di Michele Paris
A quasi sei anni dall’esplosione della più grave crisi dai tempi
della Grande Depressione, il panorama economico e sociale negli Stati
Uniti e nel resto dell’Occidente si presenta ben diverso da quello che
caratterizzava il periodo antecedente il tracollo avvenuto su scala
planetaria. In particolare, i proclami relativi ad una presunta ripresa
economica in corso e al ristabilimento dei livelli di occupazione
precedenti la crisi sono contraddetti da una realtà segnata da una
profonda ristrutturazione dei rapporti di classe con il conseguente
irreversibile deterioramento delle condizioni di vita di decine di
milioni di lavoratori.
A mettere l’accento sulla vera natura
della ripresa economica è stato qualche giorno fa uno studio pubblicato
dall’organizzazione americana National Employment Law Project (NELP). I
dati si riferiscono agli Stati Uniti del “dopo crisi”, ma il dilagare di
precarietà e posti di lavoro drammaticamente sottopagati che viene
descritto può essere facilmente riconosciuto dai lavoratori di qualsiasi
paese europeo e non solo.
Il cuore della ricerca indica come,
durante questi anni teoricamente segnati da un ritorno a livelli
accettabili dell’economica a stelle e strisce, abbia avuto luogo una
perdita estremamente consistente di impieghi caratterizzati da stipendi
considerati “medio-alti”, sostituiti da un numero sproporzionatamente
elevato di posti di lavoro sottopagati.
Nel sottolineare come
continui a persistere uno squilibrio tra “le industrie che hanno fatto
segnare una perdita di posti di lavoro e quelle che hanno registrato la
maggiore crescita dall’inizio della ripresa economica”, i ricercatori
del NELP rivelano che i settori dell’economia USA che offrono impieghi
pagati non più di 13 dollari l’ora hanno perso il 22% dei posti di
lavoro complessivi durante la recessione ma ne hanno creati ben il 44%
di quelli totali negli ultimi quattro anni.
Poco meno della metà
dei posti di lavoro prodotti dalla fine teorica della crisi, cioè,
pagano stipendi da fame, mentre i posti di questo genere persi durante
la recessione erano stati appena un quinto, o poco più, del totale.
I
posti di lavoro svaniti nei settori che rientrano nella fascia a medio
(da 13 a 20 dollari l’ora) e ad “alto” reddito (da 20 a 32 dollari
l’ora) sono stati invece molti di più: rispettivamente il 37% e il 41%
del totale. In queste due fasce, tuttavia, sono stati creati finora
appena il 26% e il 30% degli impieghi complessivi dopo l’uscita
ufficiale dalla crisi.
A tutt’oggi, così, negli Stati Uniti ci
sono 1,85 milioni di posti di lavoro in più nei settori sottopagati
rispetto al periodo pre-crisi, mentre quelli che garantiscono stipendi
medio-alti sono quasi 2 milioni in meno.
Le paghe più misere sono
genericamente elargite agli impiegati di settori come quello della
ristorazione o della vendita al dettaglio, i quali garantiscono stipendi
medi di nemmeno 10 dollari l’ora, e sono responsabili per il 39%
dell’aumento dei posti di lavoro in ambito privato negli ultimi quattro
anni.
Particolarmente colpiti sono invece i settori di solito
associati con lavori ben pagati, come quelli dell’edilizia o
dell’industria manifatturiera, dove il numero di posti creati non ha
nemmeno lontanamente eguagliato quelli persi dall’inizio della crisi nel
2008. Nel primo caso, i posti in meno sono il 20% e nel secondo almeno
l’11%.
Questo fenomeno appena descritto è del tutto nuovo per i
periodi successivi alle crisi cicliche del sistema capitalistico, tanto
che, ad esempio, durante la ripresa dopo la recessione del 2001 i
settori ad “alto” reddito furono in grado di creare il 40% dei nuovi
posti di lavoro complessivi.
Se
l’analisi dell’istituto di ricerca con sede a New York si concentra sul
settore privato, essa evidenzia anche come la situazione attuale sia
aggravata dal fatto che l’amministrazione pubblica negli USA durante
l’era Obama abbia distrutto in questi anni 627 mila posti di lavoro che
garantivano un reddito dignitoso, di cui addirittura il 44% nel solo
ambito scolastico.
