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03/03/2024

Mario Draghi, la competitività europea e i nuovi Mezzogiorni

di Guglielmo Forges Davanzati – Università del Salento: Dipartimento di Studi Umanistici. La prima parte di questa nota riprende il mio articolo dal titolo Europa al palo: il futuro passa al Sud, pubblicato su “Gazzetta del Mezzogiorno” di sabato 2 marzo 2024.

1 – L’economia europea perde posizioni nella competizione internazionale e sperimenta, al suo interno, una costante crescita delle divergenze regionali (l’impoverimento relativo del Mezzogiorno rispetto al Nord è parte di questa dinamica).

A Mario Draghi, come è noto, è stato affidato il compito di redigere il rapporto sulla competitività europea, che verrà ultimato verosimilmente a giugno prossimo. Nel discorso dello scorso 15 febbraio all’Economic Policy Conference di Washington (durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award), che va letto insieme a quello all’Ecofin del 24 febbraio, ne ha resi noti i fondamentali ingredienti.

Partiamo dalla diagnosi. L’ex Governatore della BCE formula due critiche. La prima è rivolta al modello della globalizzazione sperimentato negli ultimi decenni, che avrebbe portato squilibri commerciali in un contesto di crescente partecipazione agli scambi commerciali internazionali di Paesi che avevano punti di partenza, in termini di livello di sviluppo, molto diversi.

Draghi riconosce che le delocalizzazioni prodotte dalla globalizzazione hanno considerevolmente ridotto la quota dei salari sul Pil, creando ostilità in coloro che ne sono risultati danneggiati. Così come, contrariamente alle promesse, la globalizzazione non si è associata alla diffusione dei valori (liberali -ndR) orientati al rispetto delle libertà individuali e della democrazia.

La seconda critica attiene alla politica economica e da qui origina la sua proposta.

Draghi osserva correttamente che l’Unione Monetaria Europea (UME) ha puntato, per la sua crescita, su un modello trainato dalle esportazioni, in una condizione di competizione fra i Paesi membri, che risulta perdente nel lungo periodo.

Da qui la sua prescrizione: emettere – più di quanto fin qui fatto[1] – debito pubblico europeo per finanziare, in modo cooperativo fra Paesi dell’Eurozona, investimenti pubblici finalizzati, in particolare, alla transizione ambientale e digitale. Si stima un costo complessivo di 500 miliardi l’anno, ai quali occorre aggiungere la spesa per la Difesa.

Si ritiene rilevante, a tal fine, un uso più produttivo dei risparmi europei, molti dei quali congelati nei conti correnti delle banche. Nell’impostazione fatta propria da Draghi, il ruolo della Banca europea degli investimenti (BEI) potrebbe essere rilevante.

La rilevanza di queste considerazioni per il Mezzogiorno risiede innanzitutto nell’applicazione a quest’area della diagnosi di Draghi. Non vi è dubbio che il Sud è stato colpito – come molti altri Sud d’Europa (Portogallo, Spagna, Grecia e la stessa Italia nel suo complesso: quelli che gli inglesi chiamano PIGS, ovvero “porci”) e come i Sud del mondo (Africa in primis) – dalla doppia dinamica della globalizzazione e dell’affermarsi del modello export-led in Europa.

Nel primo caso, è stato penalizzato dalla concorrenza esercitata dai Paesi dell’Est; nel secondo caso, l’accento posto sulle misure di austerità e su una competizione basata sulla moderazione salariale ne ha compresso la domanda interna, non compensandola con adeguati aumenti di esportazioni nette, data la scarsa propensione alle esportazioni delle sue imprese.

L’interesse del discorso di Draghi sta anche nell’accento che viene posto sulla legittimazione delle Istituzioni e, dunque, sulla necessità che la politica economica europea sia sostenuta da – e produca – adeguato consenso.

La diagnosi di Draghi è utile per mettere in evidenza il fatto che un’economia di mercato genera spontaneamente effetti di polarizzazione fra centro e periferie (e, in una dinamica di doppio movimento, fra aree interne e città). Una volta, infatti, determinatasi l’aggregazione industriale in una data area, quell’area continua a crescere per effetto soprattutto dei flussi migratori che attrae dalle aree più povere e dai risparmi provenienti da queste ultime, diventando un attrattore di risorse.

