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19/11/2015

Paris (après Beirut)

di Raffaele Sciortino

A qualche giorno dai fatti parigini – tra il dolore e lo sconforto dei più, l’ipocrisia ben celata dei pochi si può tentare, cautamente, un esercizio di verità? Forse. Ma, va detto, solo se si evitano semplificazioni e comunque non senza derogare al politically correct. Si tratta al momento solo di un esercizio di analisi, privo di ricadute pratiche, oltretutto per una piccolissima minoranza. Ma neanche va sottovalutata la possibilità che, tra i discorsi deliranti che gioco forza montano in un mondo sofferente e a sua volta delirante, faccia capolino una sensibilità diversa e trasversale in grado (ancora) di porsi qualche domanda di fondo sul luogo storico che ci capita di abitare.

Dunque quanto è successo a Parigi è un atto di guerra? Già ma allora verrebbe da chiedersi e approfondire: guerra tra chi e per che cosa? Però, nel proliferare di differenze della tanto decantata società dell’informazione pullulante di social network, reti all news, notiziari, giornali e quant’altro, difficilmente si troverà una risposta che si discosti da un (sospetto) unanimismo: guerra della barbarie e della follia contro la civiltà (la nostra, dove il crinale tra umori di destra e di sinistra sta solo nel se, quanto e come la si possa estendere agli altri). E mentre le sparute voci che sollevano qualche dubbio sono condannate all’irrilevanza dall’inflazione di flussi accelerati spacciati per conoscenza, si fa strada tra i più l’idea (autoconsolatoria ma non per questo meno effettiva) che finalmente anche chi ha sbagliato – finanziando e armando l’Isis – adesso avrà capito e tutti insieme, russi compresi, potremo sconfiggere militarmente il mostro.

E invece le cose non sono affatto così semplici, lineari. Se di guerra si tratta, ed è così, è una guerra complessa, a più strati, dalle logiche perverse, dove tra ras distribuiti sui territori e mandanti, globali e regionali, occidentali e non – che del Medio Oriente, non da ora, hanno fatto una riserva di caccia – chi è sull’avanscena spesso non gioca il ruolo principale. Può suonare brutale ma le stragi di Parigi sono di questa situazione un effetto collaterale (scandaloso l’uso di questo termine, si può usare solo per le masse di cadaveri senza nome e volto fuori del mondo occidentale?). Vos guerres, nos morts.

Proviamo a dipanare un po’ il groviglio individuando le distinte ma sovrapposte dimensioni degli attacchi parigini, fatti e antefatti, e vediamo se per caso non ci sia una logica nella follia.

Uno. L’Isis è in seria difficoltà in Siria a causa dell’intervento russo (rimandiamo per un’analisi più completa all’articolo qui: Della guerra in Siria: caos diffuso, nuovi equilibri o cosa?). Se la presenza jihadista in Siria e Iraq è stata resa possibile dal supporto di padrini vari in funzione della strategia del regime change in Siria – di cui Parigi è con Usa, Arabia Saudita e Turchia uno dei protagonisti fin dall’inizio (2011), non dimentichiamolo – Mosca ha fatto da game changer, ha cioè cambiato sia i rapporti di forza sul terreno sia la percezione della stessa opinione pubblica occidentale, e gli effetti si sono visti subito. Ciò ha reso quel supporto assai più difficile, contorto e ambiguo, così come rischia di rimescolare gli stessi rapporti tra Washington e “alleati” locali, già scossi dall’accordo sul nucleare iraniano. Non ci vuole molto per capire che i giochi, i giochi grossi stanno cambiando: per i padrini occidentali non è certo una questione di coscienza impartire qualche colpo ai jihadisti, da loro già addestrati e armati, o financo mollarli, per quelli arabi congelarli loro malgrado fino a nuovo ordine.

Due. Era dunque prevedibile da parte dell’Isis l’intensificarsi della tattica terroristica. Il che però non ci dice solo di un’organizzazione in difficoltà sotto l’aspetto militare che tenta di rompere l’accerchiamento e ricompattare i suoi nella nuova fase che va ad aprirsi. In effetti, mentre l’abbattimento dell’aereo civile russo sul Sinai (con l’appoggio logistico di chi?) e l’attentato alla Beirut sciita rientrano nella logica tutto sommato lineare della guerra asimmetrica contro il nemico direttamente presente sul terreno, gli attentati parigini – come probabilmente quelli realizzati in Turchia (cfr. IlSole24Ore: Le ambiguità di Erdogan) – potrebbero rispondere anche a un’altra logica, distinta ma complementare alla prima. Ovvero quella del ricatto terroristico: ai (quasi ex) padrini da parte dei vertici Isis; agli alleati da parte dell’Arabia Saudita, in grave difficoltà per la mossa russa, l’impantanamento dovuto all’aggressione allo Yemen, la fragilità interna accresciuta dagli introiti calanti (autoinflitti) della vendita del petrolio, l’ascesa dell’asse sciita in Medio Oriente. Se così è, saremmo di fronte a un episodio estremo di “ricontrattazione dura” ma quasi sicuramente fuori tempo massimo nel nuovo quadro regionale che va configurandosi. Infatti, se è vero che la Francia è stata fortemente tentata negli ultimi tempi di scavarsi un proprio ruolo accostandosi alla dinamica saudita, non è però assolutamente in grado di prendere la guida dell’assalto al governo di Assad in Siria.

