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20/09/2014

La persistente mentalità colonialista del nostro paese

La vicenda della maxi tangente pagata dall’ENI a membri del governo nigeriano andrebbe seriamente analizzata. Non è tanto lo stupore per la cifra (si parla addirittura di 500 milioni di euro su 1,2 miliardi di investimento), o la meraviglia per fatti del genere, quanto la mancata indignazione, o addirittura la palese difesa da parte dei media e dei politici, verso l’accaduto. Nonostante l’avvio dell’indagine, peraltro partita da Londra e non dall’Italia, l’opinione diffusa nel nostro paese, tanto dalla gente comune quanto dai media mainstream, è caratterizzata da una strisciante giustificazione di tutta la vicenda. Così fan tutti, sembrano dire in coro politici, giornali e opinione pubblica; perché rovinare gli interessi di una così importante azienda italiana? E poi, si sa che quei paesi sono corrotti per definizione, non sarebbe possibile operare diversamente. Questo l’atteggiamento generale, e non stiamo esagerando. Sul Corriere di ieri 15 settembre, ad esempio, due lettere si esprimevano in questi termini: “Ritengo che nel mondo certe pratiche siano purtroppo necessarie per la riuscita di certi affari[...] gli italiani si comportano come tutti gli altri[...] per portare a casa il risultato ed è un idealista chi volesse affermare che in realtà il mondo della concorrenza si basa su principi di lealtà[...] per quanto riguarda l’ambito interno, sono assolutamente d’accordo nel sostenere l’idea secondo cui tra ditte italiane che danno lavoro ad italiani ci debba essere una competizione leale e legale[...] Nell’ambito internazionale, però, visto come funzionano le cose, non si potrebbe chiudere un occhio e lasciare che le nostre aziende, facendo i loro interessi, riportino un successo anche per la nostra comunità nazionale?
Un’altra lettera, stesso tono e stessa conclusione: “Se le aziende non pagano non fanno affari[...] Perché soltanto in Italia ci comportiamo da ipocrite anime belle?” Dello stesso tenore la risposta di Sergio Romano, cioè la risposta del Corriere, che conclude affermando:  “E’ stato dimenticato che esistono ancora nel mondo numerosi Stati patrimoniali, ovvero Stati in cui i ceti che amministrano e governano si considerano proprietari delle risorse nazionali e le trattano come beni personali[...]”.

A notizia ancora calda, l’11 settembre i commenti provenienti da lettori – sempre del Corriere – si esprimevano in termini simili: ”Nel terzo mondo le tangenti sono la normalità e a noi serve il petrolio”, oppure ancora: “La procura di Milano del benessere italiano se ne frega”, e ancora: “Aziende italiane come ENI e Augusta indagate dalla magistratura per tangenti pagate al fine di ottenere commesse all’estero. Ma i nostri magistrati sono tutti degli aspiranti Tafazi?”.

