Trovo assolutamente condivisibile le valutazioni espresse nel report del 3 febbraio del gruppo di lavoro di La Via Maestra su Democrazia riforme istituzionali informazione, in particolare quella in cui si specifica che ‘dovremo essere capaci di far capire che la precarietà – lavorativa, sociale, esistenziale – è all’origine della crisi della democrazia’, della diffusa indifferenza che si manifesta nell’astensionismo e del successo dei partiti populisti a vocazione autoritaria.
Non è una spinta ideologica a motivare questa mia condivisione di un giudizio che sollecita la ricerca delle radici sociali della crisi della democrazia.
Questa ricerca può essere indirizzata dalle argomentazioni presenti in un saggio di Hermann Heller del 1933. Cito solo alcuni passi, dove si individuano le possibili radici dell’Autoritärer Liberalismus, titolo del saggio. Ovviamente si può essere d’accordo o meno con la visione complessiva che Heller ha della democrazia come Herrschaftsform, forma di dominio che richiede pur sempre il carattere unitario e ultimativo della decisione da parte del sovrano (in questo caso del sovrano popolare), di sicuro gli riesce di cogliere i connotati di fondo dei regimi reazionari all’epoca del capitalismo maturo.
Essi vengono individuati in comportamenti apparentemente contraddittori delle forze reazionarie che, quando sono in gioco questioni economiche, spingono verso una limitazione dell’intervento statale per ampliare la libertà dell’impresa, e, dice Heller, lo Stato autoritario conosce solo la parola ‘libertà dell’economia’, sfera che deve essere ben separata da quella statale.
La de-statalizzazione dell’economia, però, non significa ‘astinenza da una politica di sovvenzioni per le grandi banche, la grande industria e i grandi agrari’, ma smantellamento della politica sociale. Questo smantellamento della politica sociale, a sua volta, si accompagna a misure ‘dittatoriali’ nel campo politico e dello ‘spirito pubblico’, riferendosi quest’ultimo alle motivazioni comportamentali delle classi popolari, giudicate indolenti – oggi le si accusa di essere fannulloni – e da sottoporre a provvedimenti di disciplinamento, quali il taglio dei sussidi di disoccupazione e dell’assistenza sociale.
Heller mette in luce una doppia pratica dello Stato autoritario: restringimento della sfera pubblica per ampliare la libertà delle imprese e interventi statali per sostenerle; in parallelo, restringimento delle misure di politica sociale e interventi per rendere disciplinate le classi lavoratrici e popolari. Si possono sintetizzare queste pratiche con lo slogan, il più favorito da tutti i reazionari, ‘Stato forte, economia sana’, coniato nel lontano 1932 per un convegno di industriali a Düsseldorf.
‘Stato forte, economia sana’ si attaglia alle strategie del governo di Giorgia Meloni, che non vuole disturbare chi fa impresa, che deve essere lasciato libero di agire, senza lacci e lacciuoli. Per questo è stato cancellato il cd decreto dignità, che metteva rigidi paletti al contratto a tempo determinato, e, approfittando del PNRR, si sta proseguendo nell’opera di smantellamento dei controlli con provvedimenti di accelerazione delle autorizzazioni e del silenzio-assenso eliminando i vincoli ambientali e paesaggistici.
Il reddito di cittadinanza, per porre argine alla povertà e sostenere i working poor, i lavoratori poveri, il cui salario non raggiunge la soglia della sopravvivenza, è stato immediatamente soppresso con lo scopo dichiarato che si devono spingere i ‘fannulloni’ a cercarsi lavoro, senza approfittare della solidarietà pubblica (prevista in Costituzione all’articolo 2).
Qui si coglie l’aspetto ideologico: l’intenzione di creare uno ‘spirito pubblico’ reazionario da parte del governo di Giorgia Meloni che considera i disoccupati persone che volontariamente decidono di non lavorare, non vedendo invece che il sistema capitalistico si serve sempre di un esercito di riserva per contenere le istanze di innalzamento salariale e sociale delle classi lavoratrici (come spiegò Kalecki molti anni fa). Il governo Meloni sostiene tutte le forme di lavoro precario, inaugurate dal ministro del lavoro del primo governo Prodi, Tiziano Treu, poi sostenute e ampliate dai successivi governi senza distinzione di colore, e infine sistematizzate con il Jobs Act dal governo Renzi.
Nella faretra di Giorgia Meloni, e della sua ministra del lavoro Calderone, ci sono altre frecce come quella scagliata in occasione della discussione sul salario minimo, quando strappò una delega affossando i disegni di legge.
