di Vincenzo Maddaloni
Che cosa pensare? In un mondo mediatico in cui si continua a
incoraggiare - a scapito di un giornalismo di informazione - un
giornalismo speculativo e spettacolare che dequalifica la figura stessa
del giornalista fino ad annullarla, c’è poco da pensare. Quel che
incuriosisce è sapere se i giornalisti vogliono resistere all’attrattiva
del gossip o se al contrario vogliono continuare ad apparire come le
caricature di un settore che fa della propria crisi un titolo da prima
pagina.
Ne è un esempio l’ultimo numero del The Sunday Times Magazine,
che ha dedicato la copertina al Cavaliere «After the fall», «Dopo la
caduta», con tanto di resoconto sulle vicende giudiziarie dell’ex
premier, lo scandalo del Bunga Bunga e la sua decadenza da senatore.
"Welcome, signore, to my palazzo", si legge nel sottotitolo, assieme ad
alcune riconoscibilissime frasi dell'ex premier: "Fortunatamente, non ho
mai dovuto pagare una donna per fare sesso". E ancora: "I've got the
sun in my pocket", "Ho il sole in tasca...". Con tanto di servizio
fotografico che mostra un Silvio Berlusconi sfiorito e polveroso.
Quanto basta perché la copertina e il resoconto facciano il giro del
mondo o meglio dell’infosfera, il nuovo termine con il quale sulla
falsariga della “biosfera” si indica con non poca supponenza, la
globalità dello spazio dell’informazione.
Se così stanno le cose,
non serve più che un professionista sia formato e aggiornato per poter
intervenire con sicura competenza sui nodi più intricati del mondo
contemporaneo. Infatti, la funzione del giornalista che prende
posizione, argomenta e prova; la figura del giornalista competente che
“verifica alla fonte” la si vuole condannata all’estinzione. Sicché
posto che sia mai stata un categoria, la professione dei giornalisti
alla quale eravamo abituati cessa di esserla ogni giorno di più.
A
codicillo, ricordiamo qualche cifra per chi s’è assopito: i dieci anni
di e-commerce, i dieci anni di notizie online, i cinque anni di
smartphone e almeno i venti di ideologia costruita ad arte dagli
intellettuali della rete, secondo i quali la partecipazione online della
società civile deve limitarsi a funzioni che permettono di “esaltare”
un contenuto con un plebiscito sistematico degli stati d’animo espresso
da un “mi piace”. E così è cambiato un mondo e con esso anche il modo di
fare informazione. Viviamo già in una nuova era, da qualche lustro
ormai. Qualcuno se ne è accorto?
Infatti, basta aprire un canale
qualsiasi della televisione, anche quelle locali, per capire come la
“libertà d’informazione e di critica” e “l’obbligo inderogabile del
rispetto della verità sostanziale dei fatti” vengano violati di
continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono
quasi inesistenti, è sempre più difficile essere informati, è sempre più
difficile capire ciò che sta accadendo perché le scarse notizie
chiarificatrici quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco
di contraddizioni.
La sensazione è di vivere in una democrazia
sui generis che prospera su una mistura fatta di populismo, di
tecnocrazia, di “mi piace” che stordisce lasciando spazio libero
all’ambizione dei politici, dei personaggi della finanza, dei teorici,
dei portaborse, di persone senza scrupoli che traggono vantaggio dalla
assuefazione, dalla demoralizzazione della gente, la quale sempre meno
trova conforto in un giornalismo critico e perciò informato.
Oramai è giornalista chi si qualifica tale
e chi riceve dalla società il diritto di fregiarsi del titolo.
Pertanto, la definizione di una identità professionale rischia di
diventare solo soggettiva e quindi doppiamente relativa. Inoltre,
siccome gli editori chiedono meno professionismo e più precariato, lo
scenario che si va concretizzando, giorno dopo giorno, è quello di
schiere di ragazzi e di ragazze impiegati “a ore” che tagliano e
incollano, o vanno soavi in onda a leggere strisce di notizie riversate
dalle agenzie di stampa dei regimi che si spartiscono il mondo.
Naturalmente
con il supporto di squadre di editorialisti e di commentatori dai quali
di volta in volta si può ottenere tutto e il contrario di tutto,
considerato che sempre meno lettori e ascoltatori sono rimasti con la
voglia di approfondire, e che c’è sempre più gente che s’appaga con i
“mi piace” piuttosto che con la qualità dei contenuti.