Si tratta di un effetto noto, nelle scienze sociali, come causazione cumulativa ed è quanto sta accadendo a danno del Mezzogiorno. È stato stimato che, fatti 100 gli investimenti fissi realizzati nel Sud Italia, solo 54 vengono soddisfatti da produzioni interne, a fronte di 38 realizzati dal Centro-Nord (o dall’estero). Per contro, 100 euro di investimenti al Nord richiedono ben 87 euro di produzione interna e una quota irrilevante di produzione intermedia dal Sud.

Questa evidenza suggerisce che il Nord non è la locomotiva del Paese: l’economia meridionale non cresce, infatti, quando cresce quella del Nord del Paese.

Di per sé, un aumento della spesa pubblica in Europa (comunque auspicabile rispetto alle misure di austerità che hanno caratterizzato la Storia recente del continente) non attenua queste dinamiche, potendo esclusivamente risolversi in una crescita della dipendenza delle aree periferiche da quelle centrali, per effetto delle maggiori importazioni[2].

Il problema nasce dalla considerazione che le aree periferiche (fra le quali soprattutto il Mezzogiorno) non dispongono di meccanismi di crescita autopropulsivi e partecipano alla formazione delle catene del valore europee con produzioni a basso valore aggiunto e con uso più intensivo di lavoro precario (v.,infra, sezione 2).

Vediamo con maggiore approfondimento questo aspetto, per comprendere (i) per quale ragione l’economia europea si sviluppa producendo spontaneamente diseguaglianze regionali e (ii) se questo assetto produttivo e istituzionale, proprio nella logica seguita da Draghi, può competere efficacemente con gli altri global player (segnatamente, USA e Cina).

2 – L’unificazione monetaria europea è stata costruita sulla convinzione – formalizzata nella teoria delle aree valutarie ottimali, originariamente proposta da Robert Mundell nel 1961 – che l’esistenza di una moneta unica consenta di assorbire shock asimmetrici (che colpiscono, cioè, alcun Paesi e non altri) attraverso la piena flessibilità dei prezzi e/o mediante l’assenza di vincoli allo spostamento dei fattori produttivi, segnatamente del fattore lavoro, senza cioè variazioni dei tassi di cambio[3].

Si tratta dell’ipotesi di convergenza, ovvero dell’ipotesi stando alla quale le economie dell’UME tenderebbero spontaneamente a realizzare il medesimo tasso di crescita[4].

Un indirizzo critico rispetto all’ipotesi della convergenza si trova nell’approccio della c.d. causazione circolare cumulativa che fa riferimento ai contributi di Myrdal e Kaldor. Si tratta di uno schema in base al quale un evento B, effetto di un evento A, retroagisce sulla sua causa, potendo alternativamente generare circoli viziosi o virtuosi, stando ai quali si conclude, nello studio dei fenomeni economici applicati alla dimensione spaziale, che un’economia di mercato deregolamentata produce spontaneamente divergenze territoriali[5].

L’evidenza empirica sembra suffragare questo approccio, mostrando che l’Europa si sviluppa sempre più secondo uno schema di crescita della polarizzazione, fra un core (Germania e Paesi del centro-nord del continente) e due periferie: quella dell’est Europa, soprattutto dopo l’allargamento ai Paesi di Visegrad del 2004, e quella mediterranea, che include l’Italia nel suo complesso.

Per quanto possa apparire prima facie controintuitivo rispetto alla visione dominante, l’evidenza empirica mostra che nel continente vi è stata convergenza del Pil pro-capite prima dell’unificazione monetaria (in particolare, dal secondo dopoguerra alla prima crisi petrolifera del 1973) e che, in particolare dopo l’adozione della moneta unica, si è semmai registrata divergenza o, nel migliore dei casi, stazionarietà.

L’economia italiana approfondisce il suo ruolo di fornitore di produzioni intermedie al capitale del Nord Europa, generando, al tempo stesso, un movimento interno di crescita delle divergenze regionali (Cresti et al., 2023), con il Sud che accentua la configurazione di esportatore di input (in particolare, forza-lavoro qualificata) in regime di dipendenza da centri decisionali esterni (Dosi et al., 2015).

Questa modalità di partecipazione al network produttivo globale ed europeo peggiora considerevolmente la qualità del lavoro in Italia e, ancor più, nel Mezzogiorno (Ardeni and Gallegati, 2024). Il downgrading delle produzioni italiane, soprattutto se riferito alla perdita progressiva di intensità tecnologica[6], va di pari passo con la compressione del tasso di crescita relativo del Paese, che, non a caso, aumenta meno della media europea da venticinque anni (cfr. Forges Davanzati and Giangrande, 2020).