La delega, invece di determinare i principi normativi per introdurre il salario minimo, mira a ridefinire complessivamente il regime contrattuale e salariale con lo scopo di estendere, ai gruppi di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, i trattamenti economici minimi dei contratti collettivi nazionali di lavoro, individuati in base al criterio di maggiore applicazione, utilizzando se necessario il contratto della categoria più affine.
Il culmine di questo atteggiamento di compressione delle classi lavoratrici è rappresentato dagli assassini sul lavoro dovuti, come l’ultima strage di Firenze dimostra, all’illegalità diffusa, alla pluralità dei contratti a causa della miriade di imprese appaltatrici in uno stesso luogo produttivo – nel cantiere dell’Esselunga se ne contano 61 – al lavoro nero dei migranti.
Di fronte a tutto ciò il governo si inventa la patente a punti, un incentivo invece di assumere provvedimenti quali l’introduzione dell’omicidio sul lavoro e strumenti simili all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.
Queste misure antioperaie si accompagnano a provvedimenti di defiscalizzazione degli oneri sociali, sostituitivi degli aumenti salariali da parte degli imprenditori, e a una riforma fiscale che mira a introdurre la flat tax, cancellando la progressività delle imposte (sancita dall’articolo 53 della Costituzione). Se, proprio in tema di lavoro, si pensa agli effetti disgreganti dell’Autonomia differenziata sui contratti nazionali, il quadro di un attacco forsennato alle classi lavoratrici risulta molto chiaro.
Lo Stato autoritario è l’agente principale della costruzione di una società in cui l’impresa è libera e il lavoro è schiavo. Il regime del primo ministro, il regime del capo del governo, è lo strumento per istituire lo Stato autoritario, indispensabile per le forze imprenditoriali che hanno la necessità di disciplinare la classe operaia, contenere e se possibile, come negli ultimi anni, abbassare i livelli salariali, avere mano libera nell’organizzazione del lavoro, garantirsi ingenti sostegni finanziari pubblici per la transizione energetica, digitale e ‘verde’. Non è certo un caso che la Confindustria, governativa sempre per vocazione, è oggi iper-governativa.
Perché i ceti più poveri e socialmente disagiati non votano o votano perfino per le destre reazionarie? Perché anche i governi cd di centrosinistra hanno attuato politiche liberiste, di compressione dei salari, di deregolamentazione contrattuale, perché insufficiente quando non proprio assente l’iniziativa conflittuale sindacale, e tutto ciò ha alimentato la disillusione, il disimpegno, l’astensionismo alle elezioni.
Di questo approfittano le destre populiste e reazionarie per propagandare la favola che la crisi, politica sociale ed economica, è dovuta all’instabilità dei governi, causata dai partiti e dal regime parlamentare. Senza qui dover ripercorrere le degenerazioni partitocratiche e parlamentaristiche, il governo Meloni, e prima di esso maggioranza e governi di ogni colore, hanno individuato nel regime del capo di governo la scorciatoia per affrontare la crisi sociale e democratica che attanaglia le società ‘occidentali’.
La relazione del presidente Di Siervo di questo pomeriggio ha illuminato tutte le contraddizioni e, soprattutto, i danni all’edificio costituzionale dei disegni di legge del premierato e dell’autonomia differenziata, e io ricordo la sua audizione al Senato, dove ha spiegato lucidamente che i partiti sono solo interessati a gestire la loro crisi di rappresentanza scaricandola sulla Costituzione. Attraverso l’introduzione del regime del capo di governo e la centralizzazione e personalizzazione del potere si vuole occultare la frattura tra partiti e società.
Con l’elezione diretta, o con l’indicazione sulla scheda del candidato a capo del governo, i partiti credono di poter risolvere la crisi della rappresentanza politica, frutto dell’espropriazione delle competenze del Parlamento, svuotate per un verso dall’Unione Europea e per l’altro dal governo sempre più attore unico e indiscusso dei processi legislativi.
Occorre, se si vuole affrontare la crisi sociale e politica, dare nuova linfa alle istituzioni rappresentative (introducendo forme sempre più penetranti di partecipazione), dare un fondamento democratico alle rappresentanze sociali affinché i cittadini diventino protagonisti della vita democratica. Da ultimo: la difesa e lo sviluppo dei diritti fondamentali, civili e sociali, sono i modi per dare sostanza alla democrazia politica.
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