Questo post, che circolava in Russia il 7 Novembre, nell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, riassume l’atteggiamento della stragrande maggioranza della popolazione verso il passato sovietico.
Si tratta di una “ode alla patria perduta”, scritta dal grande artista satirico sovietico, di nazionalità ebrea, Mikhail Žvanetskij, scomparso appena tre anni fa e che, paradossalmente, era stato a suo tempo sempre critico verso il potere sovietico.
Difficile dire se nelle parole di Žvanetskij si rifletta il sentire della popolazione di tutte le Repubbliche ex sovietiche (probabilmente sì), ma certamente della popolazione semplice della Russia: operai, ex kolkhoziani, insegnanti, medici, scienziati, tutta quella grandissima parte di popolazione che dal golpe del 1991-1993 non si è appropriata di fabbriche, miniere, industrie, flotte, risorse naturali, che appartenevano al popolo sovietico.
E tale sentimento non accomuna solamente, come si è portati a credere (e come in Russia si è teso a far credere fin dagli anni ’90, per diffondere la credenza che il “rimpianto per la fine dell’URSS” non fosse altro che “compassionevole nostalgia degli anziani per la propria giovinezza”) le generazioni più mature, ma anche quelle che nel 1991 si affacciavano appena alla consapevolezza.
Certamente, nelle parole di Žvanetskij, si lascia in ombra un’intera parte più “politica” del rimpianto per la “patria perduta”; ma quello che viene detto racchiude, pur se apparentemente nascosto, il lato politico della “pancia” di coloro che hanno vissuto l’Unione Sovietica.
E al tempo stesso è una critica agli aspetti più cialtroneschi della nuova realtà, come quando scrive che la Patria sovietica «Non ci coccolava con infinite varietà di merci estere», ma ogni tanto ci «regalava film americani, profumi francesi, stivali tedeschi o giacche finlandesi. Raramente e moderatamente. Erano tutti però di qualità eccellente»: a differenza di oggi...
E nei commenti al post: «quanto siamo stati stupidi! Non apprezzavamo quello che avevamo». Oppure «Ti rendi conto cosa abbiamo distrutto nel ’91!»... Qualcun altro ha commentato «da far venire le lacrime»: in particolare quando Žvanetskij scrive «un giorno ci ribellammo. Essa non era sorpresa. Aveva capito tutto. E perciò non disse nulla. Sospirò pesantemente e se ne andò. Per sempre»...
Ecco il post (nota: il soggetto agente è sempre la Patria sovietica)
Si tratta di una “ode alla patria perduta”, scritta dal grande artista satirico sovietico, di nazionalità ebrea, Mikhail Žvanetskij, scomparso appena tre anni fa e che, paradossalmente, era stato a suo tempo sempre critico verso il potere sovietico.
Difficile dire se nelle parole di Žvanetskij si rifletta il sentire della popolazione di tutte le Repubbliche ex sovietiche (probabilmente sì), ma certamente della popolazione semplice della Russia: operai, ex kolkhoziani, insegnanti, medici, scienziati, tutta quella grandissima parte di popolazione che dal golpe del 1991-1993 non si è appropriata di fabbriche, miniere, industrie, flotte, risorse naturali, che appartenevano al popolo sovietico.
E tale sentimento non accomuna solamente, come si è portati a credere (e come in Russia si è teso a far credere fin dagli anni ’90, per diffondere la credenza che il “rimpianto per la fine dell’URSS” non fosse altro che “compassionevole nostalgia degli anziani per la propria giovinezza”) le generazioni più mature, ma anche quelle che nel 1991 si affacciavano appena alla consapevolezza.
Certamente, nelle parole di Žvanetskij, si lascia in ombra un’intera parte più “politica” del rimpianto per la “patria perduta”; ma quello che viene detto racchiude, pur se apparentemente nascosto, il lato politico della “pancia” di coloro che hanno vissuto l’Unione Sovietica.
E al tempo stesso è una critica agli aspetti più cialtroneschi della nuova realtà, come quando scrive che la Patria sovietica «Non ci coccolava con infinite varietà di merci estere», ma ogni tanto ci «regalava film americani, profumi francesi, stivali tedeschi o giacche finlandesi. Raramente e moderatamente. Erano tutti però di qualità eccellente»: a differenza di oggi...
E nei commenti al post: «quanto siamo stati stupidi! Non apprezzavamo quello che avevamo». Oppure «Ti rendi conto cosa abbiamo distrutto nel ’91!»... Qualcun altro ha commentato «da far venire le lacrime»: in particolare quando Žvanetskij scrive «un giorno ci ribellammo. Essa non era sorpresa. Aveva capito tutto. E perciò non disse nulla. Sospirò pesantemente e se ne andò. Per sempre»...
