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06/05/2014

USA, la ripresa è per i ricchi

di Michele Paris

A quasi sei anni dall’esplosione della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione, il panorama economico e sociale negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente si presenta ben diverso da quello che caratterizzava il periodo antecedente il tracollo avvenuto su scala planetaria. In particolare, i proclami relativi ad una presunta ripresa economica in corso e al ristabilimento dei livelli di occupazione precedenti la crisi sono contraddetti da una realtà segnata da una profonda ristrutturazione dei rapporti di classe con il conseguente irreversibile deterioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori.

A mettere l’accento sulla vera natura della ripresa economica è stato qualche giorno fa uno studio pubblicato dall’organizzazione americana National Employment Law Project (NELP). I dati si riferiscono agli Stati Uniti del “dopo crisi”, ma il dilagare di precarietà e posti di lavoro drammaticamente sottopagati che viene descritto può essere facilmente riconosciuto dai lavoratori di qualsiasi paese europeo e non solo.

Il cuore della ricerca indica come, durante questi anni teoricamente segnati da un ritorno a livelli accettabili dell’economica a stelle e strisce, abbia avuto luogo una perdita estremamente consistente di impieghi caratterizzati da stipendi considerati “medio-alti”, sostituiti da un numero sproporzionatamente elevato di posti di lavoro sottopagati.

Nel sottolineare come continui a persistere uno squilibrio tra “le industrie che hanno fatto segnare una perdita di posti di lavoro e quelle che hanno registrato la maggiore crescita dall’inizio della ripresa economica”, i ricercatori del NELP rivelano che i settori dell’economia USA che offrono impieghi pagati non più di 13 dollari l’ora hanno perso il 22% dei posti di lavoro complessivi durante la recessione ma ne hanno creati ben il 44% di quelli totali negli ultimi quattro anni.

Poco meno della metà dei posti di lavoro prodotti dalla fine teorica della crisi, cioè, pagano stipendi da fame, mentre i posti di questo genere persi durante la recessione erano stati appena un quinto, o poco più, del totale.

I posti di lavoro svaniti nei settori che rientrano nella fascia a medio (da 13 a 20 dollari l’ora) e ad “alto” reddito (da 20 a 32 dollari l’ora) sono stati invece molti di più: rispettivamente il 37% e il 41% del totale. In queste due fasce, tuttavia, sono stati creati finora appena il 26% e il 30% degli impieghi complessivi dopo l’uscita ufficiale dalla crisi.

A tutt’oggi, così, negli Stati Uniti ci sono 1,85 milioni di posti di lavoro in più nei settori sottopagati rispetto al periodo pre-crisi, mentre quelli che garantiscono stipendi medio-alti sono quasi 2 milioni in meno.

Le paghe più misere sono genericamente elargite agli impiegati di settori come quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, i quali garantiscono stipendi medi di nemmeno 10 dollari l’ora, e sono responsabili per il 39% dell’aumento dei posti di lavoro in ambito privato negli ultimi quattro anni.

Particolarmente colpiti sono invece i settori di solito associati con lavori ben pagati, come quelli dell’edilizia o dell’industria manifatturiera, dove il numero di posti creati non ha nemmeno lontanamente eguagliato quelli persi dall’inizio della crisi nel 2008. Nel primo caso, i posti in meno sono il 20% e nel secondo almeno l’11%.

Questo fenomeno appena descritto è del tutto nuovo per i periodi successivi alle crisi cicliche del sistema capitalistico, tanto che, ad esempio, durante la ripresa dopo la recessione del 2001 i settori ad “alto” reddito furono in grado di creare il 40% dei nuovi posti di lavoro complessivi.

Se l’analisi dell’istituto di ricerca con sede a New York si concentra sul settore privato, essa evidenzia anche come la situazione attuale sia aggravata dal fatto che l’amministrazione pubblica negli USA durante l’era Obama abbia distrutto in questi anni 627 mila posti di lavoro che garantivano un reddito dignitoso, di cui addirittura il 44% nel solo ambito scolastico.

