Con l'uscita dell'ultimo film si è conclusa la saga di Hunger Games, una delle distopie cinematografiche di maggiore successo degli ultimi anni.
Complessivamente si può dire che i film che la compongono mettano in campo elementi interessanti che rispecchiano le contraddizioni del mondo in cui viviamo. Tra tutti, la divisione classista della società e il (dis)valore della competizione, portato alle sue estreme e letali conseguenze, tra i giovani delle classi subalterne, intrappolati in questo incubo a metà strada tra i circenses dell'antica Roma e il talent show. Anche l'uso falsificante dei media e della televisione, lo strumento propagandistico per eccellenza delle distopie futuristiche (e non solo), è un elemento d'interesse di questa saga.
Non mancano certamente incoerenze e punti deboli nelle sceneggiature, soprattutto nel film che prendiamo in esame. Concentrandoci sull'ultimo e atteso capitolo, la seconda parte del Canto della rivolta, uscito nelle sale qualche settimana fa, si può dire che la denuncia delle storture del nostro mondo sia in qualche modo annacquata e resa meno incisiva.
La rivolta che si scatena nei “distretti” per rovesciare il regime autoritario del presidente Snow perde ogni carattere “di classe”: i ribelli non sembrano interessati a mettere in discussione la struttura socio-economica di Panem, la città in cui ha luogo la vicenda, ma semplicemente a instaurare una forma di democrazia con libere elezioni. Le masse in rivolta, inoltre, politicamente non esistono, e non esiste dialettica tra loro e l'organizzazione politico-militare che guida la rivoluzione; anzi, come poi si viene a sapere, il processo rivoluzionario è del tutto sovradeterminato dal vertice dell'organizzazione e dai suoi giochi di potere.
Se a questo aggiungiamo il ruolo della propaganda e delle stragi falsamente attribuite al dittatore, il tutto suona come una sorta di lapsus per il ruolo storico che hanno avuto (e continuano ad avere) le amministrazioni USA nel destabilizzare e instaurare regimi fantoccio in diverse parti del mondo...
L'infida neopresidente, Alma Coin, intenzionata a restaurare il crudele regime degli hunger games una volta preso il potere, rappresenterebbe la solita cinica litania delle “rivoluzioni che falliscono sempre”, se non fosse per l'azione vendicatrice della protagonista, Katniss, la guida morale e mitica della rivolta. Ma appunto, la rivoluzione ha buon fine, viene eletta una nuova presidente, altro non si sa: il film si conclude con il ritiro a vita privata dei protagonisti.
Tutto sommato è perfettamente comprensibile che un prodotto hollywoodiano non contenga un messaggio “rivoluzionario” che non sia spurio e pieno di incoerenze, e in fondo è anche perdonabile. Un film è un film e lo si può apprezzare per altre cose. Ma considerando l'inconsistenza della sceneggiatura e le due ore e più di noia per una pellicola alquanto prevedibile, si può dire che questo non valga il (sempre più costoso!) prezzo del biglietto.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento