A Firenze la Confindustria ha deciso di calare i suoi assist su quello che già da tempo è diventato uno dei fattori strategici dell’economia e della competizione globale: le grandi aree metropolitane. Lo ha fatto con un convegno dedicato proprio a “Le città metropolitane: una riforma per il rilancio del paese”.
La posta in gioco è indubbiamente alta e non solo in Italia. Infatti secondo alcuni studi a livello internazionale oggi 40 città-regione rappresentano "il 40% dell'economia mondiale e il 90% dell'innovazione; e le attuali sfide della globalizzazione sono state gestite meglio a livello di città più che di nazioni".
Il crescente peso delle “città globali” individuate da Saskia Sassen nei suoi lavori o la loro emergente centralità nel moderno conflitto tra capitale e lavoro analizzate da David Harvey e Mikes Davis, sembra trovare conferma nell’interesse con cui la principale organizzazione padronale italiana sta guardando ai decreti che introducono le venti aree metropolitane nel nostro paese.
Secondo Confindustria “Si tratta di territori che insieme concentrano il 35% del PIL, il 32% delle unità locali e il 31% degli addetti. Costituiscono snodi economici nazionali con forti legami con l'estero, poiché detengono ben un terzo degli scambi nazionali. Le loro strutture aeroportuali, prese nell'insieme, movimentano più del 60% dei passeggeri e circa il 90% delle merci. Concentrano, inoltre, l'industria finanziaria del Paese, con il 33% delle banche, circa il 50% di depositi e impieghi, un terzo delle unità locali del settore finanziario e quasi il 45% dei relativi addetti. Ospitano i principali centri fieristici italiani, con circa la metà delle manifestazioni internazionali che avvengono in Italia, per oltre il 70% dei visitatori. Infine sono sede dei maggiori centri di istruzione universitaria terziaria, con oltre il 40% degli atenei e dei relativi studenti a livello italiano”. Insomma nelle aree metropolitane si vanno concentrando i fattori quantitativi e qualitativi sia della valorizzazione capitalistica sia del conflitto sociale che ne è l’antagonista sul piano degli interessi, delle priorità, dei flussi.
Che la legislazione che introduce le città metropolitane sia tutt’altro che un passaggio burocratico o amministrativo, si desume anche e proprio dalla sua gemmazione: il disegno di legge del governo Letta ne prevedeva dieci; quello in discussione alla Camera diciotto; il testo all’esame del Senato venti. Una proliferazione di metropoli che, secondo il Censis, non sembra trovare riscontro in altri paesi europei. Il motivo? E’ probabile che sia quello sottolineato oggi dal quotidiano La Stampa: “ In Germania, Regno Unito, Francia, Spagna, Olanda e Austria, con 280 milioni di abitanti e 110 grandi aree urbane, i «governi metropolitani speciali» sono solo dieci, la metà di quelli che l’Italia vuole creare con una popolazione quasi cinque volte inferiore. Il motivo del nostro entusiasmo è che l’Ue ha appena attivato specifici finanziamenti per le aree metropolitane. Una lucrosa diligenza che i sindaci non vedono l’ora di assaltare”. La Stampa, giornale della Fiat, limita gli appetiti a quelli dei sindaci, mentre il convegno della Confindustria oggi a Firenze ci dice che ad aver appetito sono anche gli imprenditori privati.
Il disegno di legge approntato dal governo Letta nell’agosto del 2013, proponeva di istituire dieci città metropolitane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Bari, Reggio Calabria) e stabilisce che il sindaco del capoluogo diventi anche sindaco della città metropolitana che sussume i confini della Provincia e la sostituisce. Qui la vicenda s'intreccia con la controriforma costituzionale presentata dal ministro renziano Delrio, che punta all’abolizione delle Province. Ma la posta in gioco sui fondi europei a disposizione, ha fatto si che il numero di città candidate a diventare “città metropolitane” proliferasse notevolmente fino a raddoppiare.
Il miraggio dei fondi europei vorrebbe infatti rendere metropolitane anche città che, almeno secondo gli standard internazionali non lo sono, come Reggio Calabria, inserita nella lista del governo. La moltiplicazione delle aree metropolitane si è poi allargata nella discussione alla Camera, con l’aggiunta di Salerno, Brescia e Bergamo con la motivazione che le province hanno oltre un milione di abitanti, il doppio di Reggio. Poi si sono aggiunte Palermo, Trieste e Cagliari in quanto capoluoghi di Regioni a statuto speciale. E ancora ce ne sarebbero almeno un paio tra Padova, Vicenza, Verona a Treviso, che insieme fanno oltre 1,5 milioni di abitanti, rappresentano effettivamente un’alta concentrazione industriale, strutturata - male per la verità - a rete. Infine ci sono Messina e Catania (già indicate nella legge regionale a statuto speciale).
Tra contrasti che somigliano a scontri da strapaese e le rigide indicazioni che vengono invece da Bruxelles - insieme a diversi miliardi di fondi europei come il fondo "Jessica" per gli investimenti urbani - si ha la netta impressione che l’assetto metropolitano delle principali città del nostro paese sia destinato a diventare il centro di un conflitto politico e sociale con molteplici soggetti in campo. Sarebbe un delitto, oltreché un errore, se tra questi soggetti gli unici a mancare fossero gli interessi popolari.
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