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28/11/2015

I limiti dell’intelligence francese

Fermo restante che i principali piani di contrasto al terrorismo sono quello politico e quello psicologico, ci sembra criticabile anche quello che servizi e polizie occidentali stanno facendo (o non facendo) sul piano della prevenzione tecnica degli attentati. E parliamo in particolare dei francesi.

Paradossalmente proprio l’operazione di Saint Denise fa storcere il naso sul modo in cui si lavora in questo settore: se in quattro giorni trovi il covo dove erano asserragliati i terroristi ed anche di quelli di livello medio alto come Abaaoud, e poi trovi anche un secondo covo pochi giorni dopo, vuol dire che hai le antenne in grado di captare certi segnali e, certamente, non te le sei fatte in 96 ore: le avevi da prima, ma non le hai sapute usare e c’è voluta la scossa della strage per svegliarti. Male, malissimo, perché vuol dire che se ti fossi mosso prima forse gli attentati si sventavano.

Continuo a non credere ad una sorta di auto attentato o ad una voluta tolleranza in vista di chissà quale programma di strategia della tensione, ma che si stia lavorando coi piedi mi pare difficile da contestare. Nell’immediatezza del fatto si è sostenuta una tesi minimalista: un gruppo o forse due, otto-dieci persone al massimo, poi si è iniziato a parlare di due-tre gruppi per una ventina di operativi, ora finalmente sento ammissioni che si è trattato di una trentina di terroristi (che era il numero che, modestamente, avevamo indicato all’inizio).

Vedrete che, prima o poi, si inizierà anche a riconoscere che gli attentatori hanno avuto una rete d’appoggio di almeno altrettanti complici. Non si tratta di questioni di “lana caprina”, ma di aspetti tecnicamente e politicamente rilevanti.

In primo luogo, se c’è una rete di una sessantina di persone almeno (ma probabilmente molte di più), vuol dire che siamo ad un salto di qualità dell’organizzazione terrorista: dai nuclei di lupi solitari che agivano in regime di franchising  per conto di Al Quaeda, ora siamo alle reti terroristiche organizzate, che si muovono come terminali di una catena di comando ininterrotta che fa capo all’Isis. Mi pare che l’indice di pericolosità subisca un’impennata e che, parallelamente, questo segnali una caduta di efficienza senza precedenti dei servizi che si fanno passare sotto il naso una organizzazione di questo peso.

Poi, il tema dell’eventuale rete di appoggio, con covi, uomini di supporto, armi, ecc. porta ad un’altra ferita aperta: che succede nella banlieu. A questo proposito ci sono due idee che circolano che ritengo speculari ed entrambe sbagliate: per la prima, gli jihadisti sono isolati, non raccolgono che sporadiche simpatie nel mondo islamico in Europa che, invece, è tutto contro di loro o, al massimo, indifferente; per la seconda essi godono di una rete amplissima di solidarietà e di un consenso massiccio nella nostra metecia islamica. Credo che siano entrambe semplificazioni di una realtà molto più complessa ed articolata e non solo perché ci sono quelli che restano indifferenti o quelli che scelgono un atteggiamento solo per paura personale dei terroristi o dell’antiterrorismo. Non si tiene conto, in queste visioni semplicistiche, che la guerra civile islamica si ripercuote anche qui ed i più sono ostili alla jhad anche per ragioni religiose, culturali, politiche, anche se questo poi non significa necessariamente che amino l’occidente. E’ ragionevole supporre che l’area di simpatia per l’isis sia decisamente minoritaria all’interno degli immigrati islamici, ma non per questo irrilevante, anzi è probabile che abbia una sua non trascurabile consistenza. E qui i francesi possono solo cospargersi il capo di cenere e riconoscere di aver fatto di tutto per allevarsi questo nemico in seno: a dieci anni dalla rivolta delle banlieu non c’è stato il minimo segnale di politica sociale rivolta in quella direzione e le case restano fatiscenti con impianti elettrici pericolosissimi, le condizioni igieniche disperate, i servizi quelli di prima ecc. Ed allora ci dovremmo meravigliare non del fatto che c’è un 10 o forse 15% di simpatizzanti dell’Isis, ma che il restante non si rivolti con violenza a questo stato di cose.

Ma queste sono le responsabilità dei governi che non sembrano minimamente preoccupati della bomba ad orologeria che si sono messi sotto la sedia. Poi ci sono le responsabilità specifiche di servizi e polizia che si fanno fare un botto del genere a 10 mesi dalla strage di Charlie Hebdo. Ora c’è un dibattito molto acceso in Francia sugli effetti delle più recenti riforme dell’intelligence che avrebbero avuto l’effetto di frantumare il sistema privandolo di un “cervello” centrale in grado di elaborare le informazioni raccolte da questa o quella struttura. Ma a mio avviso si tratta del riflesso di pecche molto più antiche.

I servizi francesi hanno un’ottima tradizione teorica, una buona capacità di raccolta informativa, e notevoli successi da vantare in settori come lo spionaggio ed il contro spionaggio militare, la guerra economica, la lotta alla criminalità organizzata, la penetrazione di mercati dove la Francia non è tradizionalmente presente eccetera, ma sul terrorismo mostrano di non aver superato i limiti che ebbero già al tempo dell’Algeria: c’è proprio un gap culturale, una serie di pregiudizi che impediscono di comprendere il fenomeno del terrorismo. E questo è tanto più significativo se ci si riferisce, lo ripeto, ad uno dei migliori servizi segreti occidentali.

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