Inoltre,
in uno scenario di crisi economica profonda, la più grave - ricordiamolo
fino alla nausea - dopo la depressione degli anni Trenta, accade che i
movimenti sindacali e del lavoro non rappresentino più un’alternativa
generale credibile a un capitalismo in crisi che genera la
disoccupazione, la povertà, la sofferenza e la miseria di massa. Non a
caso il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, dovendo immaginare in onore
di chi si costruiranno statue fra un secolo, indica Lee Kwan Yew, per
oltre trent’anni Primo ministro di Singapore.
Perché, spiega Sloterdijk, «è stato Lee Kwan Yew a inventare il
modello che si è rivelato di grande successo e che poeticamente potremmo
chiamare capitalismo asiatico: un modello economico ancora più dinamico
e produttivo del nostro, poiché può fare a meno della democrazia, anzi
funziona meglio senza democrazia».
Diciamo che si è su questa
strada anche in Europa. In Italia fin dai tempi del governo Monti, ma
anche prima. Eppure uno dei compiti prioritari della professione
giornalistica è appunto quello di offrire spunti quotidiani a difesa
dei principi democratici della società civile.
Basterebbe
semplicemente rammentare che contro la crisi e la regressione sociale ci
sono moltissimi elementi per un modello alternativo di sviluppo. Per
esempio: l’alternativa alla burocrazia e al controllo dall’alto è la
democratizzazione e la partecipazione dal basso. Le alternative alle
crescenti disuguaglianze e alla povertà sono la ridistribuzione, la
tassazione progressiva e le tutele sociali universali e gratuite. E
ancora, l’alternativa all’economia della speculazione distruttiva è la
socializzazione delle banche e delle istituzioni creditizie,
l’introduzione di controlli sui capitali e il divieto di operare in
strumenti finanziari sospetti.
La
lista potrebbe essere molto più lunga. Pertanto una informazione che
tace o peggio ancora che si sofferma su espedienti di richiamo di masse
come «After the fall» di Berlusconi, sul gossip insomma, produce effetti
devastanti poiché la società alla quale essa si rivolge si ritrova a
non sapere più separare il “grano dal loglio”, dal momento che il
dibattito pubblico non va oltre all’esercizio consultivo dei “mi piace”
evitando ogni approfondimento, ogni chiarificazione e quindi, avallando
il progressivo allontanamento del capitalismo dalla democrazia* che il
filosofo tedesco Peter Sloterdijk indica come la più grave minaccia per
la società civile.
In buona sostanza, siamo davanti a
un’evoluzione che non è imputabile esclusivamente a internet. Infatti,
la storia delle tecnologie è la storia della fluidificazione
dell’informazione. Si legge sui libri che proprio i giornali in formato
cartaceo, nati alla fine del XVII secolo, hanno avuto un ruolo decisivo
in questo procedimento, perché essi facevano circolare l’informazione
molto più rapidamente dei libri in uso fino ad allora. Dopotutto, gli
esseri umani aspirano a essere parte integrante di questo flusso, e a
vedere in questo panta rei (in greco antico “tutto scorre”)
un’occasione di protagonismo.
Ben venga dunque una informazione che dia l’impressione di essere
“aggiornata” di continuo con una velocità monitorata su ogni nuova
generazione di smartphone, benché Roger Penrose - il matematico che ha
scritto numerosi libri dedicati all’intelligenza artificiale - non sia
d’accordo. Secondo lui il problema non si pone poiché il pensiero
cosciente, proprio dell’uomo, è ben diverso dagli algoritmi complessi di
cui sono capaci le macchine.
Pertanto, il credere che la
“tecnologia” sia il punto centrale è una illusione. Beninteso, oggi la
società può valersi di tecnologie che è possibile “usare”, ma esse -
lo si tenga bene a mente - sono utilizzate anche per manipolare chi le
usa. L’esempio dei “social network” ne è una dimostrazione. La stessa
parola usata per descriverli è mistificatoria poiché essi non hanno
“nulla di sociale”, sono anzi il contrario del sociale. Essi
rappresentano la condanna all’isolamento individuale.
Il
problema non è questo soltanto. In un mondo in cui - lo si è detto - si
sa chi trarrà maggior vantaggio da un’atomizzazione del dibattito
pubblico, la domanda fondamentale che bisogna fare è: la società civile
può sopravvivere senza un giornalismo di qualità? Nel momento in cui un
numero sempre più grande di persone si ritrova nell’infosfera a
“leggersi” lo smartphone, si deve avere la forza di dare una risposta
molto semplice: no, non se ne può fare a meno. Avremmo tutti da
guadagnarne.
Fonte
Bell'articolo, informativo e critico al punto giusto, dissento giusto sulle parole in grassetto in quanto penso che il capitalismo (inteso come modello capitalista imperante da sempre in occidente) sia antidemocratico a prescindere.
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