"In qualunque direzione si muova l'Ucraina, in ogni caso, un giorno ci incontreremo. Perché siamo un unico popolo; abbiamo un'unica scaturigine denpro-kieviana. Abbiamo comuni radici storiche e destini comuni; abbiamo una religione comune, una fede comune, una cultura, una lingua, tradizioni e mentalità molto simili". (Vladimir Putin, 4 novembre 2013)
"Divieto di utilizzare il nome storico del territorio dell'Ucraina e le parole da esso derivate come nome o sinonimo della Federazione Russa" dato che "la denominazione di “Russia” e/o “Rus” è il nome storico del territorio occupato dall'odierna Ucraina, mentre il suo uso come sinonimo di Federazione Russa costituisce un promemoria aggressivo ai cittadini dell'Ucraina sulla "provvisorietà" dello Stato ucraino e rappresenta perciò un attentato alla sovranità dell'Ucraina". (Proposta di legge presentata alla Rada suprema, 7 luglio 2015)
Su queste due date pesano una Nato che si è spinta fino ai confini russi e ha scatenato la nuova guerra fredda; ci sono gli oltre cento morti di piazza Indipendenza (majdan Nezaležnosti), uccisi dai cecchini che spararono sia sui manifestanti, sia sugli agenti di polizia disarmati. C'è stato un colpo di stato, sulla scia di quegli stessi morti, che ha portato al potere una junta addestrata e incaricata di attuare quelle “riforme democratiche” indispensabili a traghettare (per ora solo nella vaghezza onirica di quegli ucraini che a majdan pensavano davvero di manifestare contro la corruzione oligarchica e per l'accesso al “benessere” occidentale) l'Ucraina verso l'Europa, la Nato e il “sogno americano”. C'è stato un referendum con cui il 97% dei crimeani ha sancito la propria volontà di riunirsi alla Russia, da cui il volontarista Nikita Khruščëv l'aveva staccata nel 1954 per donarla all'Ucraina, in un'epoca in cui nemmeno il più ottimista dei chiromanti d'oltreoceano avrebbe profetizzato lo scioglimento a tavolino dell'Unione Sovietica. Ci sono state le sanzioni occidentali contro la Russia e le contromisure economiche di Mosca. C'è stato il 2 maggio 2014 a Odessa, quando più di cinquanta persone morirono bruciate vive per le molotov scagliate dalle bande di neonazisti e ultradestri contro le finestre della Casa dei sindacati, all'interno della quale si erano rifugiate per sfuggire al pogrom scatenato in strada contro gli oppositori al regime golpista. Ci sono stati e continuano a esserci le migliaia di morti (la cifra ufficiale dell'ONU è per ora ferma a poco meno di 7.000; ma nessuna smentita è mai venuta ai numeri, quasi dieci volte più grandi, diffusi a inizio anno dai servizi segreti tedeschi), in stragrande maggioranza civili, per la guerra scatenata da Kiev contro il Donbass, reo di chiedere autonomia, federalizzazione, rispetto della propria identità nazionale.
E in occasione della recente proposta di riforma costituzionale, passata alla Rada senza alcuna consultazione coi diretti interessati delle Repubbliche popolari, Kiev ha una volta di più dimostrato il proprio ruolo di marionetta agli ordini dei supervisori stranieri, presenti in aula al momento del voto: l'assistente del Segretario di stato USA per l'Europa e l'Eurasia, Victoria Nuland e l'ambasciatore americano a Kiev Geoffrey Pyatt. A questo proposito, il politologo Aleksandr Pavič rilevava su RT che la Nuland "è venuta a Kiev e ha indicato apertamente cosa fare. Ciò è semplicemente umiliante per il popolo ucraino. Gli ucraini dovrebbero porsi la domanda: davvero Majdan è stata fatta per ottenere ciò, affinché nel parlamento comparisse un curatore straniero che si accerta che si voti correttamente?".
