di Michele Paris
Alla quasi totale insaputa di centinaia di milioni di cittadini
europei le cui vite potrebbero cambiare in maniera significativa, l’UE e
gli Stati Uniti stanno negoziando da alcuni anni un colossale e
omnicomprensivo trattato di libero scambio o, più precisamente, una
Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti, altrimenti
conosciuta con l’acronimo TTIP.
In seguito alle crescenti
apprensioni manifestate da varie organizzazioni della società civile e a
un’indagine sulla segretezza delle trattative sul TTIP condotta dallo
stesso ufficio del cosiddetto Mediatore dell’UE (“Ombudsman”), la Commissione Europea ha recentemente reso noti alcuni documenti relativi
al trattato, dimostrando il proprio teorico impegno per la trasparenza
in questo ambito.
L’UE, in realtà, ha diffuso otto proposte che
riguardano questioni come i controlli doganali, i beni alimentari,
l’agricoltura e l’etichettatura dei prodotti scambiati, ma ha deciso di
mantenere il segreto su aspetti cruciali, tra cui le modifiche alle
modalità di accesso ai mercati, definiti dal commissario europeo per il
Commercio, la svedese Cecilia Malmström, troppo “sensibili” per essere
rese pubbliche prima della fine delle trattative.
I documenti UE
diventati da poco di dominio pubblico e la segretezza nella quale
rimangono avvolti molti altri, assieme alle proposte americane,
confermano come il TTIP non sia altro che uno strumento per assegnare
ulteriori e più ampi diritti alle grandi aziende transnazionali,
ridimensionando contemporaneamente quelli dei cittadini, a cominciare
dai lavoratori.
Riassumendo il senso di una “partnership” come
quella allo studio tra USA e UE, la sociologa ed economista Saskia
Sassen ha sostenuto che le corporations “intendono limitare il peso del
diritto nazionale e il ruolo dei [singoli] governi”, promuovendo “una
sorta di sistema legale parallelo e privato sotto il loro controllo per
gestire le dispute” in cui potrebbero essere coinvolte.
Un’analisi
della stessa accademica americana ha proposto poi un concetto
interessante per inquadrare i vari trattati di libero scambio emersi un
po’ ovunque nel pianeta a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.
Questi strumenti servirebbero cioè alle grandi compagnie per creare uno
“spazio operativo globale”, all’interno del quale è loro possibile agire
per aumentare i profitti sostanzialmente senza i vincoli rappresentati,
ad esempio, dalle normative sul lavoro o sul rispetto dell’ambiente di
ogni singolo stato.
Questa è la necessità a cui rispondono gli
sforzi dei protagonisti dei negoziati ed essi hanno perciò bisogno di un
apparato retorico da presentare ai loro cittadini per propagandare i
vari trattati o “partnership” come mezzi che prospettano un chimerico
arricchimento generalizzato o un’esplosione di nuovi posti di lavoro.
La
segretezza che avvolge le trattative smentisce però da sola le
intenzioni ufficiali, mentre un lungo elenco di dati sugli effetti dei
trattati negli ultimi decenni mette in guardia dalle inevitabili
conseguenze, fatte puntualmente di perdita di reddito e di occupazione,
soprattutto per i paesi firmatari che vantavano condizioni di vita
relativamente dignitose per i lavoratori.
Il TTIP, così come il
TPP (Partnership Trans-Pacifica), che coinvolge gli Stati Uniti e 12
altri paesi asiatici e del continente americano, contiene però anche
l’estremizzazione del diritto delle corporation a contestare e
denunciare qualsiasi azione dei governi firmatari che possa risultare
un danno per i loro profitti.
In altre parole, ogni decisione di
un paese sovrano che colpisca in qualche modo gli interessi delle
grandi aziende che vi operano può essere oggetto di una contesa, la cui
soluzione è affidata a un organo arbitrale terzo e sovranazionale,
svincolato dalle leggi di quello stesso paese e, oltretutto, non
appellabile.
In
sostanza, i governi che aderiscono a simili trattati sono scoraggiati
dall’adottare regolamentazioni anche modeste che potrebbero costare
care, vista anche la virtuale assenza di un tetto ai risarcimenti per le
corporations “danneggiate”, per non parlare di iniziative più radicali
come nazionalizzazioni o espropri.
Gli esempi di cause di questo
genere sono peraltro già centinaia nel pianeta e una delle più recenti
riguarda il governo tedesco, denunciato dalla compagnia energetica
svedese Vattenfall per 6 miliardi di euro in seguito alla decisione
presa da Berlino di abbandonare il nucleare dopo il disastro di
Fukushima, in Giappone, del 2011.
