Il giorno dopo si ragiona meglio, di solito. A patto di avere la mente sgombra da pregiudizi e qualche strumento analitico non raccattato per strada, just in time. Altrimenti si vede solo quello che si è deciso di vedere (primo caso), o si prendono lucciole per lanterne (o albe per tramonti, e via mottegiando), nel secondo.
Cosa è successo il “9 novembre”?
Le cronache, non soltanto le nostre – che pure qualche collaboratore in loco lo avevamo – ci raccontano situazioni assai diverse da Nord a Sud, tra Est e Ovest. Differenze nei numeri della partecipazione ai “blocchi”, ma abbastanza omogenee nella composizione sociale; tranne forse a Torino, dove si sono affastellate – ma non affratellate – spinte diverse. Una composizione fatta di piccoli imprenditori, commercianti, agricoltori diretti, titolari di imprese di appalto e subappalto (si veda l'esemplare cronaca dalla Fincantieri di Monfalcone). Ma anche di giovani disoccupati, in qualche caso. Etichettare tutto ciò come “piccola borghesia” sarebbe sbagliato; etichettare tutti i partecipanti come fascisti, anche; sottacere il dato di fatto che la “micro imprenditoria” sia la figura egemone – per numeri, sistema di idee, immaginario e rivendicazioni immediate – sarebbe da idioti. O da falsari.
Figure sociali frammentate dal modello di business e spesso anche per scelta soggettiva, macinate dalla crisi per prime – dal lato “imprenditoriale” – proprio a causa delle ridotte dimensioni dell'impresa, dal loro non "fare sistema”, dall'assenza-impossibilità di innovare sia il prodotto che il processo, dal diminuire drastico della spesa pubblica e dal peso della tassazione (basti pensare alla progressiva scomparsa degli aiuti all'agricoltura, alla riduzione parziale di appalti e subappalti, all'aumento dei controlli anche sul fronte dell'evasione fiscale, ecc). Su questo – dalle cronache nazionali e anche torinesi, sia mainstream che “antagoniste” – non c'è alcun dubbio.
Di comune, in tutta Italia, c'è stata la “rappresentanza politica” della protesta. Di destra. Esplicita nei nomi dei “coordinatori” su tutto il territorio nazionale, nei discorsi improvvisati ai presìdi, negli striscioni e negli slogan, nell'iconografia e nei saluti romani (anche a Torino), nel “programma”. Una rappresentanza politica che ha promosso, organizzato, diretto la mobilitazione – per larga parte, non tutto è completamente programmabile quando di scende in piazza, specie per settori sociali che ci sono poco abituati – fornendo idee, programma, “militanti a tempo pieno” stipendiati, scenografie tricolori e un “rapporto privilegiato e amichevole” con le forze dell'ordine. Un rapporto esplicitato dal gesto di “togliersi il casco”, in diverse città e quasi contemporaneamente; segno di un comando (non necessariamente governativo, forse solo “sindacale”) unitario, programmato e politicamente significativo. Persino a Torino, dove pure qualche oggetto è volato verso le truppe e qualche lacrimogeno è stato sparato.
Nessuna spontaneità, nessuna “autorappresentazione”, se non negli sfoghi individuali davanti alle telecamere, nelle storie consegnate ai taccuini dei cronisti. E che raccontano di un'umanità improvvisamente in difficoltà, abituata a uno stile di vita “benestante” ma che “non vive di rendita”, a contatto quotidiano col lavoro dipendente e niente affatto desiderosa di finire in quest'ultimo girone infernale. "Popolo", certamente. Ma nel popolo c'è di tutto, come sulla "barca"; dove vengono sistemati capitani di vascello, giannizzeri con la frusta e rematori. Fa differenza, non credete?