In generale, questo sembra essere l'atteggiamento russo nei confronti di quella nazione con cui si hanno "radici storiche e destini comuni, una religione comune, una fede comune". Da una lato si risponde per le rime alle declamazioni di Kiev sui pericoli di “aggressione” da est; si denunciano le scorribande terroristiche dei battaglioni neonazisti contro la popolazione civile del Donbass; si dileggiano quelle che, purtroppo, non sono solo declamazioni, sulla costruzione del “vallo europeo” che, secondo il premier Jatsenjuk, deve difendere dalla "aggressione russa non solo l'Ucraina", ma anche "le frontiere europee" perché "la Russia rappresenta una minaccia anche per il Canada"; si scrive del degradante spettacolo per cui Washington indica per nome e cognome quali ministri, ucraini o all'uopo naturalizzati tali, debbano rimanere al proprio posto e quali debbano soccombere nella lotta per spartirsi quella miserrima quota di consenso che ancora riesce a ritagliarsi Porošenko, di fronte a una Timošenko che gli sta col fiato sul collo e uno Jatsenjuk ormai prossimo alla debacle. Poi però non si perde occasione di venire incontro alle richieste – economiche, finanziarie, energetiche – di accomodamento e di sussidio che vadano a supplire nelle casse di Kiev a quei miliardi di dollari e di euro spesso solo annunciati. Si dichiara apertamente, nonostante i debiti esteri e il crollo delle riserve interne, di non volere assolutamente il default del paese e di rinunciare perciò a richiedere il pagamento delle obbligazioni.
E le valutazioni in merito a tale atteggiamento duplice della Russia non sono del tutto solidali con Mosca. Un lancio odierno dell'agenzia Novorossija titola “Parte della classe dirigente russa è legata strettamente a Porošenko”: alcuni pubblicisti russi incolpano Mosca di voler conservare buoni rapporti con un regime, protetto dall'Occidente, che sta conducendo la guerra contro il Donbass. In che modo e per quali scopi la Russia starebbe conducendo tale politica verso la junta di Kiev? Principalmente con gli sconti sul gas e le forniture energetiche a prezzi di favore. Gazprom, scrive Novorossija, giustifica la propria politica prima di tutto con il fatto che il gas russo transita per l'Ucraina e, per ora, non ci sono gasdotti alternativi. Inoltre, ci sarebbero le preoccupazioni per il “popolo fratello ucraino”, che non può essere abbandonato solo per colpa delle azioni della sua leadership. Ma gli sconti russi non vanno a vantaggio del popolo ucraino, continua Novorossija, dato che Kiev non abbassa le tariffe energetiche e non conduce una politica particolarmente sociale e, dunque, anche questo è un appoggio indiretto ai monopoli e al governo ucraini. Anche l'atteggiamento “dolce” verso i debiti di Kiev non sarebbe proprio giustificabile, visti l'odio e l'ostilità ucraini nei confronti della Russia. Tuttavia, da Mosca sono già giunti segnali secondo cui potrebbe essere dilazionata la scadenza del prossimo 31 dicembre per il pagamento degli eurobond da parte ucraina. Parlando della politica delle banche russe a sostegno del sistema finanziario ucraino, l'economista Vladislav Žukovskij osserva che questa è ovviamente rivolta non a difendere gli interessi "della maggioranza lavoratrice o delle piccole e medie imprese, bensì quelli del grande capitale industriale e dei grossi speculatori finanziari internazionali. A sostenere il regime di Kiev non sono solo le nostre banche statali; sembra che la maggior parte della nostra élite dirigente sia strettamente legata a Porošenko". Anche per questo, dice Žukovskij, non è stato riconosciuto il referendum nel Donbass e non ha trovato sostegno l'idea del “mondo russo” che avrebbe minacciato l'aristocrazia speculativa russa nei suoi legami con l'Occidente.