Il TTIP, inoltre, minaccia di
importare nel continente europeo regole decisamente meno rigorose in
materia di controlli sulle merci e, in particolare, gli alimenti.
Secondo il sito web italiano Stop-TTIP, le etichettature obbligatorie
“dovranno essere limitate il più possibile per evitare che diventino
ostacoli al libero mercato”, mentre la tanto decantata protezione dei
prodotti tipici e del “Made in” potrebbe lasciare spazio a una
“semplificazione e omologazione” con “l’addio ai controlli su tutte le
fasi della filiera”.
I timori in questo settore riguardano anche
la possibile introduzione sul mercato europeo di alimenti geneticamente
modificati (OGM) provenienti dagli Stati Uniti, così come in ambito
energetico non sembra potersi escludere una diffusione massiccia della
pericolosa pratica del “fracking” per le estrazioni di gas e petrolio.
Sul
fronte della proprietà intellettuale, l’eventuale armonizzazione delle
norme europee e americane potrebbe avere infine un impatto rovinoso
sulla libera circolazione delle idee e l’accesso alla conoscenza, con
l’assegnazione di un potere enorme quanto inquietante alle grandi
compagnie che operano in quest’ambito.
Da tenere in
considerazione è anche l’aspetto strategico del TTIP, sia pure
intimamente legato a quello economico e di classe. A ricordarlo è stata
qualche settimana fa lo stesso commissario Malmström, per la quale nei
negoziati in corso “le tradizionali questioni come l’accesso ai mercati e
le tariffe doganali su beni e servizi non sono mai state un problema
per l’Europa e gli USA”, visto che queste ultime sono già molto basse.
Per
l’ex diplomatica svedese, piuttosto, il TTIP avrebbe a che fare col
fatto che le due parti in trattativa sono “le più grandi economie [del
pianeta] che condividono molti valori comuni”, come “democrazia,
rispetto del diritto, dell’individuo e dei mercati aperti”.
Questa
precisazione lascia intendere, com’è evidente, che il trattato USA-UE
rientra all’interno dell’offensiva di Washington contro la Russia, con
il preciso scopo di impedire una maggiore integrazione dei propri
storici alleati nel vecchio continente in un blocco economico
euroasiatico.
Ancorando così l’UE agli Stati Uniti, il governo
americano intende completare la propria strategia di accerchiamento - in
questo caso economico - della Russia, dopo quello militare in fase già
avviata soprattutto in seguito all’esplosione pilotata della crisi in
Ucraina. In questo senso, il TTIP è il corrispondente europeo del TPP in
Estremo Oriente, dove nel mirino di Washington c’è ovviamente la Cina.
La
creazione di queste due gigantesche aree di libero mercato, all’interno
delle quali circolano complessivamente ben più della metà delle merci
scambiate nel pianeta, deve avvenire secondo i termini del capitalismo a
stelle a strisce, vista appunto la necessità di giungere in questo modo
alla dominazione dell’“impero” sui propri rivali, quanto meno a livello
teorico.
Per fare ciò e chiudere il cerchio, è indispensabile
quindi ideare strumenti come le “partnership”, così da abolire quelle
che sempre il commissario Malmström ha definito “barriere non doganali”
al libero dispiegamento del commercio, ovvero le rimanenti
regolamentazioni previste dai paesi aderenti ai trattati, viste come
ostacoli ai profitti delle corporations.
In breve, il TTIP e i
suoi simili non sono altro che coperture per giungere alla dittatura del
capitalismo transnazionale, con quello americano a farla da assoluto
protagonista.
Un progetto di questo genere, come appare evidente,
non può essere perseguito con metodi democratici. Da qui, dunque, la
segretezza quasi maniacale circa il contenuto delle trattative, sulle
quali pesano in maniera determinante le pressioni delle lobby delle
grandi aziende, desiderose di estrarre il massimo dai trattati in
discussione.
Sul TTIP, come sul TPP, pesano però numerose
incognite che ne stanno ritardando in maniera imbarazzante
l’approvazione. Oltre all’inesorabile declino economico americano e alle
proteste popolari che coinvolgono un numero sempre più consistente di
persone, come le decine di migliaia sfilate nel fine settimana a
Berlino, a complicare i negoziati sono anche e soprattutto le rivalità
tra i vari paesi coinvolti e, all’interno di essi, la difficoltà - per
non dire l’impossibilità - di conciliare gli interessi economici
contrastanti delle rispettive sezioni della borghesia nazionale, che
sperano di beneficiare o temono di essere danneggiate dall’ingresso in
un blocco sovranazionale dominato dagli Stati Uniti.
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