A chiunque sarà capitato di andare a fare spesa in un supermercato o in una frutteria e vedere ciascuna cassetta con i prodotti ortofrutticoli affiancata da una targhetta. Questa riporta una serie di informazioni, tra cui il paese d’origine della merce.
L’indicazione del paese d’origine dei prodotti agroalimentari sfusi messi in vendita al dettaglio è imposta dal Regolamento UE 543/2011. Questo all’articolo 6 comma 1 recita: “nella fase della vendita al minuto [...] i prodotti possono essere posti in vendita a condizione che il rivenditore esponga accanto ad essi, in caratteri chiari e leggibili, le informazioni relative al paese di origine [...] in modo tale da non indurre in errore il consumatore”.
L’indicazione del paese d’origine messa sulla targhetta consente al consumatore di poter fare degli acquisti consapevoli. Questo diritto è tutelato dal Regolamento UE 116/2011, che all’articolo 3 comma 1 stabilisce che “La fornitura di informazioni sugli alimenti tende a un livello elevato di protezione [...] degli interessi dei consumatori, fornendo ai consumatori finali le basi per effettuare delle scelte consapevoli [...] nel rispetto in particolare di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche”.
Pertanto, la legge impone al venditore d’indicare il paese d’origine, di modo che il consumatore possa anche fare delle scelte d’acquisto etiche. Ciò ovviamente non piace ad Israele, che è ben cosciente della scarsa popolarità delle proprie esportazioni, per tanto ha trovato tutta una serie di escamotage per aggirare la legge.
Per quel che riguarda i prodotti ortofrutticoli l’esempio più comune è con gli avocado, ma il sistema si applica anche ad altro. Il sistema escogitato da Israele fa leva proprio su una falla del Regolamento UE 543/2011. Questo all’articolo 6 comma 2 esonera il venditore dall’indicazione del paese d’origine nel caso in cui i prodotti vengano presentati in imballaggi preconfezionati.
In questo specifico caso, il paese d’origine deve essere apposto sulla confezione. Il trucco sta quindi nel catalogare la frutta (o la verdura) non come merce sfusa, ma come prodotto preconfezionato. Sembra assurdo, ma dei frutti esposti dentro una cassetta (e talvolta anche acquistabili al peso) non vengono considerati sfusi, ma imballati.
Ciò in virtù del fatto che tutti i singoli frutti presenti nelle cassette hanno un piccolo bollino che è di per sé sufficiente a farli catalogare come prodotti confezionati. Su questo piccolo bollino, in caratteri molto piccoli (e talvolta con inchiostri poco tenaci) è effettivamente riportato che il frutto proviene da Israele.
Si tratta di un qualcosa di ben diverso dall’obbligo d’esporre “in caratteri chiari e leggibili, le informazioni relative al paese di origine” previste da detto regolamento.
In pochi si vanno a leggere le piccole informazioni sbiadite contenute su un bollino, mentre la targhetta posta sopra una cassetta salta subito agli occhi dell’acquirente che potrebbe fare le proprie valutazioni di carattere etico e politico. In virtù di ciò, i prodotti ortofrutticoli israeliani possono esser venduti senza indicare il paese d’origine nella targhetta posta sulle cassette.
Il sistema ha una falla che probabilmente sarà ardua da riparare, ma nel frattempo si può tenere alta la vigilanza e informare sui subdoli mezzi che usa Israele per ingannare noi consumatori.
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