Non si tratta di una situazione assolutamente originale. Nel corso della Storia degli ultimi due secoli è avvenuto abbastanza spesso. Certo con differenze significative, con “culture condivise” mutanti nel tempo. Queste figure sociali esprimono rabbia, ma la loro rabbia. Non ce l'hanno col “capitalismo” (anzi...), ma con la propria sconfitta nella competizione globale. E hanno rivendicazioni proprie, chiarissime: recupero fiscale delle accise sui carburanti (nel caso dei camionisti), diminuzione delle tasse, riduzione dei controlli sulla qualità del lavoro (contratti, sicurezza, fatturazione, ecc). Chiedono “protezione” e un vantaggio competitivo, settoriale o nazionale, non un altro modello sociale. Tutte cose che un governo della Troika può dare oppure no, in parte o per settori.
Quello che un governo siffatto non può dare è un ritorno a un modello di sviluppo entro il quale quelle figure sociali avevano prosperato. La ristrutturazione del “modello sociale europeo” e la politica di bilancio scritta a Bruxelles sono anche per loro una sciagura e, al contrario del passato anche recente, non prevedono una “contrattazione” in cui sia possibile evitare in toto le sforbiciate.
Non a caso, proprio ieri, Enrico Letta tuonava ancora una volta contro i “populismi antieuropeisti che producono solo macerie”, invitando – come al solito – a “credere” nelle ricette della Troika per avviare quella “ripresa” che dovrebbe risolvere i problemi anche della microimprenditoria. Un modo per tenere insieme – da un punto di vista di classe e “strategico” – sia la ristrutturazione neoliberista che la contestazione “di destra” a questo processo. I poliziotti che si toglievano il casco, a ben pensarci, sono l'immagine di una “non belligeranza dall'alto” nei confronti di figure sociali che vengono riconosciute come “proprie” e quindi legittime.
Non è così e non sarà mai così per l'antagonismo di classe, per chi porta in piazza gli interessi del lavoro dipendente (“stabile”, “privato”, “pubblico”, pensionato, precario o disoccupato che sia). Le “eccedenze” non sono tutte uguali, all'occhio del potere. Sarà il caso che si cominci a distinguere anche da questo lato della barricata. Sarà il caso che si cominci a vedere nella “rottura dell'Unione Europea” il baricentro di qualsiasi lotta antagonista al capitale. Per il banale motivo che è così nei fatti, nei processi economici e nelle trasformazioni politiche in corso, nello svuotamento dei governi (e Parlamenti, partiti, istituzioni) nazionali e e nell'assenza – programmata dall'alto – di una “rappresentanza politica” in grado di connettere protesta sociale e obiettivi di trasformazione radicale.
Non è un caso che la “rappresentanza politica” degli strati coinvolti – in misura per fortuna ancor aminima – nella mobilitazione del 9 dicembre sia stata affidata alla destra meno presentabile (non solo fascisti, anche “leghisti indipendentisti” e stronzate simili). È un messaggio chiaro, dai piani alti del potere: potete sfogarvi un po', ma così non andate da nessuna parte. E nemmeno chi si accoda.
I meccanismi che agiscono ormai a livello europeo, non consentono e non consegnano margini per riprendere "dentro" il processo di accumulazione quei settori sociali che ne sono stati esclusi. Per milioni di lavoratori questo processo è in corso da almeno venti anni. Per i ceti medi impoveriti l'amaro risveglio è stato più recente.
P.S. Ricordiamo un altro caso di “rivolta popolare” presuntamente “apolitica”, che fece discutere e divise la sinistra rivoluzionaria d'allora: la “rivolta di Reggio Calabria”, contro la scelta di Catanzaro come capoluogo di regione. Rivolta presto egemonizzata dalla destra fascista (Ciccio Franco e i “boia chi molla”) e a cui Lotta Continua e altri gruppi extraparlamentari decisero di partecipare, per una breve fase, proprio per strappare l'egemonia ai “neri” (di 'ndrangheta allora si parlava poco e non a tutti era visibile). Non ci riuscirono; eppure si trattava di organizzazioni di notevoli dimensioni, rispetto ad oggi. Solo “Lc” poteva vantare circa 20.000 militanti quasi a tempo pieno (gli studenti d'allora non stavano fermi un attimo), una direzione politica salda, un “programma” non banale.
Difficile poter pensare, seriamente, che qualche decina di attivisti di una o due città – e senza una visione chiara di quel che hanno davanti – possano “far girare” il timone nazionale di un mobilitazione di questo genere...
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