Emiliano Brancaccio, ricercatore e docente di economia all’università del Sannio, tra i promotori del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times racconta a Giornalettismo le criticità della moneta unica e spiega quali sono a suo avviso le possibili soluzioni per portarci fuori dalla crisi.
Intervista di Andrea D’Amato
Emiliano
Brancaccio, 42 anni, ricercatore e docente di economia politica presso
l’Università del Sannio, a Benevento, è un volto noto grazie alle sue
partecipazioni televisive, ma soprattutto è uno dei pochi economisti ad
avere anticipato la crisi dell’euro. Nel 2007, quando la parola “spread”
non era ancora entrata nel linguaggio comune, presentò un articolo che
sarebbe stato pubblicato l’anno successivo dalla rivista “Studi
economici”, con il titolo «Deficit commerciale, crisi di bilancio e
politica deflazionista». In esso annunciava la vendita in massa di
titoli di stato italiani e l’aumento dei tassi di interesse: cioè gli
avvenimenti che si sono effettivamente verificati nel 2011, portando tra
l’altro alle dimissioni di Berlusconi e all’avvento del governo tecnico
di Monti.
Professor
Brancaccio, lei ha previsto con quattro anni di anticipo la crisi
dell’eurozona e l’ondata di vendite di titoli dei paesi periferici, tra
cui l’Italia.
Non
sono il solo. Perplessità sulla tenuta dell’Unione monetaria europea
erano già state espresse da alcuni studiosi, più autorevoli di me. Tra
gli economisti italiani, il compianto Augusto Graziani si mostrò
scettico sulla sostenibilità dell’euro anche prima che la moneta unica
entrasse in vigore. E’ vero peraltro che il mio articolo conteneva
qualche elemento di novità. Per esempio, in esso criticavo l’ottimismo
del capo economista del FMI Olivier Blanchard e di Francesco Giavazzi,
due noti esponenti della visione macroeconomica prevalente. Loro
ritenevano che l’eurozona sarebbe stata capace di assorbire
spontaneamente i suoi squilibri interni e di evitare una crisi. Io
avanzavo molti dubbi, al riguardo.
Alla fine ha avuto ragione lei o no?
Pare
di sì. Eppure, le rivelerò un aneddoto curioso: l’ANVUR, la contestata
agenzia governativa che valuta la qualità della ricerca ai fini
dell’assegnazione dei fondi alle università, non sembra avere
particolarmente apprezzato quell’articolo. E non si tratta di un caso
isolato. Le analisi critiche verso la concezione dominante della
macroeconomia trovano sempre più riscontri nella realtà dei fatti, ma in
accademia sono tuttora osteggiate. La campagna tolemaica contro di esse
è iniziata negli anni ’80 e dura ancora oggi, sebbene la crisi abbia
messo in evidenza i limiti della visione prevalente. Di questo passo, se
non si interviene per riaffermare il pluralismo della ricerca
economica, si arriverà al paradosso di veder sparire la dialettica tra
le diverse scuole di pensiero dalle aule universitarie, proprio quando
ve ne sarebbe più bisogno.
Alcuni
dicono che la crisi degli spread sia ormai passata. Invece, con Dani
Rodrik, Alan Kirman e altri autorevoli economisti, Lei ha recentemente
pubblicato un “monito” sul Financial Times in cui continua a mettere in guardia sulla sostenibilità dell’area euro. Cosa ha calmato gli spread e perché le vostre previsioni continuano a essere pessimistiche?
Le
vendite di titoli si sono arrestate e gli spread si sono ridotti non
perché la crisi sia stata risolta, ma perché Draghi ha solennemente
dichiarato che «la Bce farà tutto ciò che è necessario per preservare
l’euro». Ossia la Banca centrale si è impegnata a comprare i titoli dei
paesi in difficoltà per difenderli dagli attacchi speculativi sui
mercati. Draghi sostiene che ciò sarà sufficiente per preservare l’euro.
Nel “monito degli economisti” ravvisiamo nella posizione di Draghi una
contraddizione. La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in
difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di
austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti
pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua
la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente
riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i
redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un
circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità
dell’eurozona.
Nel
“monito degli economisti” criticate anche le cosiddette riforme
strutturali chieste dalla Bce, ovvero riforme del mercato del lavoro che
introducano ulteriore flessibilità nei contratti. Quali effetti possono
avere queste politiche sul nostro paese e in generale sulla
sostenibilità dell’Unione monetaria?
