di Michele Paris
Il giorno dopo
la gravissima umiliazione patita dalle forze armate del regime golpista
di Kiev a Debaltsevo, i quattro protagonisti dell’accordo per il cessate
il fuoco raggiunto la settimana scorsa a Minsk - Hollande, Merkel,
Poroshenko, Putin - hanno ribadito il loro impegno per la sospensione
delle ostilità in Ucraina sud-orientale. La momentanea fiducia nella
tregua ribadita dai leader occidentali e da Kiev a fronte del più
recente successo dei “ribelli” filo-russi conferma le condizioni
disperate in cui versa il regime, scosso da una situazione militare
probabilmente irrimediabile e da una crisi economica di proporzioni
drammatiche.
Ufficialmente, da Washington a Parigi e da Berlino a
Kiev, le “violazioni” del cessate il fuoco da parte delle forze armate
delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk sono state duramente
condannate, ma nessuno degli sponsor di Kiev ha ritenuto finora di dover
dichiarare defunto l’accordo di Minsk.
I filo-russi, da parte
loro, subito dopo Minsk avevano fatto sapere di non considerare valide
le condizioni della tregua in relazione alla città di Debaltsevo, punto
nevralgico che connette Donetsk e Lugansk. Per questa località,
l’amministrazione Poroshenko si era rifiutata di riconoscere che i
propri militari erano da tempo sotto l’assedio dei “ribelli”, escludendo
perciò di fatto lo stop immediato degli scontri e prolungandoli così di
qualche giorno con la perdita di un numero imprecisato di soldati
ucraini.
I leader dei separatisti avevano da giorni invitato i
soldati ucraini rimasti a Debaltsevo ad arrendersi e a consegnare le
armi, così come aveva fatto lo stesso presidente russo, ma l’ordine del
ritiro da parte di Poroshenko è arrivato solo nella giornata di
mercoledì.
Con la ritirata delle truppe governative da
Debaltsevo, le due parti hanno lasciato intendere che i termini della
tregua cominceranno a essere implementati. L’Organizzazione per la
Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) ha fatto sapere giovedì che
i suoi osservatori non hanno ancora riscontrato alcun ritiro delle armi
pesanti dalle “linee di contatto” stabilite a Minsk. Tuttavia, ciò
dovrebbe iniziare non appena le ostilità saranno definitivamente cessate
lungo tutta la linea del fronte. Nella giornata di giovedì, fuoco di
artiglieria è stato registrato sia a Debaltsevo sia in altre località
dell’Ucraina sud-orientale.
La perdita di Debaltsevo ha
suggellato una campagna disastrosa fatta di sconfitte nelle ultime
settimane per le forze di Kiev e, pur apparendo inevitabile, rischia di
avere pesanti ripercussioni per il regime, sia dal punto di vista
strategico che politico.
Per molti osservatori indipendenti del
conflitto, il territorio ora in mano ai filo-russi consentirà loro di
affrontare un’eventuale ripresa della guerra da una posizione di forza,
rendendo probabilmente inefficaci anche possibili forniture massicce di
armi a favore di Kiev da parte dei governi occidentali.
Sul
fronte domestico, il presidente Poroshenko appare poi ulteriormente
indebolito, con i rivali interni - a cominciare dal primo ministro
Yatseniuk - che potrebbero accelerare le manovre allo studio da tempo
per costringerlo a farsi da parte.
La
nuova offensiva contro i “ribelli”, tentata a partire dallo scorso
gennaio da parte del governo ucraino, era stata infine un tentativo per
far fronte ai problemi interni con una campagna militare sanguinosa.
Questa strategia si è però ritorta contro Poroshenko e ha finito per
evidenziare tutte le debolezze del suo governo e, a giudicare dai
risultati sul campo, la sostanziale mancanza di consenso nel paese per
un conflitto fratricida alimentato dalle mire strategiche
dell’Occidente.