Il quadro complessivo che esce dallo studio
del NELP conferma dunque la vera natura della ripresa economica di
questi anni - taciuta da politici, imprenditori e media “mainstream” -
tradottasi in un ridimensionamento forzato dei livelli di vita per
decine di milioni di lavoratori sufficientemente fortunati da trovare un
qualche impiego dopo essere stati licenziati.
Al contrario, la
ripresa effettiva ha riguardato quasi esclusivamente i profitti delle
grandi aziende e le grandi ricchezze finanziarie, direttamente
dipendenti dal processo deliberato di impoverimento di massa e dallo
stravolgimento dei rapporti di classe appena descritto.
In
concreto, tutto ciò si è tradotto in una riduzione di oltre l’8% del
reddito medio degli americani tra il 2007 e il 2012, proprio mentre le
ricchezze dei miliardari negli Stati Uniti sono più che raddoppiate,
salendo ad un totale di 1.200 miliardi di dollari.
Che l’assalto
alle condizioni di vita dei lavoratori per la difesa e la promozione
degli interessi di una ristretta oligarchia economico-finanziaria non
sia il risultato di forze impersonali bensì di politiche deliberate è
confermato in primo luogo dal ruolo avuto dall’amministrazione Obama
nella compressione delle retribuzioni.
Subito dopo l’esplosione
della crisi, infatti, il neo-presidente democratico aveva forzato la
bancarotta e la ristrutturazione di General Motors e Chrysler, imponendo
tra l’altro il sostanziale dimezzamento degli stipendi per i nuovi
assunti in aziende, come quelle automobilistiche, che tradizionalmente
fissano i parametri retributivi dell’industria manifatturiera americana.
Anche
in questo settore, così, gli stipendi si sono allineati a quelli peggio
pagati, perfettamente in linea con gli sforzi di Obama di rivitalizzare
e rendere più competitiva l’industria degli Stati Uniti, attraverso la
riduzione del gap tra le retribuzioni dei lavoratori indigeni e quelli
dei paesi asiatici, latino-americani o dell’Europa orientale.
Le
conseguenze di tali sviluppi sono state, da un lato, disoccupazione
cronica, stagnazione o taglio degli stipendi, esplosione di lavori
temporanei e part-time, smantellamento di diritti e benefit vari
conquistati nei decenni scorsi dai lavoratori, con conseguente
incremento dei livelli di povertà, mentre dall’altro sono decollati i
profitti delle corporation, saliti ad una quota dell’economia pari oggi
all’11% contro appena il 3% di nemmeno trent’anni fa.
Lo
studio pubblicato dal NELP, in ogni caso, si è inserito nel dibattito
in corso negli Stati Uniti attorno all’opportunità di innalzare il
livello dello stipendio minimo, vale a dire uno dei punti centrali della
campagna elettorale di Obama e del Partito Democratico in vista del
voto di novembre per il rinnovo di buona parte del Congresso di
Washington.
La “battaglia” del presidente e dei suoi colleghi di
partito al Campidoglio - impegnati in questi anni a perseguire
esattamente l’obiettivo contrario - ha patito però un’umiliante
sconfitta proprio settimana scorsa, quando una proposta di legge per
alzare la paga minima oraria a livello federale è stata bloccata sul
nascere al Senato dall’ostruzionismo repubblicano.
Osteggiata da
ampie sezioni dell’imprenditoria americana, questa iniziativa non aveva
comunque nessuna possibilità di andare in porto, dal momento che, se
anche avesse superato l’ostacolo del Senato, la Camera a maggioranza
repubblicana non l’avrebbe con ogni probabilità nemmeno discussa in
aula.
La proposta partorita dai democratici, oltretutto, avrebbe
portato lo stipendio minimo federale da 7,25 a 10,10 dollari l’ora, ad
un livello cioè inferiore - in termini reali - a quello di mezzo secolo
fa. Secondo un recente studio, piuttosto, tenendo conto dell’inflazione e
dell’aumento della produttività, la retribuzione minima negli Stati
Uniti dovrebbe oggi essere fissata ad un livello non lontano dai 22
dollari l’ora.
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