L’invito
a fare le riforme strutturali del mercato del lavoro non è nuovo. In
Europa le politiche di flessibilità del lavoro sono state una costante
dell’ultimo ventennio. In materia di diffusione dei contratti precari
l’Italia ha persino realizzato un piccolo record: tra il 1998 e il 2008 l’indice
di protezione dei lavoratori italiani calcolato dall’OCSE è caduto più
che in ogni altro paese europeo. Ma a che pro? Paesi che non hanno
attuato politiche di precarizzazione così pesanti hanno fatto registrare
andamenti dell’occupazione migliori del nostro. Del resto, come ha
ammesso lo stesso Blanchard, non c’è prova empirica che la flessibilità
del lavoro aumenti l’occupazione. La Bce tuttavia insiste con questa
ricetta avanzando una spiegazione più articolata. La sua tesi è che la
precarizzazione riduce la forza contrattuale dei lavoratori e quindi
consente di ridurre i salari: in questo modo i paesi periferici
dell’Unione dovrebbero essere in grado di ridurre il divario di
competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e
alla svalutazione. Il problema è che per ridurre in modo consistente
quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale
portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con
effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso.
Per questi motivi noi riteniamo che Draghi abbia solo messo in “coma
farmacologico” l’eurozona malata. E che stia suggerendo cure che a lungo
andare finiranno per ammazzarla.
Questa agonia potrebbe anche protrarsi per anni? Quali sarebbero le conseguenze per l’Italia e gli altri paesi periferici?
In
parte le conseguenze sono già sotto i nostri occhi. Dal 2008 l’Italia
ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e
Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle
imprese sono aumentate del novanta percento, in Spagna addirittura del
duecento percento. Al contrario, la Germania ha visto aumentare
l’occupazione e diminuire i fallimenti. Queste divergenze sono il
sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla
desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’eurozona, a
vantaggio del paese più forte.
Nel “monito” ricordate anche una vostra precedente lettera, pubblicata nel 2010 sul Sole 24 Ore,
con centinaia di adesioni da parte di economisti italiani e stranieri.
Alla fine della lettera affermavate che con l’aggravarsi della crisi «le
forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser
chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire
all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei
redditi e dell’occupazione», incluso lo sganciamento dall’eurozona. Per
queste ultime parole veniste criticati. Alcuni sostennero che una uscita
dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, e
potrebbe addirittura condurre a nuove guerre.
E’
un modo fuorviante di affrontare la questione. L’eurozona di fatto è un
particolare regime di cambio fisso. Guardando la storia di questi
regimi, non è possibile stabilire una relazione tra abbandono dei regimi
di cambio e guerre militari. Anzi, andrebbe ricordato che alla vigilia
della Prima guerra mondiale era in vigore il gold standard, un sistema
per molti versi simile all’euro. L’economista Barry Eichengreen ritiene
pure che i tentativi di ripristino del gold standard favorirono la
grande depressione, che creò i presupposti per la Seconda guerra
mondiale. Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che
dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno
alimentando in seno all’Europa.
Recentemente
l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina ha parlato di un “Piano
B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Come
giudica l’emergere di dubbi sull’euro anche nell’area del PD?
Il
protrarsi della crisi costringe tutti a rivedere le vecchie posizioni.
Keynes sosteneva che i cambiamenti politici avvengono per
l’incontenibile pressione degli eventi, molto più che per il decadere
dei vecchi pregiudizi. Al di là di singole posizioni, tuttavia, mi pare
che nel PD, e in generale in quel che resta dei partiti eredi più o meno
diretti della tradizione del movimento dei lavoratori, si sconti ancora
un notevole ritardo sul da farsi rispetto al deterioramento del quadro
economico e sociale.
Sull’altro
fronte sembra invece che il centrodestra voglia posizionarsi nell’area
euroscettica. Testimoni autorevoli dichiarano che Berlusconi voleva
uscire dall’euro già nel 2011, quando era ancora a Palazzo Chigi. La
Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più
esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi.
Forse
il dato più importante delle ultime elezioni è stato proprio questo: se
sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in
Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro. Ovviamente si
tratta di una maggioranza solo numerica: queste forze sono fortemente
antagoniste tra loro, incarnano visioni molto diverse e i voti che
esprimono non sembrano sommabili nemmeno su un piano puramente tattico.
Tuttavia il dato dovrebbe indurre a riflettere. In Italia le posizioni
pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante
una preponderante campagna mediatica a loro favore. Evidentemente la
vuota retorica europeista non basta per governare la crisi.
Lei
però ha detto che occorre distinguere tra un’uscita “da destra” e
un’uscita “da sinistra” dall’euro. Si riferisce alla necessità di
proteggere i salari dall’inflazione?
Guardiamo
la storia degli abbandoni dei regimi di cambio fisso dal 1980 ad oggi.
Vedremo che i diversi modi in cui sono stati gestiti hanno determinato
effetti diversi sui diversi gruppi sociali coinvolti, in particolare sui
lavoratori subordinati. Per esempio, negli anni dell’aggancio al
dollaro l’Argentina vide diminuire sia il potere d’acquisto dei salari
sia la quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori; ma dal 2002,
dopo l’abbandono della parità col dollaro, i salari reali e la quota
salari (cioè la parte di reddito nazionale spettante ai lavoratori)
iniziarono una rapida ascesa. Di contro, negli anni dell’adesione allo
SME a banda stretta, l’Italia registrò una crescita del potere
d’acquisto dei salari e una costanza della quota salari; ma dal 1992,
nei tre anni successivi all’abbandono dello SME, i salari reali subirono
una riduzione di quattro punti e mezzo e la quota salari fece
registrare una caduta di oltre cinque punti. In definitiva, una
eventuale uscita dall’euro solleva un problema salariale, che può essere
gestito in vari modi. Per questo sarebbe bene chiarire come si vuole
uscire. A mio avviso sarebbe importante ripristinare alcuni meccanismi
di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una
nuova scala mobile.
