarsi della competizione globale ha riacceso le tensioni internazionali e ha portato al “ritorno della geopolitica” con “l’urgente bisogno di una diplomazia di alto livello, sia politica sia economica“.
Prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno esposto le debolezze delle catene di approvvigionamento, fondamentali di fronte alla transizione ecologica e digitale che il sistema produttivo deve affrontare. Ma il problema è anche nella spesa in ricerca e sviluppo, al 2,27% del PIL contro il 2,40% della China, il 3,45% degli Stati Uniti e il 4,81% della Corea del Sud.
La UE ha dunque accumulato un pesante ritardo (anche per la farraginosità del processo decisionale, su cui però lo studio non si sbilancia troppo) e, di fronte all’ascesa delle compagnie cinesi, essa deve evitare di “essere spinta fuori dal gioco“. Per farlo, bisogna migliorare la competitività, e l’ERT individua due approcci in merito.
Il primo è attraverso i sussidi ai settori strategici (il vizio di usare soldi pubblici per fini imprenditoriali non è solo italiano). Il secondo è fondato su riforme strutturali e una maggiore integrazione del mercato unico e di quello dei capitali, su cui la Tavola Rotonda insiste da decenni.
Con lo sguardo a questi punti, l’organizzazione attende fiduciosa sia il rapporto di Enrico Letta sul mercato unico, sia quello sulla competitività che la Commissione UE ha chiesto a Mario Draghi. Ma sottolinea anche che questa volta non basta il “whatever it takes“, è importante anche il come.
Infatti, continuare a presentare nuove leggi e programmi non assicura equilibrio e prospettiva a lungo termine. Il documento afferma che è arrivato il momento che “l’ambizione europea passi alla coerenza, all’armonizzazione, all’applicazione e alla realizzazione” dei suoi obiettivi, senza dimenticare di consultare il mondo aziendale.
Una dichiarazione da cui traspare il tentativo di un salto di qualità imperialistico, e tutta la boria della borghesia continentale: l’Europa non può diventare semplicemente un museo “dove il resto del mondo va solo per vacanza o in pensione. L’Europa è la culla dei valori“.
Tali valori sono quelli del “libero mercato”, considerati indissolubilmente legati all’ormai incancrenita democrazia borghese occidentale, e sono condivisi con gli statunitensi. La filiera euroatlantica è infatti individuata come il campo fondamentale attraverso cui rafforzare la competitività europea.
Nancy McKinstry, una delle vicepresidenti dell’ERT, afferma che UE e USA “formano un’economia transatlantica che è il più largo e ricco mercato al mondo. È vitale approfondire la relazione transatlantica e promuovere un’agenda comune su commercio e tecnologia, basata sui nostri valori condivisi“.
Le sue parole sono più che altro una gentile richiesta agli alleati oltreoceano, i quali spesso si muovono senza consultare nessuno (basti pensare all’Inflation Reduction Act – IRA). Ma allo stesso tempo bisogna riconoscere una certa sensibilità da parte delle aziende a stelle e strisce a riconsiderare i benefici di un migliore coordinamento con la UE.
Sempre l’ERT, lo scorso 20 ottobre, ha rilasciato una dichiarazione congiunta con la Business Roundtable, il suo omologo statunitense. In essa viene sottolineata l’importanza della collaborazione euroatlantica, si apprezza il lavoro del Trade and Technology Council, creato nel 2021, e si invita a rivitalizzare l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
La dichiarazione è stata pubblicata in occasione dell’incontro tra i presidenti del Consiglio e della Commissione UE con Biden. Al tavolo di questo vertice vi era un accordo sui materiali critici per far accedere le imprese europee ai sussidi dell’IRA e una zona tariffaria comune su acciaio e alluminio, con in testa l’idea di assestare un colpo alla Cina.
Quando però si passa dalle parole ai fatti, gli interessi materiali rendono tutti più cauti e qualsiasi intesa è stata rimandata a fine anno. Del resto, sempre nel Vision Paper, viene ribadito che per la UE “forti relazioni economiche con la Cina sono altrettanto fondamentali“, e questo sicuramente preoccupa Washington.
Forse, in realtà, bisognerà aspettare i nuovi inquilini della Casa Bianca e di Palazzo Berlaymont perché la situazione si sblocchi, dato che questi sono temi scottanti nella campagna per le elezioni del prossimo anno. Ma la UE non ha più molto tempo se non vuole che la finestra per stare al passo con gli avversari (e gli alleati) strategici si chiuda per sempre.
“I prossimi 18 mesi determineranno il ritmo della performance dell’Europa nella seconda metà di questo decennio” ha detto Jean-François van Boxmeer, presidente dell’ERT e di Vodafone. Per la Commissione UE che verrà verranno presentate, nell’arco di qualche mese, proposte più puntuali.
Non rimane che organizzarsi e lottare, mentre la borghesia europea elaborerà le sue idee per giocarsi il tutto per tutto nel tentativo di fare il proprio definitivo salto imperialistico.
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