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20/01/2015

TTIP: le corporation piegano gli Stati

di Michele Paris

Alla quasi totale insaputa di centinaia di milioni di cittadini europei le cui vite potrebbero cambiare in maniera significativa, l’UE e gli Stati Uniti stanno negoziando da alcuni anni un colossale e omnicomprensivo trattato di libero scambio o, più precisamente, una Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti, altrimenti conosciuta con l’acronimo TTIP.

In seguito alle crescenti apprensioni manifestate da varie organizzazioni della società civile e a un’indagine sulla segretezza delle trattative sul TTIP condotta dallo stesso ufficio del cosiddetto Mediatore dell’UE (“Ombudsman”), la Commissione Europea ha recentemente reso noti alcuni documenti relativi al trattato, dimostrando il proprio teorico impegno per la trasparenza in questo ambito.

L’UE, in realtà, ha diffuso otto proposte che riguardano questioni come i controlli doganali, i beni alimentari, l’agricoltura e l’etichettatura dei prodotti scambiati, ma ha deciso di mantenere il segreto su aspetti cruciali, tra cui le modifiche alle modalità di accesso ai mercati, definiti dal commissario europeo per il Commercio, la svedese Cecilia Malmström, troppo “sensibili” per essere rese pubbliche prima della fine delle trattative.

I documenti UE diventati da poco di dominio pubblico e la segretezza nella quale rimangono avvolti molti altri, assieme alle proposte americane, confermano come il TTIP non sia altro che uno strumento per assegnare ulteriori e più ampi diritti alle grandi aziende transnazionali, ridimensionando contemporaneamente quelli dei cittadini, a cominciare dai lavoratori.

Riassumendo il senso di una “partnership” come quella allo studio tra USA e UE, la sociologa ed economista Saskia Sassen ha sostenuto che le corporations “intendono limitare il peso del diritto nazionale e il ruolo dei [singoli] governi”, promuovendo “una sorta di sistema legale parallelo e privato sotto il loro controllo per gestire le dispute” in cui potrebbero essere coinvolte.

Un’analisi della stessa accademica americana ha proposto poi un concetto interessante per inquadrare i vari trattati di libero scambio emersi un po’ ovunque nel pianeta a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Questi strumenti servirebbero cioè alle grandi compagnie per creare uno “spazio operativo globale”, all’interno del quale è loro possibile agire per aumentare i profitti sostanzialmente senza i vincoli rappresentati, ad esempio, dalle normative sul lavoro o sul rispetto dell’ambiente di ogni singolo stato.

Questa è la necessità a cui rispondono gli sforzi dei protagonisti dei negoziati ed essi hanno perciò bisogno di un apparato retorico da presentare ai loro cittadini per propagandare i vari trattati o “partnership” come mezzi che prospettano un chimerico arricchimento generalizzato o un’esplosione  di nuovi posti di lavoro.

La segretezza che avvolge le trattative smentisce però da sola le intenzioni ufficiali, mentre un lungo elenco di dati sugli effetti dei trattati negli ultimi decenni mette in guardia dalle inevitabili conseguenze, fatte puntualmente di perdita di reddito e di occupazione, soprattutto per i paesi firmatari che vantavano condizioni di vita relativamente dignitose per i lavoratori.

Il TTIP, così come il TPP (Partnership Trans-Pacifica), che coinvolge gli Stati Uniti e 12 altri paesi asiatici e del continente americano, contiene però anche l’estremizzazione del diritto delle corporation a contestare e denunciare qualsiasi azione dei governi firmatari che possa risultare un danno per i loro profitti.

In altre parole, ogni decisione di un paese sovrano che colpisca in qualche modo gli interessi delle grandi aziende che vi operano può essere oggetto di una contesa, la cui soluzione è affidata a un organo arbitrale terzo e sovranazionale, svincolato dalle leggi di quello stesso paese e, oltretutto, non appellabile.

In sostanza, i governi che aderiscono a simili trattati sono scoraggiati dall’adottare regolamentazioni anche modeste che potrebbero costare care, vista anche la virtuale assenza di un tetto ai risarcimenti per le corporations “danneggiate”, per non parlare di iniziative più radicali come nazionalizzazioni o espropri.

Gli esempi di cause di questo genere sono peraltro già centinaia nel pianeta e una delle più recenti riguarda il governo tedesco, denunciato dalla compagnia energetica svedese Vattenfall per 6 miliardi di euro in seguito alla decisione presa da Berlino di abbandonare il nucleare dopo il disastro di Fukushima, in Giappone, del 2011.