Il quadro complessivo che esce dallo studio del NELP conferma dunque la vera natura della ripresa economica di questi anni - taciuta da politici, imprenditori e media “mainstream” - tradottasi in un ridimensionamento forzato dei livelli di vita per decine di milioni di lavoratori sufficientemente fortunati da trovare un qualche impiego dopo essere stati licenziati.

Al contrario, la ripresa effettiva ha riguardato quasi esclusivamente i profitti delle grandi aziende e le grandi ricchezze finanziarie, direttamente dipendenti dal processo deliberato di impoverimento di massa e dallo stravolgimento dei rapporti di classe appena descritto.

In concreto, tutto ciò si è tradotto in una riduzione di oltre l’8% del reddito medio degli americani tra il 2007 e il 2012, proprio mentre le ricchezze dei miliardari negli Stati Uniti sono più che raddoppiate, salendo ad un totale di 1.200 miliardi di dollari.

Che l’assalto alle condizioni di vita dei lavoratori per la difesa e la promozione degli interessi di una ristretta oligarchia economico-finanziaria non sia il risultato di forze impersonali bensì di politiche deliberate è confermato in primo luogo dal ruolo avuto dall’amministrazione Obama nella compressione delle retribuzioni.

Subito dopo l’esplosione della crisi, infatti, il neo-presidente democratico aveva forzato la bancarotta e la ristrutturazione di General Motors e Chrysler, imponendo tra l’altro il sostanziale dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti in aziende, come quelle automobilistiche, che tradizionalmente fissano i parametri retributivi dell’industria manifatturiera americana.

Anche in questo settore, così, gli stipendi si sono allineati a quelli peggio pagati, perfettamente in linea con gli sforzi di Obama di rivitalizzare e rendere più competitiva l’industria degli Stati Uniti, attraverso la riduzione del gap tra le retribuzioni dei lavoratori indigeni e quelli dei paesi asiatici, latino-americani o dell’Europa orientale.

Le conseguenze di tali sviluppi sono state, da un lato, disoccupazione cronica, stagnazione o taglio degli stipendi, esplosione di lavori temporanei e part-time, smantellamento di diritti e benefit vari conquistati nei decenni scorsi dai lavoratori, con conseguente incremento dei livelli di povertà, mentre dall’altro sono decollati i profitti delle corporation, saliti ad una quota dell’economia pari oggi all’11% contro appena il 3% di nemmeno trent’anni fa.

Lo studio pubblicato dal NELP, in ogni caso, si è inserito nel dibattito in corso negli Stati Uniti attorno all’opportunità di innalzare il livello dello stipendio minimo, vale a dire uno dei punti centrali della campagna elettorale di Obama e del Partito Democratico in vista del voto di novembre per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington.

La “battaglia” del presidente e dei suoi colleghi di partito al Campidoglio - impegnati in questi anni a perseguire esattamente l’obiettivo contrario - ha patito però un’umiliante sconfitta proprio settimana scorsa, quando una proposta di legge per alzare la paga minima oraria a livello federale è stata bloccata sul nascere al Senato dall’ostruzionismo repubblicano.

Osteggiata da ampie sezioni dell’imprenditoria americana, questa iniziativa non aveva comunque nessuna possibilità di andare in porto, dal momento che, se anche avesse superato l’ostacolo del Senato, la Camera a maggioranza repubblicana non l’avrebbe con ogni probabilità nemmeno discussa in aula.

La proposta partorita dai democratici, oltretutto, avrebbe portato lo stipendio minimo federale da 7,25 a 10,10 dollari l’ora, ad un livello cioè inferiore - in termini reali - a quello di mezzo secolo fa. Secondo un recente studio, piuttosto, tenendo conto dell’inflazione e dell’aumento della produttività, la retribuzione minima negli Stati Uniti dovrebbe oggi essere fissata ad un livello non lontano dai 22 dollari l’ora.

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