Ecco il post (nota: il soggetto agente è sempre la Patria sovietica)
*****
Sulla patria sovietica
Sulla patria sovietica
«Era rigida, all’apparenza per niente affettuosa. Non aveva nulla di glamour. Non affettava amabilità. Non aveva tempo per questo. E non ne aveva nemmeno desiderio. E l’origine stessa la spingeva a questo. Era semplice.
Per tutta la vita, per quanto mi ricordi, non ha fatto altro che lavorare. E anche molto. Moltissimo. Si occupava di tutti: tutti insieme. E soprattutto di noi, asini e imbecilli.
Ci nutriva come poteva. Non coi tartufi, con le aragoste, non con parmigiano o mozzarella. Ci nutriva con formaggio semplice, con semplice salame, incartato in carta grigia e ruvida.
Ci istruiva. Ci metteva libri sotto il naso, ci spingeva in circoli e associazioni sportive, ci portava al cinema, agli spettacoli mattutini per bambini, con un biglietto da 10 kopeeke. E poi nei teatri di burattini, al teatro giovanile. Più tardi, al teatro drammatico, all’opera e al balletto.
Ci insegnava a riflettere. Ci insegnava a trarre conclusioni. A dubitare e raggiungere il dovuto. E noi ce la mettevamo tutta, come potevamo. E facevamo i capricci. E storcevamo il naso.
E poi crescevamo, mettevamo senno, diventavamo maturi, si raggiungeva la laurea e si ottenevano medaglie e titoli. E non capivamo nulla. Sebbene credessimo di capire tutto.
E così essa sempre di nuovo ci mandava agli istituti e all’università. Agli istituti scientifici. Nelle fabbriche e negli stadi. Nei kolkhozy. Nelle brigate di costruzione. Ai cantieri lontani. Nel cosmo. Essa ci indirizzava sempre verso qualche obiettivo. Anche contro la nostra volontà. Ci prendeva per mano e ci conduceva. Ci spingeva senza farsi notare. Poi ci salutava e andava oltre, seguendoci però in silenzio. Da lontano.
Essa non era ostentatamente-compiacente, o dimostrativamente generosa. Era economica. Parsimoniosa. Non ci coccolava con infinite varietà di merci estere. Preferiva la sue, fatta da noi.
Poi, a volte, improvvisamente ci regalava accidentalmente film americani, profumi francesi, stivali tedeschi o giacche finlandesi. Raramente e moderatamente. Erano tutti però di qualità eccellente, sia i film, i vestiti, i cosmetici o i giocattoli per bambini. Come dovrebbero essere dei regali donati da persone care.
E noi ce li contendevamo nelle code [fuori dei negozi]. E ci entusiasmavamo, rumorosamente e in modo completamente infantile. Ed essa sospirava. In silenzio. Più di quello non ce lo poteva dare. E per questo rimaneva in silenzio. E si metteva di nuovo al lavoro. Costruiva. Lanciava. Inventava. E ci nutriva. E ci istruiva.
Ma a noi non bastava. E ci mettevamo a mormorare, proprio come bambini viziati che ancora non conoscono il dolore. Brontolavamo; ci lamentavamo. Non eravamo soddisfatti. Per noi tutto quello non era mai abbastanza.
Fu così che un giorno ci ribellammo. Rumorosamente. Sul serio.
Essa non era sorpresa. Aveva capito tutto. E perciò non disse nulla. Sospirò pesantemente e se ne andò. Del tutto. Per sempre.
Non si era offesa. Nella sua lunga e difficile vita si era abituata a tutto.
Essa non era perfetta e lo capiva da sola. Era viva e quindi poteva sbagliare. A volte anche molto. Più spesso tragicamente. Però sempre a nostro vantaggio. Semplicemente, ci amava troppo. Anche se cercava di non mostrarlo apertamente.
Aveva di noi una considerazione troppo alta. Più di quanto non fossimo davvero. E ci proteggeva come meglio poteva. Da tutto il male. Noi pensavamo di essere ormai adulti. Eravamo convinti di poter vivere senza le sue cure e senza la sua custodia.
Ne eravamo sicuri. Noi ci sbagliavamo. Essa no.
Aveva ragione anche questa volta. Come quasi sempre. Poi, udite le nostre recriminazioni, non si mise a discutere.
E se ne andò. Senza sparare. Senza spargere sangue, né sbattere la porta. Senza offendersi nell’addio.
Se ne andò, lasciandoci vivere come allora volevamo.
Ed ecco come viviamo tutt’oggi.
E però, ora sappiamo tutto. Sappiamo cosa sia l’abbondanza. Cosa sia il dolore. Lo sappiamo eccome.
Siamo felici?
Non lo so.
Ma so esattamente quali parole molti di noi non le dissero allora.
Abbiamo pagato per intero per la nostra sfrontatezza infantile. Ora abbiamo capito tutto ciò di cui non potevamo renderci conto nelle menti immature, in quegli anni della nostra serena infanzia viziata.
Grazie! Non avere un cattivo ricordo di noi. E perdonaci. Di tutto! Patria Sovietica...».
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento