La vicenda della maxi tangente
pagata dall’ENI a membri del governo nigeriano andrebbe seriamente
analizzata. Non è tanto lo stupore per la cifra (si parla addirittura di
500 milioni di euro su 1,2 miliardi di investimento), o la meraviglia
per fatti del genere, quanto la mancata indignazione, o addirittura la
palese difesa da parte dei media e dei politici, verso l’accaduto.
Nonostante l’avvio dell’indagine, peraltro partita da Londra e non
dall’Italia, l’opinione diffusa nel nostro paese, tanto dalla gente
comune quanto dai media mainstream, è caratterizzata da una strisciante
giustificazione di tutta la vicenda. Così fan tutti, sembrano dire in
coro politici, giornali e opinione pubblica; perché rovinare gli
interessi di una così importante azienda italiana? E poi, si sa che quei
paesi sono corrotti per definizione, non sarebbe possibile operare
diversamente. Questo l’atteggiamento generale, e non stiamo esagerando. Sul Corriere di
ieri 15 settembre, ad esempio, due lettere si esprimevano in questi
termini: “Ritengo che nel mondo certe pratiche siano purtroppo
necessarie per la riuscita di certi affari[...] gli italiani si
comportano come tutti gli altri[...] per portare a casa il risultato ed è
un idealista chi volesse affermare che in realtà il mondo della
concorrenza si basa su principi di lealtà[...] per
quanto riguarda l’ambito interno, sono assolutamente d’accordo nel
sostenere l’idea secondo cui tra ditte italiane che danno lavoro ad
italiani ci debba essere una competizione leale e legale[...] Nell’ambito
internazionale, però, visto come funzionano le cose, non si potrebbe
chiudere un occhio e lasciare che le nostre aziende, facendo i loro
interessi, riportino un successo anche per la nostra comunità nazionale?”
Un’altra lettera, stesso tono e stessa conclusione: “Se le aziende non
pagano non fanno affari[...] Perché soltanto in Italia ci comportiamo da
ipocrite anime belle?” Dello stesso tenore la risposta di Sergio Romano,
cioè la risposta del Corriere, che conclude affermando: “E’
stato dimenticato che esistono ancora nel mondo numerosi Stati
patrimoniali, ovvero Stati in cui i ceti che amministrano e governano si
considerano proprietari delle risorse nazionali e le trattano come beni
personali[...]”.
A notizia ancora calda, l’11 settembre i commenti provenienti da lettori – sempre del Corriere – si
esprimevano in termini simili: ”Nel terzo mondo le tangenti sono la
normalità e a noi serve il petrolio”, oppure ancora: “La procura di
Milano del benessere italiano se ne frega”, e ancora: “Aziende italiane
come ENI e Augusta indagate dalla magistratura per tangenti pagate al
fine di ottenere commesse all’estero. Ma i nostri magistrati sono tutti
degli aspiranti Tafazi?”.
Gli esempi riportati sono, appunto, una
goccia nel mare di omertà e (sempre meno) tacita condivisione dei metodi
corrotti delle multinazionali, quando queste riguardano il nostro paese.