Il politologo Boris Kagarlinskij stigmatizza la posizione delle banche russe sulla Crimea. Gherman Gref, Presidente del Consiglio direttivo di Sberbank (la più grande banca di Russia, di proprietà per oltre il 60% della Banca centrale russa) ha dichiarato che "la Crimea, dal punto di vista del settore finanziario internazionale, è territorio ucraino e noi ci atteniamo a tale posizione. Per dirla in modo diretto, per Sberbank, la Crimea non è Russia". Anche se viene messa in dubbio l'autenticità delle parole pronunciate da Gref, secondo Kagarlinskij la politica di Sberbank nei confronti del blocco della Crimea non è cambiata e, però, lo Stato, in quanto principale azionista si Sberbank, non ha preteso da questa una scelta: o a favore della Russia o a favore dell'Ucraina.
Nel settore industriale e commerciale, anche del comparto militare, carri armati ucraini prodotti nelle imprese di Kharkov erano e sono tuttora attrezzati con motori diesel dell'industria JaZDA, del gruppo GAZ dell'oligarca russo Oleg Deripaska (secondo Forbes, il 9° uomo più ricco del mondo). E pare che nei mesi scorsi tali forniture siano addirittura aumentate. Il tutto, secondo Kagarlinskij, sullo sfondo del desiderio di Mosca di mantenere buoni rapporti con l'Occidente.
Il docente di economia Ruslan Dzarasov dice che la “morbidezza” della politica russa nei confronti dell'Ucraina e la posizione, per certi versi ambigua, nell'appoggio al Donbass, abbiano la stessa origine: Mosca spera nel processo di pace di Minsk, che potrebbe trovare l'appoggio europeo, se non ci fosse la pressione USA, nella cui strategia geopolitica non rientra una soluzione pacifica. "Noi ci attacchiamo testardamente al piano di pace, che è però inaccettabile per gli americani e che essi tengono davanti a noi come la carota, affinché il nostro aiuto al Dobass sia inefficace e non sia all'altezza dell'aiuto enorme prestato a Kiev dall'Occidente. Ecco che si spiega il nostro aiuto economico al regime antirusso di Kiev: il desiderio di lasciare le porte aperte, non bruciare i ponti e far sì che l'Occidente giunga a un compromesso accettabile per noi".
D'altro canto, l'economista Vasilij Koltašov, nota che la politica russa di fiacchezza economica nei confronti dell'Ucraina si basa sull'assunto che i presidenti vanno e vengono, ma il paese rimane e con il paese ci si dovrà accordare e collaborare. Secondo Koltašov, non è poi il caso di sopravvalutare il significato del sostegno russo all'economia ucraina, che in fondo non aiuta più di tanto un'economia in condizioni pietose.
In generale, il Centro Levada rileva comunque una costanza di attenzione elevata da parte del comune cittadino russo per la situazione ucraina; ma, se nel 2014, il 64% degli intervistati la giudicava il risultato della ingerenza occidentale, oggi la percentuale è scesa al 45%. Un anno fa, il 20% dei russi addebitava il conflitto nel Donbass alla politica nazionalistica della leadership di Kiev; oggi è il 25%. Se un anno fa 3 russi contro 1 erano preoccupati per un possibile conflitto tra Russia e Ucraina, oggi il rapporto è di 1 a 1.
E' così che scrittori, pubblicisti e politici russi non mancano di ripetere che "noi vogliamo vedere un'Ucraina forte e unita; la Russia non avrà alcun vantaggio dal disfacimento dell'Ucraina. Se l'attuale regime di Kiev" scriveva l'osservatore di Vzgljad, Anton Krylov "porterà il paese allo sgretolamento in tanti principati divisi, in guerra anche solo per il controllo sulle fonti di denaro, per la Russia ciò significherà non una “vittoria geopolitica”, ma milioni di rifugiati e miliardi di rubli di aiuti umanitari".
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