A
proposito di come si deve uscire, lei ha pure accennato al rischio dei
cosiddetti “fire sales”, cioè di svendite all’estero delle aziende
italiane dopo una eventuale uscita dall’euro. Eppure vediamo già oggi
numerose imprese del nostro paese finire in mani straniere. Ritiene
quindi così grave il pericolo di svendite in caso di uscita dall’euro
rispetto alla situazione attuale?
La
ricerca economica ci dice che un pericolo del genere può sussistere.
Per chiarire il problema guardiamo al prezzo del capitale. In Italia,
negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili
sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto
l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali.
Tuttavia i prezzi dei beni capitali non hanno ancora scontato
l’eventualità di una uscita dall’euro e di una svalutazione. Se questa
si verificasse, il prezzo in moneta estera dei capitali cadrebbe in
misura significativamente maggiore, e in un solo istante. E’ evidente
che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per
iniziare lo shopping a buon mercato. Anche in questo caso si pone un
problema su come gestire l’uscita dall’euro: cioè si dovrebbe decidere
se introdurre vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali
oppure no. Io credo che l’adozione di vincoli del genere sarebbe
opportuna, in primo luogo in ambito bancario.
Per questi motivi nel “monito degli economisti” insistete sul fatto che esistono modalità alternative di uscita dall’euro?
Ho
fatto solo un paio di esempi, i motivi sono tanti. Semplificando al
massimo si tratta di scegliere tra due possibilità. Da un lato c’è una
opzione di uscita dall’euro che potremmo definire “gattopardesca”.
Sarebbe un’uscita in perfetta continuità con l’ideologia liberista e
liberoscambista che ha dominato in questi anni e che, ad avviso di molti
studiosi, ci ha condotti al disastro in cui versiamo. Questa uscita
gattopardesca sarebbe affidata ancora una volta al libero gioco delle
forze del mercato. I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni
estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla
libera fluttuazione sui mercati e sarebbe mantenuta a tutti i costi la
libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si
continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione
per svuotare lo Stato delle sue funzioni. Questa soluzione di uscita è
tuttora probabile: perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora
ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a
salvaguardare gli interessi dei più forti. Penso agli speculatori, che
trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo
delle valute. E penso pure al capitalismo tedesco. L’associazione degli
esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «noi possiamo fare
tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno
della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».
E quale sarebbe l’alternativa a questa uscita dall’euro “gattopardesca”?
La
seconda possibilità consiste nella messa in discussione dei vecchi
dogmi liberisti e liberoscambisti. Progredire, superare la crisi,
significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano
l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità
all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E
significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in
discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo
luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata
circolazione dei capitali.
Ma, se non si riuscisse a fare tutto questo bisognerebbe uscire comunque dall’euro?
Per
lungo tempo in tanti abbiamo provato a perorare la causa di una riforma
dell’Unione monetaria europea. Personalmente avevo anche avanzato una
piccola proposta, lo “standard retributivo europeo”, che alcune forze
politiche fecero propria e che venne presentata anche a Parigi, ai
partiti del socialismo europeo. Ma tutte le ipotesi di riforma, persino
le più moderate, sono rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile
ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei
socialdemocratici. Il risultato è che oggi l’eurozona è dominata da
divergenze che a lungo andare la faranno implodere. A questo punto non
sarò certo io a battermi per preservare l’euro: l’agonia dell’attuale
situazione è insostenibile. Tuttavia è bene intendersi: una uscita
“gattopardesca” dall’euro non risolverebbe i problemi di fondo, si
limiterebbe a spostarli nel tempo. Mi permetta anche di segnalare un
altro pericolo…
Quale?
Una
opzione di uscita dall’euro lasciata in esclusiva alle nuove destre
nazionaliste si affiancherebbe a un arretramento sul terreno dei diritti
e delle libertà civili. Se così andasse, sarebbe un altro esito da
imputare al ritardo dei liberali, dei cristiano-democratici e
soprattutto dei partiti eredi della tradizione di sinistra nel cogliere
l’estrema gravità della situazione.
Infine,
la domanda delle cento pistole. Le capita, ultimamente, di parlare di
questi argomenti con politici italiani? Non le chiedo chi, ma posso
chiederle di quali partiti?
Le
chiacchiere private tra politici ed economisti lasciano il tempo che
trovano. Contano le dichiarazioni pubbliche e le azioni conseguenti
delle forze politiche organizzate.
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