Il che non toglie che in futuro i giochi di supporto anche occidentale all’islamismo jihadista ricominceranno, con sigle opportunamente riverniciate. È un film già visto. Del resto, non risulta ancora utile oggi in Libia, dove in funzione anti-Gheddafi i jihadisti sono stati armati e addestrati proprio da militari francesi e inglesi oltreché sauditi e qatarioti, con gli Usa leading from behind contro il “dittatore” di turno da far fuori? E non potrà rendersi utile ai soliti padrini domani in altre aree (una a caso: il Caucaso russo)? Se al momento l’amministrazione Obama sembra inclinare verso un compromesso con Mosca sulla Siria per esercitarvi un potere condizionante – il che comporta il mollare la carta Isis – la strategia del caos statunitense in Medio Oriente non recede e avrà bisogno di potenziali asset strategici sul terreno che solo il jihadismo può fornire (a meno di un coinvolgimento di una parte dei kurdi, comunque non facile e assai poco deterritorializzato e flessibile). Lo vedremo con la prossima amministrazione, democratica o repubblicana che sia.

Tre. È innegabile però – se vogliamo evitare letture “complottiste” o comunque riduttive – che negli attentati jihadisti risuoni anche un richiamo forte di tipo politico-religioso da parte di un’avanguardia armata a un bacino sociale ritenuto suscettibile di accoglierlo. Anche questo un film già visto. Con due particolarità, alla fine convergenti, rispetto ad altri precedenti storici: non tanto la connotazione religiosa in sé quanto la sua commistione con una sorta di (tecno)nichilismo suicidario – reazione all’insensatezza della vita sotto il capitale da parte di un islamismo di ritorno travolto e fomentato al tempo stesso dalla globalizzazione – insieme alla razzializzazione spinta del divario banlieue/centro tipica della metropoli francese. Il tutto a creare una mistura terribile ed esplosiva di odio, di cui il fallimento delle spinte genuine (non certo tutte) della cosiddetta primavera araba ha sicuramente ampliato l’appeal. È questo fattore – di classe, ancorché in forme stravolte e irriconoscibili – ciò che conferisce una relativa autonomia ai militanti jihadisti rispetto ai vari sponsor: nessuno si uccide per i giochi politici delle potenze. Un’autonomia residua minima minima però, se è vero che la parabola dell’islamismo radicale, partita da un “antimperialismo” (reazionario), è collassata sull’odio anti-sciita, sullo scontro tra musulmani, sull’indistinzione totale tra governi e popoli occidentali, sul tatticismo estremo rotto a ogni alleanza.

Con questo il discorso non è certo esaurito. Restando alla dimensione geopolitica, al momento sembra uscire rafforzato l’interventismo di Mosca che può rilanciare verso l’Europa il suo appello anti-jihadista trovando orecchie disponibili, in primis la Germania ma probabilmente la stessa Francia, che si ritrova nella scomodissima posizione dell’anello debole della combriccola, quello più esposto alle ritorsioni di chi credeva di poter controllare (peccati di grandeur, ma forse che il popolo repubblicano per eccellenza li ha finora contestati?). Per Washington lo scenario è ambiguo: le sta riuscendo di importare instabilità anche in Europa come avvertimento contro qualsivoglia istanza di politica autonoma – la vicenda dei profughi siriani con le sue ripercussioni soprattutto sulla leadership indebolita di Mutti Merkel è assai rivelativa al riguardo (a meno di pensare che si sia trattato di una spinta solo “spontanea”). Ma, al tempo stesso, oltre una certa soglia diviene più difficile per i governi europei attenersi in tutto e per tutto al gioco del caos yankee, anzi crescono i segnali di attenzione verso Putin.

Non solo nei piani alti. In effetti, è sui fronti interni europei che si determinerà la piega politica che prenderà la reazione agli attentati parigini (e ad altri eventuali). Al di là della scontata risposta securitaria, è la destra (quella seria tipo Marine Le Pen) a essere piazzata meglio non solo e non tanto perché razzista, antislamica, ecc. ma perché ha saputo e a misura che saprà mettere in guardia contro le avventure americane in Medio Oriente dai costi scaricabili sull’Europa e dunque aprire verso la politica estera di Putin (con risvolti conservatori all’interno, chiaro). È questo il punto decisivo che la sinistra (ma quale?!) non sa assolutamente cogliere: il fatto che l’egemonia yankee sta diventando sempre più onerosa, su tutti i piani, anche per l’Europa e non potrà non suscitare risposte, confuse, contraddittorie, poco appetibili se vogliamo, ma terreno ineludibile di costruzione di una prospettiva anticapitalistica. La sinistra invece continua a oscillare tra una (giusta) istanza antirazzista ridotta (però) a “profughismo” a prescindere, incapace di cogliere i giochi globali e duri che stanno dietro le migrazioni, insomma ridotta a variante subordinata del discorso assistenziale dei preti e degli opportunismi di turno dei governi – e un “internazionalismo” di marca liberal presunto campione dei diritti individuali (sempre giocati, guarda caso, contro gli stati canaglia di turno) che sfocia puntualmente nella subordinazione all’atlantismo, convinta o per mancanza di alternative, quando non apertamente nel “democraticismo umanitario” anti-russo e anti-cinese. Risultato: non si capisce più nulla e ci si subordina ad altri discorsi. (Col che nessuno si sogni di leggere in questo abbozzo di analisi una proposta di “alleanze”...).

Una volta si diceva: il nemico principale è a casa propria, e non si intendeva certo dire l’unico. O la piazza – francese e non solo – se ci sarà piazza nel clima di sconforto e paura che comprensibilmente ha preso piede, inizierà a far pagare ai propri governi occidentali e alla loro politica estera il prezzo dei giochi imperialisti oppure non c’è modo effettivo di togliere spazio ai jihadisti – che è questione politica, niente affatto risolvibile militarmente – e i giochi di guerra sulla nostra pelle riprenderanno come e più di prima.

18 novembre ‘15

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