Le emigrazioni, in particolare intellettuali, riducono il potenziale di crescita del Sud e, anche per questo effetto, stimolano ulteriori migrazioni, implicando guadagni di produttività nell’area che attrae e perdite di produttività simmetriche nell’area di partenza.

SVIMEZ (2023) stima che, dal 2002 al 2021, più di 2,5 milioni di individui hanno lasciato il Sud, soprattutto per il Centro-Nord (81%). Il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti nel medesimo periodo. Le emigrazioni al Centro-Nord hanno prevalentemente riguardato individui giovani: fra il 2002 e il 2021, il Sud ha vissuto un esodo di 808.000 individui di età inferiore ai 35 anni, dei quali 263.000 laureati.

A ciò si può aggiungere un’ulteriore considerazione. In circa dieci anni, la Germania è riuscita nella storica impresa di ridurre i divari interni fra Ovest ed Est del Paese. L’Italia li ha visti invece quasi costantemente aumentare negli ultimi decenni, dopo un breve periodo di convergenza negli anni 1951-1971.

Il Pil pro-capite lombardo è stimato pari a 37.300 euro, quello della Calabria a 17.100 euro, quello della Puglia a euro 18.100. La regione più povera d’Europa fa parte della Bulgaria (Severozapen, con un Pil pro capite pari a 8.600 euro). L’aumento dei divari, oltre a riguardare i rapporti Nord-Sud, attiene anche a quelli con le aree interne, che registrano infatti sistematici arretramenti rispetto alle aree urbane in termini di crescita economica.

Questa dinamica si è svolta in un contesto di lungo periodo dominato dalla continua riduzione dei trasferimenti al Sud, mostrando che i divari regionali tendono ad aumentare quando la spesa pubblica nel Mezzogiorno si contrae e in un contesto di sostanziale centralizzazione istituzionale. A riprova di questa conclusione, si può ricordare che il solo periodo di convergenza fra le due aree del Paese si è avuto in una fase non solo di marcata espansione dei trasferimenti nelle aree meno sviluppate (si pensi alla Cassa per il Mezzogiorno), ma anche di industrializzazione pubblica.

Si stima che il tasso di crescita delle regioni meridionali tra anni Cinquanta e Settanta del Novecento si attestasse intorno al valore molto elevato del 6% annuo, consentendo una generazione di ricchezza pari, in un ventennio, a quella dei precedenti novanta anni.

3 – Dall’analisi qui delineata emergono due aspetti critici relativi al miglioramento della competitività europea che non sembrano esplicitamente emergere nelle considerazioni di Draghi.

Il primo attiene all’implicazione per la quale occorrerebbe potenziare la base industriale delle aree periferiche per evitare che la compressione dei salari si scarichi su queste ultime. La moderazione salariale è, in effetti, la sola strategia che l’UME si dà in sostituzione della svalutazione (è infatti nota come svalutazione interna) e amplifica le divergenze soprattutto perché comprime – soprattutto se combinata con le misure di austerità – la domanda interna a danno di quelle aree (le periferie) con più debole struttura produttiva e minore capacità di esportazione (Colacchio e Forges Davanzati, 2023).

In più, rinviando proprio alla diagnosi di Draghi, il già precario senso di appartenenza all’UME viene ulteriormente indebolito, con ogni evidenza, da queste strategie (De Grawe, 2018).

Il secondo aspetto critico attiene all’incapacità dell’euro di svolgere il ruolo di valuta di riserva internazionale, essendo rimasta fondamentalmente una moneta regionale (Marani, 2023), confermando la conclusione per la quale, nella competizione con Cina e Stati Uniti, l’Unione europea sperimenta perdite di competitività anche per quanto attiene a questa dimensione.

Non desta sorpresa il fatto che le Istituzioni europee sono così impermeabili a rilievi critici basati sull’evidenza[7], se si considera la recente esternazione di Christine Lagarde (al Forum di Davos, nel gennaio 2024), secondo la quale gli economisti “sono una cricca tribale, si citano a vicenda tra di loro, ma sono incapaci di andare oltre quel mondo” e i loro modelli “in cui hanno una fede cieca hanno poco a che fare con la realtà”.