Perché indignarci tanto, o addirittura perseguire tali reati, se questi
sono fatti da aziende italiane che operano nel terzo mondo? Va bene la
legalità tra aziende italiane(!), ma quando queste fanno affari in
Africa o simili, perché impedirgli il loro legittimo business anche
sfruttando la corruzione di quei governi? Sembrerebbe una barzelletta,
un bignami di mentalità colonialista, e invece è l’Italia del 2014. La
legalità sembrerebbe (ed è)
un concetto piegabile alle esigenze economiche della fatidica “comunità
nazionale”, un comunità che deve far valere il concetto di formale
giustizia tra i suoi simili, cioè le altre comunità accreditate come
pari livello, ma questa non vale più verso i popoli “inferiori”, vista
anzi come intralcio ai legittimi affari delle aziende simbolo di questa
stessa comunità. Passati tre (3) giorni dalla vicenda, che ripetiamo
vede l’ENI protagonista di uno dei più grandi casi di corruzione della
storia, per di più l’ultimo di una serie di episodi che hanno
contribuito a depredare la Nigeria delle sue risorse nazionali, nessun
giornale ne parla più. La notizia, immediatamente trattata come
curiosità giuridica in decima pagina, è rapidamente scomparsa
dall’interesse mediatico, dove invece rimangono fisse le inutili sorti
dei nominati al CMS o alla Consulta da parte del Parlamento. Nessun
giornale degno di nota ha speso il commento di qualcuno dei suoi
editorialisti di punta, nessun articolo è andato al di là della mera
cronaca, sempre centrata tra l’altro sulle vicende dell’anonima società
nigeriana “Malabu” e del governo africano, talmente infamanti che Repubblica, in un impeto cabarettistico,
apriva il suo pezzo sulla vicenda dichiarando: “Una gigantesca truffa a
danno dell’Eni attuata dai suoi manager di punta e da alcuni
intermediari nigeriani e russi[...]”. La maxi-tangente pagata dall’ENI per accaparrarsi lo sfruttamento di un ipotetico pozzo petrolifero veniva descritta come manovra contro l’azienda
che aveva orchestrato la truffa. Impressionante. Dal primo momento, la
discussione veniva orientata sulla corruzione del governo nigeriano e
mai su quella della principale azienda italiana, a sentire i giornali
vittima della sua stessa corruzione. Il fatto che “così fan tutti”, poi,
non veniva preso a pretesto per una condanna generale di tale sistema,
ma come giustificazione delle azioni dell’ENI, che giustamente deve
operare in un settore ad alto tasso di corruttibilità, e sempre per
colpa dei governi fantoccio africani, mai per proprie responsabilità.
Inutile soffermarsi sulle reazioni della politica ufficiale: da Renzi in
giù, il coro in difesa di Scaroni e Descalzi, e più in generale sulla
necessità per l’ENI di operare come meglio crede nella competizione
internazionale volta allo spoglio delle materie prime africane, è stato
unanime.
A nessuno dei commentatori accreditati,
men che meno all’opinione pubblica che da questi è plasmata, è poi
venuto in mente che questo tipo di corruzione è la diretta responsabile
della condizioni di vita di quelle popolazioni. Sono infatti meccanismi
oliati e giustificati come questo, tra multinazionali del petrolio e
fedeli governi corrotti, a determinare la persistenza della povertà di
quel continente, la persistente condizione coloniale, di asservimento
economico e politico, che caratterizza tutti i paesi africani e più in
generale del “terzo mondo”. Salvo poi stupirsi per il rapimento di
questo o quell’ingegnere da parte del MEND, incluso nella black list
delle organizzazioni terroriste perché combatte con le armi quel modello
di corruzione e di esproprio storico delle terre africane da parte
delle multinazionali dell’energia e delle materie prime. “Il MEND
combatte per il controllo totale del petrolio in tutto il delta del
Niger in quanto la popolazione locale non ha mai ottenuto alcun
vantaggio dalle notevoli ricchezze del sottosuolo”, ha dichiarato
nel 2006 il leader del gruppo armato rivoluzionario. Qualcuno può
onestamente dare torto a questo fatto, talmente evidente da risultare
persino ovvio? E come è possibile non mettere in diretta relazione le
vicende della popolazione nigeriana (e africana in generale), con le
operazioni dell’ENI e delle altre multinazionali del petrolio e delle
materie prime? In attesa del prossimo spauracchio islamista da agitare
per l’opinione pubblica, che oggi in Africa si chiama Boko Haram, non
sarebbe il caso di ragionare sulla cause del moltiplicato odio verso
l’occidente capitalista, e che queste cause sono esattamente questo
giustificazionismo totale verso le politiche imperialiste delle
multinazionali dell’energia? Magari al prossimo “male assoluto” africano
da debellare con una sana coalizione di volenterosi, al prossimo
sgozzamento mandato in onda a reti unificate, invece di fare “fronte
comune” con la “civiltà”, riusciremo a contestualizzare questo odio, e a
combattere chi lo ha generato.
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