di Michele Paris
Pressato da livelli di gradimento ai minimi storici e da una
frustrazione ampiamente diffusa tra la maggior parte degli americani che
ancora non vedono alcun frutto della presunta ripresa economica in
corso, Barack Obama ha messo in atto questa settimana l’ennesimo
patetico tentativo di presentarsi come il difensore delle classi
disagiate degli Stati Uniti. In un discorso pubblico tenuto presso
l’istituto di ricerca filo-democratico Center for American Progress, il
presidente ha infatti denunciato le vergognose disparità sociali e di
reddito che caratterizzano il paese, promettendo di battersi nei
prossimi anni per una più equa distribuzione delle ricchezze. Ciò che
l’inquilino della Casa Bianca ha però mancato nuovamente di spiegare
sono state le pesantissime responsabilità della sua amministrazione
nell’avere creato la situazione che egli stesso ha voluto condannare.
Ad
ascoltare Obama nel suo discorso di mercoledì, molti americani
avrebbero potuto pensare che il presidente non abbia avuto alcun ruolo
in questi cinque anni nel processo di trasferimento di ricchezza dai
ceti più poveri al vertice della piramide sociale.
Come se fosse
uno spettatore incolpevole, Obama ha così descritto con toni molto duri
il divario tra ricchi e poveri negli Stati Uniti, definendolo, assieme
ad una mobilità sociale in netto declino, come la principale minaccia al
“sogno americano”. Del tutto esatti sono stati poi i dati proposti alla
platea, come ad esempio quelli che descrivono una società nella quale
il 10 per cento della popolazione detiene la metà della ricchezza
prodotta nel paese, oppure che l’1 per cento possiede beni 288 volte
superiori a quelli di una famiglia media americana.
Ai numeri
proposti dal presidente democratico se ne potrebbero aggiungere molti
altri per mettere in evidenza i risultati delle politiche di classe
messe in atto in questi anni. Ad esempio, come ha affermato a Bloomberg News
un economista dell’Università di Berkeley, nel 2012 il 10 per cento
degli americani più ricchi si è aggiudicato una parte dei redditi
complessivi mai così grande dal 1917.
Oppure, i profitti delle
corporations, che rappresentano oggi una parte dell’economia dalle
dimensioni senza precedenti dal 1947, mentre le entrate dei lavoratori,
in proporzione al PIL degli Stati Uniti, sono al minimo dal 1952.
Le
parole di Obama hanno prevedibilmente raccolto il consenso di media e
commentatori “liberal”, i quali lo hanno elogiato quasi senza riserve
per avere pronunciato uno dei discorsi migliori della sua presidenza in
materia di economia e per avere allo stesso tempo affrontato in maniera
diretta la piaga dell’ineguaglianza negli Stati Uniti.
Le
denunce e le promesse del presidente, tuttavia, non possono nascondere
il fatto che egli stesso fin dall’insediamento alla Casa Bianca nel 2009
ha favorito questo processo di polarizzazione sociale, tanto che in
questi ultimi anni l’1 per cento degli americani più ricchi ha messo le
mani addirittura sul 95 per cento dell’aumento complessivo di reddito
fatto registrare negli Stati Uniti.
Allo stesso modo,
l’amministrazione Obama ha presieduto ad una contrazione media dei
redditi degli americani superiore al 4 per cento in cinque anni, proprio
mentre l’èlite economica d’oltreoceano, come ha ricordato mercoledì lo
stesso presidente, raddoppiava la propria quota di ricchezza in
relazione a quella totale prodotta dal paese.
Queste dinamiche,
come appare evidente, non sono il risultato di forze anonime ma di
politiche messe in atto deliberatamente da una classe dirigente al
completo servizio dell’aristocrazia economica e finanziaria. Se ciò non è
responsabilità esclusiva dell’amministrazione Obama, dal momento che
politiche economiche regressive vengono implementate da decenni, la
tendenza verso l’allargamento del divario sociale e di reddito è stata
senza dubbio aggravata in maniera drammatica dalle iniziative
dell’attuale presidente democratico in seguito all’esplosione della
crisi finanziaria del 2008.
A contribuire alla creazione di un
panorama caratterizzato da disuguaglianze sempre più marcate, come
delineato da Obama, sono ad esempio misure a beneficio esclusivo
dell’industria finanziaria come i pacchetti di “salvataggio” pari a
centinaia di miliardi di dollari approvati sul finire dell’era Bush jr. e
ampliati nei mesi successivi. O, ancor più, la politica espansiva
della Federal Reserve che continua a mantiene i tassi di interesse in
prossimità dello zero e a immette sui mercati qualcosa come 85 miliardi
di dollari ogni mese, alimentando la speculazione finanziaria e facendo
schizzare verso l’alto gli indici di borsa.
Parallelamente, i
profitti delle grandi aziende - come quelle automobilistiche, oggetto di
una “ristrutturazione” gestita dal governo federale nel 2009 - sono
stati favoriti dall’impoverimento di massa dei lavoratori attraverso
licenziamenti e riduzione di stipendi, pensioni e benefit sanitari.
La
stessa “riforma” del sistema sanitario, inoltre, al contrario della
retorica ufficiale, serve e servirà in larghissima misura a ridurre i
costi assicurativi per il settore pubblico e quello privato, facendo
aumentare le contribuzioni a cui decine di milioni di americani dovranno
provvedere di tasca propria per mantenere una qualche copertura.
L’amministrazione
Obama è stata protagonista anche della liquidazione di un numero record
di posti di lavoro tra i dipendenti pubblici in questi anni - oltre 600
mila - così come ha assistito spesso senza muovere un dito alla
distruzione di programmi pubblici destinati alle classi più deboli e,
come sta accadendo in questi mesi, alla soppressione dei fondi destinati
ai buoni alimentari e ai sussidi straordinari di disoccupazione.
Solo
di un paio di giorni fa è infine la notizia dell’approvazione da parte
di un giudice fallimentare del procedimento di bancarotta della città di
Detroit, presentato dalle autorità cittadine con il pieno appoggio
dell’amministrazione Obama e che comporterà, tra l’altro, un taglio
delle pensioni degli ex dipendenti pubblici e il conseguente ulteriore
peggioramento delle loro condizioni di vita.
Anche tra coloro che
hanno risposto positivamente al discorso di Obama, in ogni caso, in
molti hanno sottolineato l’assenza di proposte concrete e praticabili
quanto meno per limitare il dilagare delle disparità economiche negli
USA.
Una delle poche misure indicate dal presidente consiste
nell’aumento del salario minimo federale, oggi fissato alla cifra infima
di 7,25 dollari l’ora. Dopo avere sostenuto la necessità di salire a 9
dollari l’ora, Obama ha recentemente appoggiato un disegno di legge
proposto dal senatore Tom Harkin e dal deputato George Miller, entrambi
democratici, che fisserebbe la paga minima oraria a 10,10 dollari l’ora.
Oltre
alle difficoltà nel mandare in porto una simile iniziativa al
Congresso, appare quanto meno ridicolo pensare che essa possa in qualche
modo correggere il trend in corso. Infatti, uno stipendio minimo appena
al di sopra dei dieci dollari l’ora sarebbe comunque, in termini reali,
più basso di quanto risultava essere quarant’anni fa, senza riuscire
nemmeno a far superare la già irrisoria soglia di povertà fissata dal
governo federale per un nucleo familiare composto da tre persone.
Fonte
Fortuna che per Obama Mandela è stato un esempio...
Nessun commento:
Posta un commento