La ricerca accademica in Economia, in effetti, a bene vedere, si autonomizza e diventa sempre più autoreferenziale, autogenerando per inerzia una modellistica progressivamente meno utile per la comprensione dei fatti e per la costruzione delle politiche economiche.

Riferimenti bibliografici

Amici, M. Bobbio, E. and Torrini, R. (2017). Patterns of convergence (divergence) in the euro area: profitability vs, cost and price indicators, Banca d’Italia – Quaderni di Economia e Finanza, n.415, December.

Ardeni, P.G. and Gallegati, M. (2024). On the Italian economic development: What the long-term says about the short-term, “Italian Economic Journal”, 10, pp.25-42.

Colacchio, G. and Forges Davanzati (2023). Wage moderation, regional imbalances in Europe and the Recovery and Resilience Plan, “International Journal of Political Economy”.

Cresti, L. Dosi, G. Riccio, F. and Virgillito, M.E. (2023) Italy and the trap of GVC downgrading. Labour dependence in the European geography of production, “Italian economic Journal”, 9 (3).

De Grauwe, P. (2018). Economia dell’unione europea. Bologna: Il Mulino, undicesima edizione.

Dosi G, Grazzi M. and Moschella D (2015). Technology and costs in international competitiveness: From countries and sectors to firms. “Res policy”, 44(10):1795–1814.

Forges Davanzati, G. and Giangrande, N. (2020) …

Magacho, G.R. and MCombie, J. (2020). Structural change and cumulative causation: A Kaldorian approach, “Metroeconomica”, June.

Marani, U. (2023). L’euro, una valuta solo “regionale”, “Economiaepolitica”, 4 luglio.

SVIMEZ (2023). Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Roma.

SRM, Studi e Ricerche sul Mezzogiorno (2014). L’interdipendenza economica e produttiva tra il Mezzogiorno ed il Nord Italia, in collaborazione con Prometeia. Napoli: Giannini.

Viesti, G. e Prota, F. (2008). Le nuove politiche regionali dell’Unione europea. Bologna: Il Mulino.

Note

1) Ci si riferisce al Next generation Europe, come primo esempio di emissione di bond europei.

2) Si pensi soprattutto al settore della difesa, nel quale la produzione occidentale è al momento prevalentemente statunitense. Marco Fortis (Debito pubblico. Diminuzione record per l’Italia, “Il Sole 24 ore”, venerdì 2 marzo 2024) ha correttamente fatto notare che la competizione con Cina e USA vede l’UME perdente anche come effetto delle misure di consolidamento fiscale, a fronte delle misure espansive messe in atto dai concorrenti e che il debito pubblico italiano è, da molti anni, su un sentiero di riduzione.

3) Per una trattazione critica della teoria delle aree valutarie ottimali, si rinvia, fra gli altri, a De Grauwe (2018) e Colacchio e Forges Davanzati (2023). Si veda anche: https://www.ecb.europa.eu/pub/convergence/html/ecb.cr202206~e0fe4e1874.it.html

4) Non è questa la sede per dar conto degli effetti dei trasferimenti compensativi quali i fondi strutturali. Sia sufficiente rinviare a Viesti e Prota (2008), i quali mettono in evidenza il fatto che la politica regionale europea, sebbene almeno parzialmente efficace per la generazione di ricchezza nel Mezzogiorno, non riesce a incidere sulle condizioni dell’offerta e, dunque, sulla struttura p“in cui hanno una fede cieca hanno poco a che fare con la realtàroduttiva di quest’area.

5) In questo schema, le divergenze sono generate dall’esistenza, nelle regioni ricche, di economie di scala statiche o dinamiche (la riduzione dei costi di produzione all’aumentare della scala della produzione), a loro volta imputabili a fattori propriamente tecnologici e/o al learning by doing ed effetti di apprendimento. Storicamente, le aree centrali europee si identificano con la c.d. “banana blu”, che comprende Londra, Milano, Parigi, Amburgo, Berlino.

6) Definita da ISTAT come rapporto fra spesa pubblica e privata per R&D e totale degli investimenti.

7) Peraltro, in una condizione nella quale – sul piano epistemologico e della politica economica – si ritiene che l’Economia debba essere appunto evidenzce-based. Il testo più recente sul tema è stato scritto da Pierre Cahuc and André Zylbrerger e costituisce la fondazione del c.d. contro-negazionismo in Economia.

Fonte

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