Mentre raffiche di arma da fuoco fanno ancora eco all'interno di Bor -
città fantasma inaccessibile alla stampa - il nuovo anno si apre con la
speranza, seppur labile, di negoziati di pace tra i ribelli fedeli al
vice-presidente Riek Machar e il governo sud sudanese di Salva Kiir.
Dopo
circa due settimane di scontri violenti che hanno messo a ferro e fuoco
lo stato più giovane dello scacchiere geopolitico internazionale e
anche il meno sviluppato, è Addis Abeba ad ospitare le delegazioni di
ambo le parti per mettere a punto i dettagli di un cessate il fuoco
sotto la pressione dei governi occidentali e di quelli regionali.
L'ultimo dell'anno si era chiuso con pesanti combattimenti che avevano
costretto l'esercito governativo a una ritirata strategica dalla città
di Bor - a circa 200 chilometri dalla capitale Juba - e capitale essa
stessa dello stato dello Jonglei, ricco di risorse petrolifere non
sfruttate e teatro del massacro etnico del 1991.
Fin dal suo esplodere - a metà dicembre - il conflitto che sta
trascinando il Paese nel baratro di una lunga guerra civile tra scontri
violenti nelle zone strategiche di produzione di petrolio, massacri,
stupri, esecuzioni sommarie di civili e soldati e fosse comuni scoperte a
Juba, Bor e Malakal, la principale città dell'Upper Nile, si è
caratterizzato per una recrudescenza di violenza etnica tra i membri
della tribù Dinka del presidente Salva Kiir e quella dei Nuer di Machar,
nonostante gli sforzi da più parti per negoziare un cessate il fuoco.
In un'intervista alla Bbc il capo della missione di pace dell'Onu in Sud
Sudan, Hilde Johnson, ha sostenuto che il conflitto ha le sue radici in
«una lotta politica che richiede una soluzione politica» e fatto
appello a entrambe le parti per «un grande sforzo di riconciliazione
nazionale» al fine di risolvere le ragioni storiche delle attuali
divisioni.
Sarebbero almeno 1000 i morti e circa 200.000 gli sfollati in circa due
settimane di scontri tra i sostenitori del governo e i ribelli del White
Army considerati fedeli a Machar, pesantemente armati con fucili
automatici e granate a propulsione. I negoziati di pace appena all'avvio
e con la mediazione del blocco dell'Africa orientale -
l'Inter-Governmental Authority on Development (Igad) - si annunciano
ardui considerando anche le ultime dichiarazioni di Salva Kiir che ha
definito la guerra «senza senso» ma al contempo ha escluso la
possibilità di una condivisione del potere con i ribelli e respinto le
richieste di questi ultimi di liberare un certo numero di loro
fedelissimi arrestati nelle settimane scorse.
Gli scontri ricordano la faida esplosa nel 1990 all'interno del Sudan
People's Liberation Movement (Splm), il gruppo ora al potere che ha
combattuto l'esercito del Sudan nella guerra civile, quando, al seguito
di Machar a capo della fazione scissionista, i Nuer a lui fedeli
massacrarono a Bor appartenenti all'etnia Dinka.
L'epicentro politico di questa nuova carneficina a sfondo tribale è
stata Juba. Da lì le violenze si sono irradiate rapidamente nelle zone
produttrici di petrolio, dividendo il paese lungo le linee etniche del
gruppo Nuer e Dinka, i due principali di più di 200 gruppi etnici che
con le loro lingue e tradizioni diverse convivono accanto a cristiani e
musulmani facendo del Sud Sudan uno stato privo di una cultura
dominante.
L'Unione Africana ha espresso sconcerto che la più giovane nazione del
continente si trovi coinvolta così presto in un conflitto di questo tipo
esprimendo timori che la situazione possa decadere in «una guerra
civile vera e propria». Timori che per molti analisti sono già realtà
sin dallo scatenarsi di questo ennesimo turbinio di violenza con cui il
mondo ha salutato il 2014.
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