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02/08/2014

Gli Usa soffrono Israele, ma lo riempiono di armi


Alcune cronache ci hanno raccontato nei giorni scorsi di un Obama furioso che urlava al premier israeliano Netanyahu di smettere di bombardare scuole e ospedali a Gaza, naturalmente inascoltato. Il premio Nobel per la Pace alla guida della Casa Bianca ha già più volte dimostrato, con i fatti, di non essere affatto più pacifista dei suoi predecessori repubblicani e non è quindi la volontà di imporre una pace giusta che genera crescenti attriti tra Washington e Tel Aviv. Il problema è che l’intransigenza di Israele continua a mettere in difficoltà i piani statunitensi di un Medio Oriente pacificato e orientato verso gli interessi egemonici e geopolitici di Washington. Paradossalmente il cosiddetto ‘stato ebraico’ che dimostra la sua brutalità massacrando migliaia di palestinesi inermi dimostra sempre di più la sua solitudine e la sua debolezza in un mondo dove essere amici di Tel Aviv diventa sempre più difficile e più rischioso.

Ciò non toglie che, nonostante gli attriti crescenti e la progressiva divaricazione degli interessi delle grandi potenze – Usa e Ue in primis – da quelli israeliani, Washington sia ancora costretta a coprire i propri storici alleati, garantendo alla macchina da guerra sionista finanziamenti a pioggia e ingenti rifornimenti di armi.

Proprio poche ore fa il Senato degli Stati Uniti ha approvato, all’unanimità, la concessione al Dipartimento della Difesa di fondi supplementari per un valore di 225 milioni di dollari diretti a finanziare lo scudo antimissile di Tel Aviv, quella ‘Cupola di ferro’ che non manca di generare entusiasmo e ammirazione anche in molti giornalisti nostrani invece poco sensibili al massacro di centinaia di inermi abitanti della Striscia. “Siamo a fianco degli israeliani, che senza la ‘Cupola di ferro’ non potrebbero difendersi” ha spiegato il senatore capofila della destra repubblicana, John McCain. I democratici hanno tentato di mascherare l’aumento dei finanziamenti per la macchina da guerra israeliana inserendolo all’interno di un provvedimento diretto a rafforzare il controllo delle frontiere tra Stati Uniti e Messico e a frenare la crescente immigrazione di cittadini centro e sud americani, ma i repubblicani hanno preteso che la misura fosse esplicita, trasparente. “Israele sta rimanendo senza missili per proteggersi. Stiamo con voi, ecco qua i missili” ha tuonato dopo la votazione del provvedimento, ora al vaglio della Camera, un senatore repubblicano della Carolina del Sud, Lindsey Graham.

Inoltre i media statunitensi hanno informato del fatto che il Pentagono aveva ricevuto, e accettato, una richiesta ufficiale da parte di Israele affinché potesse accedere ad un sistema di emergenza previsto tra i due paesi. Così le forze armate di Tel Aviv hanno potuto rifornirsi si munizioni accedendo alle scorte di armi dei “War Reserves Stock Allies”, ovvero i depositi creati da Washington nei decenni scorsi in previsione di un eventuale rapido intervento militare congiunto in Medio Oriente. Tra le armi di cui ha fatto incetta Tsahal anche lanciagranate e pezzi da mortaio di 120 millimetri e pezzi di artiglieria, come quelli che mercoledì hanno fatto strage in una scuola-rifugio dell’Onu a Gaza massacrando 19 profughi.

“Gli Stati Uniti sono impegnati nella sicurezza di Israele, ed è vitale per gli interessi nazionali degli Usa dare assistenza allo sviluppo e al mantenimento di una forte capacità auto-difensiva di Israele” ha dichiarato senza vergogna il portavoce del Pentagono, John Kirby, in un comunicato stampa. Finora Washington ha speso un miliardo di dollari per rifornire Tel Aviv di razzi, munizioni, armi e sistemi logistici che lo ‘stato ebraico’ sta scaricando sulla piccola enclave assediata dove vivono 1,7 milioni di palestinesi.

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