La disperazione del presidente e dei suoi
sostenitori si è manifestata anche nella richiesta avanzata mercoledì di
una presenza di caschi blu dell’ONU in Ucraina sud-orientale. La
supplica di Poroshenko è dettata da vari fattori, a cominciare dalla
consapevolezza della fragilità delle proprie forze armate, difficilmente
in grado di sostenere una nuova avanzata dei separatisti.
Parallelamente,
almeno secondo le repliche dei leader di Donetsk e Lugansk, il regime
di Kiev intenderebbe in questo modo sottrarsi agli impegni sottoscritti a
Minsk. L’inviato della Repubblica Popolare di Donetsk presso il
cosiddetto “Gruppo di Contatto”, Denis Pushilin, è stato citato giovedì
sull’argomento dall’agenzia di stampa russa Tass, secondo la quale
avrebbe sostenuto che il dispiegamento di “forze di peacekeeping lungo
la frontiera russo-ucraina del Donbass sarebbe una violazione
dell’accordo del 12 Febbraio”.
L’intesa sottoscritta la scorsa
settimana richiede infatti che il governo di Kiev “negozi le questioni
relative alla linea di confine con le forze di auto-difesa”, ovvero i
separatisti filo-russi, “dopo elezioni municipali e riforme
costituzionali” in senso federalista o autonomista.
Sempre
giovedì, la richiesta di Poroshenko è stata bocciata anche da Mosca. Il
portavoce del ministero degli Esteri, Alexander Lukashevich, ha
ricordato che la base per una risoluzione del conflitto è rappresentata
esclusivamente dagli accordi di Minsk. L’ambasciatore russo alle Nazioni
Unite, Vitaly Churkin, ha aggiunto che nell’intesa del 12 febbraio non
sono previsti ruoli di garanzia per l’ONU o l’UE - bensì solo per l’OSCE
- e che, di conseguenza, Kiev dovrebbe “lavorare per implementare
quanto ha sottoscritto” piuttosto che proporre nuove soluzioni.
Il
sempre più evidente fallimento del disegno occidentale in Ucraina per
sottrarre interamente questo paese all’influenza di Mosca non comporta
comunque in nessun modo il venir meno del rischio di una ripresa del
conflitto tra le forze di Kiev e i separatisti o, nella peggiore delle
ipotesi, di una guerra catastrofica tra potenze nucleari.
L’irresponsabilità
dei governi occidentali, con Washington in prima fila, nel
perseguimento dei propri obiettivi strategici non va infatti
sottovalutata. Allo stesso modo, il regime di Kiev ha già utilizzato
precedenti sospensioni del conflitto per riorganizzare le proprie truppe
e rilanciare le operazioni militari contro i separatisti.
L’amministrazione
Obama, inoltre, non sembra intenzionata a recedere dalle minacce e
dalle pressioni sulla Russia. Questa settimana, ad esempio, la portavoce
del Dipartimento di Stato USA, Jen Psaki, ha confermato che l’ipotesi
di fornire armi al regime ucraino rimane “sul tavolo”, nonostante il
cessate il fuoco e nonostante il Cremlino abbia fatto sapere che questa
mossa verrebbe considerata come una minaccia diretta alla sicurezza
nazionale russa.
L’atteggiamento dell’Unione Europea appare
invece più sfumato visti gli interessi in gioco in relazione ai rapporti
con Mosca, ben maggiori da questa parte dell’oceano rispetto a
Washington. Tra i paesi membri ci sono anche profonde differenze,
risultate nuovamente molto chiare qualche giorno fa con la visita di
Putin a Budapest, conclusasi con una critica non troppo velata da parte
del premier ungherese, Viktor Orbán, alla posizione di Bruxelles sulla
questione ucraina.
In ogni caso, almeno ufficialmente l’UE
continua a mostrare il proprio sostanziale allineamento agli Stati
Uniti, sia pure escludendo l’ipotesi di inviare armi a Kiev. La numero
uno della politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha ribadito
mercoledì che i 28 governi membri “rimangono pronti a intraprendere le
misure appropriate nel caso dovessero continuare gli scontri o
[verificarsi] altri sviluppi negativi in violazione degli accordi di
Minsk”.
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