di Carlo Musilli
L’Italia ha
abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Nel 1993, con un
referendum. Siccome però repetita iuvant, ci siamo concessi il bis.
Stavolta abbiamo cancellato i “rimborsi elettorali”, ovvero la furbata
con cui i finanziamenti erano stati reintrodotti già nel 1994, aggirando
la volontà degli elettori stessi. Il provvedimento è stato varato
venerdì, per decreto, dal Consiglio dei ministri.
In
sostituzione dei fondi pubblici, dall’anno prossimo entrerà in funzione
un nuovo sistema fondato sul contributo volontario da parte dei privati
(con un tetto di 300mila euro), che andrà a regime nel 2017. Alle
donazioni è collegato un sistema di detrazioni sul reddito imponibile
(al 37% tra i 30 e i 20mila euro e al 26% tra i 20mila e i 70mila euro).
I cittadini potranno anche destinare ai partiti il 2×1000 dell’imposta
sul reddito (Ire). Il decreto prevede inoltre “l'obbligo della
certificazione esterna dei bilanci dei partiti”, così da impedire che si
ripetano “gli scandali degli anni scorsi”, ha precisato il premier
Enrico Letta.
Domanda: perché mai è stato necessario un decreto?
La Costituzione stabilisce che il Governo possa utilizzare questo
strumento "in casi straordinari di necessità ed urgenza". E' difficile
definire "urgente" un teatrino che dura da almeno vent’anni, ma se
ignoriamo questo allegro abuso costituzionale – ormai prassi di vecchia
data – scopriamo che il decreto approvato ieri ricalca quasi alla
lettera il disegno di legge già approvato dal Cdm lo scorso 31 maggio.
Un testo passato alla Camera, quindi impantanato in commissione al
Senato.
I parlamentari, evidentemente, non erano particolarmente
motivati all’idea di tagliarsi da soli i fondi, perciò l’applicazione
delle misure rischiava di slittare oltre i tempi previsti. Con il
decreto, il Governo obbliga deputati e senatori ad approvare il
provvedimento, a meno che qualcuno non abbia il coraggio di votare
contro la conversione del testo in legge.
In effetti, è proprio su questo piano che si misurano
i maggiori benefici dell’abolizione del finanziamento pubblico. E’
significativa l’orgia di tweet che si è scatenata venerdì, a Cdm ancora
in corso, con politici di ogni schieramento prontissimi a esultare e a
intestarsi il merito di questa “promessa mantenuta”. Il tema è di quelli
sensibili, perché parla alla pancia della gente. Non a caso è da sempre
uno dei (pochi) vessilli elettorali sbandierati da Matteo Renzi,
neoeletto segretario del Pd. Ma siamo davvero sicuri che ci sia tanto da
esultare?
I soldi risparmiati dallo Stato sono certamente un
aspetto apprezzabile, ma non particolarmente significativo in termini
finanziari. Anche l'obbligo della certificazione esterna dei bilanci è
positivo, e anzi viene da chiedersi come sia stato possibile andare
avanti decenni senza che a nessuno sia venuto in mente di mettere sul
tavolo un requisito minimo di trasparenza come questo. D'altra parte, il
decreto consegna il destino economico dei partiti ai privati.
Per
quanti militanti generosi e animati da sincera passione politica
possano esistere in Italia, è evidente che non sarà il loro contributo a
tenere in piedi le macchine burocratiche del potere politico. La gran
parte delle risorse arriverà da aziende, consorzi, cooperative,
imprenditori e consorterie varie. Quante possibilità ci sono che le loro
donazioni, benché volontarie, non siano anche interessate?
Quel
tetto di 300mila euro non è affatto basso, e senz'altro non scoraggia
chi cerca la scappatoia legale per ungere il politicante di turno.
Quando parliamo di partiti non ci riferiamo soltanto a quel migliaio di
persone sedute in Parlamento, ma anche ai loro ben più numerosi colleghi
che occupano le poltrone dei consigli comunali, provinciali e
regionali. E gli scandali a ripetizione degli ultimi anni raccontano di
quali amenità siano capaci.
I finanziamenti o rimborsi
elettorali sono senz'altro antipatici, ma hanno una funzione precisa:
fare in modo che la sopravvivenza dei partiti non dipenda dalle tasche
di chi persegue un tornaconto particolare. Il tutto con un corollario
non da poco in termini di democrazia: i soldi pubblici aiutano le
formazioni minori, quelle con poco appeal per gli sponsor esterni. E'
ovvio che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un
nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe molte meno
speranze di sopravvivere rispetto agli avversari.
Sulla base di
questi principi, altrove il sistema dei finanziamenti pubblici funziona
benissimo. In Italia no, perché davanti a una tavola imbandita molti non
riescono proprio a trattenersi. Le scorribande con soldi statali dei
vari Trimalcioni di provincia sono state possibili finora per la
mancanza di un sistema di controllo minimamente severo ed efficace, in
grado di esporre al pubblico disprezzo il primo amministratore con in
mano una fattura sospetta. Se fossimo riusciti ad imporre regole rigide,
certamente avremmo potuto ridurre drasticamente la spesa per i partiti,
evitando al contempo di favorire il loro legame con gli interessi dei
privati. Abolire in toto i finanziamenti, invece, è stato come ammettere
la sconfitta.
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