Hanno voglia i pensatori del politicamente “corretto” e del pragmaticamente efficace, come il politologo francese Dominique Moisi intervistato dal Corriere della Sera, a discettare sul golpe “non legale ma legittimo” subito dall’Egitto.
Cercano di mettere a posto le proprie coscienze e fanno quadrare i conti su ciò che dello storico Paese piace a sé, alle potenze occidentali e alla metà degli egiziani che a tale modello s’ispirano. Però stragi come quella di stamane davanti alla sede della Guardia Repubblicana del Cairo convinceranno sempre più frange oltranziste (i già noti gruppuscoli jihadisti che operano nel Sinai, il neonato gruppo Ansar al Shari’a e altri che potranno nascere) che il confronto fra le due visioni della nazione non potrà più essere pacifico.
Eppure Morsi nella citata intervista insiste nel dire che l’Egitto non può finire come la Siria per “la sua tradizione, il rispetto, la tolleranza” categorie che paiono sempre più astratte di fronte alle drammatiche notizie, a una realtà che calpesta totalmente l’accettazione dell’avversario. In questo la responsabilità di apprendisti stregoni della leadership nazionale alla El Baradei, la cui candidatura a guida pacificata e di tutti è durata lo spazio d’una notte, sono enormi. Non consideriamo il premio Nobel quale responsabile unico del caos in cui l’Egitto è caduto in questi giorni, come non indichiamo Morsi come l’inetto per eccellenza, ma da figure pubbliche ci si aspetterebbe cautela e oculatezza.
Si può ampiamente criticare – e nei giorni scorsi ne abbiamo scritto – l’inoperosità, l’opportunismo, il limitato orizzonte rivolto al proprio particolare mostrati per un anno intero dal presidente Morsi e dal premier Qandil. Ma i loro incarichi derivavano dal consenso ottenuto in consultazioni libere e partecipate. La smania ribelle di metterle in discussione da parte di politici navigati come gli uomini del Fronte di Salvezza Nazionale trasformato in Fronte Unitario d’opposizione ha puntato sull’appoggio dell’amato esercito, sulla occupazione delle città, certamente percorse da immensi cortei di protesta contro i simboli dell’Islam politico ma anche sulla dilagante violenza contro quei simboli attaccati e messi a ferro e fuoco.
Esorcizzare il rischio di guerra civile sostenendo – come fa l’intellettuale francese – che non si ha memoria recente di tale sciagura è operazione priva senso, perché proprio in Siria nell’ultimo biennio si è iniziato coi cortei di protesta e s’è continuato con stragi di manifestanti e risposte armate di quest’ultimi. Questo prima che dall’esterno potenze regionali (le solite petromonarchie, la Turchia) e l’Occidente mercenario pensassero ad armare ribelli e incentivassero per propri fini l’ecatombe d’una guerra fratricida che continua. Controbilanciati da chi sostiene Assad. I generali egiziani, sostengono di fare gli arbitri, ma possono indifferentemente sparare su islamisti e laici, come dimostrano dal gennaio 2011. Il Paese non è affatto immune da un simile pericolo, da interventi esterni come la Libia. Dalla cannibalizzazione dello scontro interno.
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