Il TTIP, inoltre, minaccia di importare nel continente europeo regole decisamente meno rigorose in materia di controlli sulle merci e, in particolare, gli alimenti. Secondo il sito web italiano Stop-TTIP, le etichettature obbligatorie “dovranno essere limitate il più possibile per evitare che diventino ostacoli al libero mercato”, mentre la tanto decantata protezione dei prodotti tipici e del “Made in” potrebbe lasciare spazio a una “semplificazione e omologazione” con “l’addio ai controlli su tutte le fasi della filiera”.

I timori in questo settore riguardano anche la possibile introduzione sul mercato europeo di alimenti geneticamente modificati (OGM) provenienti dagli Stati Uniti, così come in ambito energetico non sembra potersi escludere una diffusione massiccia della pericolosa pratica del “fracking” per le estrazioni di gas e petrolio.

Sul fronte della proprietà intellettuale, l’eventuale armonizzazione delle norme europee e americane potrebbe avere infine un impatto rovinoso sulla libera circolazione delle idee e l’accesso alla conoscenza, con l’assegnazione di un potere enorme quanto inquietante alle grandi compagnie che operano in quest’ambito.

Da tenere in considerazione è anche l’aspetto strategico del TTIP, sia pure intimamente legato a quello economico e di classe. A ricordarlo è stata qualche settimana fa lo stesso commissario Malmström, per la quale nei negoziati in corso “le tradizionali questioni come l’accesso ai mercati e le tariffe doganali su beni e servizi non sono mai state un problema per l’Europa e gli USA”, visto che queste ultime sono già molto basse.

Per l’ex diplomatica svedese, piuttosto, il TTIP avrebbe a che fare col fatto che le due parti in trattativa sono “le più grandi economie [del pianeta] che condividono molti valori comuni”, come “democrazia, rispetto del diritto, dell’individuo e dei mercati aperti”.

Questa precisazione lascia intendere, com’è evidente, che il trattato USA-UE rientra all’interno dell’offensiva di Washington contro la Russia, con il preciso scopo di impedire una maggiore integrazione dei propri storici alleati nel vecchio continente in un blocco economico euroasiatico.

Ancorando così l’UE agli Stati Uniti, il governo americano intende completare la propria strategia di accerchiamento - in questo caso economico - della Russia, dopo quello militare in fase già avviata soprattutto in seguito all’esplosione pilotata della crisi in Ucraina. In questo senso, il TTIP è il corrispondente europeo del TPP in Estremo Oriente, dove nel mirino di Washington c’è ovviamente la Cina.

La creazione di queste due gigantesche aree di libero mercato, all’interno delle quali circolano complessivamente ben più della metà delle merci scambiate nel pianeta, deve avvenire secondo i termini del capitalismo a stelle a strisce, vista appunto la necessità di giungere in questo modo alla dominazione dell’“impero” sui propri rivali, quanto meno a livello teorico.

Per fare ciò e chiudere il cerchio, è indispensabile quindi ideare strumenti come le “partnership”, così da abolire quelle che sempre il commissario Malmström ha definito “barriere non doganali” al libero dispiegamento del commercio, ovvero le rimanenti regolamentazioni previste dai paesi aderenti ai trattati, viste come ostacoli ai profitti delle corporations.

In breve, il TTIP e i suoi simili non sono altro che coperture per giungere alla dittatura del capitalismo transnazionale, con quello americano a farla da assoluto protagonista.

Un progetto di questo genere, come appare evidente, non può essere perseguito con metodi democratici. Da qui, dunque, la segretezza quasi maniacale circa il contenuto delle trattative, sulle quali pesano in maniera determinante le pressioni delle lobby delle grandi aziende, desiderose di estrarre il massimo dai trattati in discussione.

Sul TTIP, come sul TPP, pesano però numerose incognite che ne stanno ritardando in maniera imbarazzante l’approvazione. Oltre all’inesorabile declino economico americano e alle proteste popolari che coinvolgono un numero sempre più consistente di persone, come le decine di migliaia sfilate nel fine settimana a Berlino, a complicare i negoziati sono anche e soprattutto le rivalità tra i vari paesi coinvolti e, all’interno di essi, la difficoltà - per non dire l’impossibilità - di conciliare gli interessi economici contrastanti delle rispettive sezioni della borghesia nazionale, che sperano di beneficiare o temono di essere danneggiate dall’ingresso in un blocco sovranazionale dominato dagli Stati Uniti.

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