Gli esempi riportati sono, appunto, una goccia nel mare di omertà e (sempre meno) tacita condivisione dei metodi corrotti delle multinazionali, quando queste riguardano il nostro paese. Perché indignarci tanto, o addirittura perseguire tali reati, se questi sono fatti da aziende italiane che operano nel terzo mondo? Va bene la legalità tra aziende italiane(!), ma quando queste fanno affari in Africa o simili, perché impedirgli il loro legittimo business anche sfruttando la corruzione di quei governi? Sembrerebbe una barzelletta, un bignami di mentalità colonialista, e invece è l’Italia del 2014. La legalità sembrerebbe (ed è) un concetto piegabile alle esigenze economiche della fatidica “comunità nazionale”, un comunità che deve far valere il concetto di formale giustizia tra i suoi simili, cioè le altre comunità accreditate come pari livello, ma questa non vale più verso i popoli “inferiori”, vista anzi come intralcio ai legittimi affari delle aziende simbolo di questa stessa comunità. Passati tre (3) giorni dalla vicenda, che ripetiamo vede l’ENI protagonista di uno dei più grandi casi di corruzione della storia, per di più l’ultimo di una serie di episodi che hanno contribuito a depredare la Nigeria delle sue risorse nazionali, nessun giornale ne parla più. La notizia, immediatamente trattata come curiosità giuridica in decima pagina, è rapidamente scomparsa dall’interesse mediatico, dove invece rimangono fisse le inutili sorti dei nominati al CMS o alla Consulta da parte del Parlamento. Nessun giornale degno di nota ha speso il commento di qualcuno dei suoi editorialisti di punta, nessun articolo è andato al di là della mera cronaca, sempre centrata tra l’altro sulle vicende dell’anonima società nigeriana “Malabu” e del governo africano, talmente infamanti che Repubblica, in un impeto cabarettistico, apriva il suo pezzo sulla vicenda dichiarando: “Una gigantesca truffa a danno dell’Eni attuata dai suoi manager di punta e da alcuni intermediari nigeriani e russi[...]”. La maxi-tangente pagata dall’ENI per accaparrarsi lo sfruttamento di un ipotetico pozzo petrolifero veniva descritta come manovra contro l’azienda che aveva orchestrato la truffa. Impressionante. Dal primo momento, la discussione veniva orientata sulla corruzione del governo nigeriano e mai su quella della principale azienda italiana, a sentire i giornali vittima della sua stessa corruzione. Il fatto che “così fan tutti”, poi, non veniva preso a pretesto per una condanna generale di tale sistema, ma come giustificazione delle azioni dell’ENI, che giustamente deve operare in un settore ad alto tasso di corruttibilità, e sempre per colpa dei governi fantoccio africani, mai per proprie responsabilità. Inutile soffermarsi sulle reazioni della politica ufficiale: da Renzi in giù, il coro in difesa di Scaroni e Descalzi, e più in generale sulla necessità per l’ENI di operare come meglio crede nella competizione internazionale volta allo spoglio delle materie prime africane, è stato unanime.

A nessuno dei commentatori accreditati, men che meno all’opinione pubblica che da questi è plasmata, è poi venuto in mente che questo tipo di corruzione è la diretta responsabile della condizioni di vita di quelle popolazioni. Sono infatti meccanismi oliati e giustificati come questo, tra multinazionali del petrolio e fedeli governi corrotti, a determinare la persistenza della povertà di quel continente, la persistente condizione coloniale, di asservimento economico e politico, che caratterizza tutti i paesi africani e più in generale del “terzo mondo”. Salvo poi stupirsi per il rapimento di questo o quell’ingegnere da parte del MEND, incluso nella black list delle organizzazioni terroriste perché combatte con le armi quel modello di corruzione e di esproprio storico delle terre africane da parte delle multinazionali dell’energia e delle materie prime. “Il MEND combatte per il controllo totale del petrolio in tutto il delta del Niger in quanto la popolazione locale non ha mai ottenuto alcun vantaggio dalle notevoli ricchezze del sottosuolo”, ha dichiarato nel 2006 il leader del gruppo armato rivoluzionario. Qualcuno può onestamente dare torto a questo fatto, talmente evidente da risultare persino ovvio? E come è possibile non mettere in diretta relazione le vicende della popolazione nigeriana (e africana in generale), con le operazioni dell’ENI e delle altre multinazionali del petrolio e delle materie prime? In attesa del prossimo spauracchio islamista da agitare per l’opinione pubblica, che oggi in Africa si chiama Boko Haram, non sarebbe il caso di ragionare sulla cause del moltiplicato odio verso l’occidente capitalista, e che queste cause sono esattamente questo giustificazionismo totale verso le politiche imperialiste delle multinazionali dell’energia? Magari al prossimo “male assoluto” africano da debellare con una sana coalizione di volenterosi, al prossimo sgozzamento mandato in onda a reti unificate, invece di fare “fronte comune” con la “civiltà”, riusciremo a contestualizzare questo odio, e a combattere chi lo ha generato.

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