di Chiara Cruciati
Ci saranno
solo gli emiri di Qatar e Kuwait giovedì a Camp David. Gli altri
quattro leader dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo
non si presenteranno. A guidare la plateale umiliazione della Casa
Bianca è l’alleato di ferro, l’Arabia Saudita. Il presidente
Obama aveva invitato le petromonarchie a casa propria nell’intenzione di
fargli digerire l’accordo sul nucleare iraniano, spina nel fianco
dell’asse sunnita che da anni punta – partecipando direttamente e
indirettamente alle crisi in Siria, Iraq, Yemen – ad indebolire
l’influenza di Teheran sulla regione.
A dire di no ad Obama è stato re Salman, monarca di Riyadh, a cui le rassicurazioni di Washington non bastano:
nonostante il sostegno Usa alle politiche saudite, a partire
dall’operazione “Tempesta Decisiva” che sta devastando lo Yemen, non
vuole perdere l’occasione di ricordare alla Casa Bianca di quanto potere
goda la famiglia Saud negli equilibri mediorientali. Una mossa che
ricorda il gran rifiuto di Riyadh alla poltrona in Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite: nell’ottobre 2013, l’Arabia Saudita
rigettò la nomina, decisione senza precedenti dettata dalla rinuncia Usa
ad attaccare la Siria del presidente Assad.
A Camp David, in rappresentanza del paese,
andrà il principe ereditario Mohammed bin Nayef. Ai sauditi e agli altri
membri del Consiglio di Cooperazione Obama offrirà nuovamente aiuto per
la creazione di un sistema di difesa regionale contro eventuali missili
iraniani. Una colpo al cerchio e una alla botte: seppur un
Congresso apertamente ostile all’accordo con Teheran, il presidente Usa
non intende gettare via un’occasione storica, la firma iraniana al
negoziato sul nucleare. Il Golfo trema: la cancellazione delle sanzioni
economiche contro gli Ayatollah modificherebbe gli equilibri regionali, a
livello economico e quindi politico.
E se Washington tenta di mettere una pezza («Abbiamo
lavorato a stretto contatto con i sauditi nella modifica degli incontri –
ha detto un funzionario dell’amministrazione Usa – Non vediamo l’ora di
accogliere il principe Mohammed bin Sayef»), Riyadh imputa l’assenza di re Salman ad un’agenda troppo piena:
il monarca non ci sarà «a causa del periodo in cui si terrà il summit,
del cessate il fuoco previsto in Yemen e dell’apertura del Centro per
gli Aiuti Umanitari ‘Re Salman’».
Come se un centro avesse maggiore importanza di un
incontro a Camp David: la giustificazione ha il sapore di un’ulteriore
beffa per gli Stati Uniti impegnati a rassicurare gli alleati contro la
minaccia iraniana. Che tanto minaccia poi non è: in Yemen,
nonostante l’aggressione saudita sia palesemente rivolta a indebolire
Teheran, l’Iran continua a non intervenire (almeno direttamente). A
pagare le spese della crociata anti-sciita è la popolazione civile,
ridotta allo stremo: 1.400 morti, 300mila sfollati. «L’impatto
sulle infrastrutture civili è devastante. Molti yemeniti sono privati
dell’accesso ai servizi di base, trattamenti sanitari, cibo, acqua», ha
detto il coordinatore Onu per lo Yemen, Johannes Van Der Klauuw,
accusando Riyadh di «raid indiscriminati» contro i civili.
Le Ong puntano il dito contro il blocco
imposto dall’Arabia Saudita che – nascondendosi dietro la risoluzione
Onu che introduce l’embargo militare contro gli Houthi – impedisce dal
26 marzo l’arrivo di navi e aerei nel paese. E quindi di cibo, medicine,
acqua potabile, carburante. Una catastrofe per un paese
poverissimo che importa il 90% del grano e il 100% del riso consumati.
Prossimo all’esaurimento è anche il carburante: la scarsa benzina
rimasta ha raggiunto prezzi inaccessibili. L’assenza di carburante –
denunciano Onu e Medici Senza Frontiere – non permette la consegna dei
pochi aiuti a disposizione e il funzionamento degli ospedali e del
sistema di depurazione dell’acqua.
Qualche speranza si apre oggi con l’inizio di
5 giorni di tregua umanitaria, siglata domenica con il sì del movimento
Houthi alla proposta mossa dall’Arabia Saudita venerdì scorso. Una
tregua che traballa (dopo l’abbattimento rivendicato dai
ribelli di un F16 del Marocco, che sta prendendo parte ai raid) e che si
apre con Riyadh che sposta l’artiglieria pesante e batterie di
lanciamissili al confine con lo Yemen.
«Sulla base degli sforzi di nazioni amiche nel
raggiungimento di un cessate il fuoco, durante cui l’embargo sarà
sospeso e le navi autorizzate ad attraccare nei porti yemeniti – aveva
detto domenica Sharaf Luqman, portavoce dei soldati dell’esercito
unitisi ai ribelli Houthi – accettiamo il cessate il fuoco a partire da
martedì».
Gli Houthi precisano però che riprenderanno in mano le armi nel caso qualcuno – «Al Qaeda e i suoi sostenitori», chiaro riferimento a Riyadh, accusata dagli sciiti di finanziare i jihadisti – violino il cessate il fuoco.
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