A qualche
giorno dai fatti parigini – tra il dolore e lo sconforto dei più,
l’ipocrisia ben celata dei pochi – si può tentare, cautamente, un
esercizio di verità? Forse. Ma, va detto, solo se si evitano
semplificazioni e comunque non senza derogare al politically correct.
Si tratta al momento solo di un esercizio di analisi, privo di ricadute
pratiche, oltretutto per una piccolissima minoranza. Ma neanche va
sottovalutata la possibilità che, tra i discorsi deliranti che gioco
forza montano in un mondo sofferente e a sua volta delirante, faccia
capolino una sensibilità diversa e trasversale in grado (ancora) di
porsi qualche domanda di fondo sul luogo storico che ci capita di
abitare.
Dunque quanto è successo a Parigi è un atto di guerra? Già ma allora verrebbe da chiedersi e approfondire: guerra tra chi e per che cosa?
Però, nel proliferare di differenze della tanto decantata società
dell’informazione pullulante di social network, reti all news,
notiziari, giornali e quant’altro, difficilmente si troverà una risposta
che si discosti da un (sospetto) unanimismo: guerra della barbarie e
della follia contro la civiltà (la nostra, dove il crinale tra umori di destra e di sinistra sta solo nel se, quanto e come la si possa estendere agli altri).
E mentre le sparute voci che sollevano qualche dubbio sono condannate
all’irrilevanza dall’inflazione di flussi accelerati spacciati per
conoscenza, si fa strada tra i più l’idea (autoconsolatoria ma non per
questo meno effettiva) che finalmente anche chi ha sbagliato – finanziando e armando l’Isis – adesso avrà capito e tutti insieme, russi compresi, potremo sconfiggere militarmente il mostro.
E invece le cose non sono affatto così semplici, lineari. Se di guerra si tratta, ed è così, è una guerra complessa, a più strati, dalle logiche perverse, dove tra ras
distribuiti sui territori e mandanti, globali e regionali, occidentali e
non – che del Medio Oriente, non da ora, hanno fatto una riserva di
caccia – chi è sull’avanscena spesso non gioca il ruolo principale. Può
suonare brutale ma le stragi di Parigi sono di questa situazione un effetto collaterale
(scandaloso l’uso di questo termine, si può usare solo per le masse di
cadaveri senza nome e volto fuori del mondo occidentale?). Vos guerres, nos morts.
Proviamo
a dipanare un po’ il groviglio individuando le distinte ma sovrapposte
dimensioni degli attacchi parigini, fatti e antefatti, e vediamo se per
caso non ci sia una logica nella follia.
Uno. L’Isis è in seria difficoltà in Siria a causa dell’intervento russo (rimandiamo per un’analisi più completa all’articolo qui: Della guerra in Siria: caos diffuso, nuovi equilibri o cosa?). Se la presenza jihadista in Siria e Iraq è stata resa possibile dal supporto di padrini vari in funzione della strategia del regime change
in Siria – di cui Parigi è con Usa, Arabia Saudita e Turchia uno dei
protagonisti fin dall’inizio (2011), non dimentichiamolo – Mosca ha
fatto da game changer, ha cioè cambiato sia i rapporti di forza
sul terreno sia la percezione della stessa opinione pubblica
occidentale, e gli effetti si sono visti subito. Ciò ha reso quel
supporto assai più difficile, contorto e ambiguo, così come rischia di
rimescolare gli stessi rapporti tra Washington e “alleati” locali, già
scossi dall’accordo sul nucleare iraniano. Non ci vuole molto per capire
che i giochi, i giochi grossi stanno cambiando: per i padrini
occidentali non è certo una questione di coscienza impartire qualche
colpo ai jihadisti, da loro già addestrati e armati, o financo mollarli,
per quelli arabi congelarli loro malgrado fino a nuovo ordine.
Due.
Era dunque prevedibile da parte dell’Isis l’intensificarsi della
tattica terroristica. Il che però non ci dice solo di un’organizzazione
in difficoltà sotto l’aspetto militare che tenta di rompere
l’accerchiamento e ricompattare i suoi nella nuova fase che va ad
aprirsi. In effetti, mentre l’abbattimento dell’aereo civile russo sul
Sinai (con l’appoggio logistico di chi?) e l’attentato alla Beirut
sciita rientrano nella logica tutto sommato lineare della guerra
asimmetrica contro il nemico direttamente presente sul terreno, gli
attentati parigini – come probabilmente quelli realizzati in Turchia
(cfr. IlSole24Ore: Le ambiguità di Erdogan) – potrebbero rispondere anche a un’altra logica, distinta ma complementare alla prima. Ovvero quella del ricatto
terroristico: ai (quasi ex) padrini da parte dei vertici Isis; agli
alleati da parte dell’Arabia Saudita, in grave difficoltà per la mossa
russa, l’impantanamento dovuto all’aggressione allo Yemen, la fragilità
interna accresciuta dagli introiti calanti (autoinflitti) della vendita
del petrolio, l’ascesa dell’asse sciita in Medio Oriente. Se così è,
saremmo di fronte a un episodio estremo di “ricontrattazione dura” ma
quasi sicuramente fuori tempo massimo nel nuovo quadro regionale che va
configurandosi. Infatti, se è vero che la Francia è stata fortemente
tentata negli ultimi tempi di scavarsi un proprio ruolo accostandosi
alla dinamica saudita, non è però assolutamente in grado di prendere la
guida dell’assalto al governo di Assad in Siria.
Il
che non toglie che in futuro i giochi di supporto anche occidentale
all’islamismo jihadista ricominceranno, con sigle opportunamente
riverniciate. È un film già visto. Del resto, non risulta ancora utile
oggi in Libia, dove in funzione anti-Gheddafi i jihadisti sono stati
armati e addestrati proprio da militari francesi e inglesi oltreché
sauditi e qatarioti, con gli Usa leading from behind contro il
“dittatore” di turno da far fuori? E non potrà rendersi utile ai soliti
padrini domani in altre aree (una a caso: il Caucaso russo)? Se al
momento l’amministrazione Obama sembra inclinare verso un compromesso
con Mosca sulla Siria per esercitarvi un potere condizionante – il che
comporta il mollare la carta Isis – la strategia del caos statunitense in Medio Oriente non recede e avrà bisogno di potenziali asset strategici
sul terreno che solo il jihadismo può fornire (a meno di un
coinvolgimento di una parte dei kurdi, comunque non facile e assai poco
deterritorializzato e flessibile). Lo vedremo con la prossima
amministrazione, democratica o repubblicana che sia.
Tre.
È innegabile però – se vogliamo evitare letture “complottiste” o
comunque riduttive – che negli attentati jihadisti risuoni anche un
richiamo forte di tipo politico-religioso da parte di un’avanguardia
armata a un bacino sociale ritenuto suscettibile di accoglierlo. Anche
questo un film già visto. Con due particolarità, alla fine convergenti,
rispetto ad altri precedenti storici: non tanto la connotazione
religiosa in sé quanto la sua commistione con una sorta di
(tecno)nichilismo suicidario – reazione all’insensatezza
della vita sotto il capitale da parte di un islamismo di ritorno
travolto e fomentato al tempo stesso dalla globalizzazione – insieme
alla razzializzazione spinta del divario
banlieue/centro tipica della metropoli francese. Il tutto a creare una
mistura terribile ed esplosiva di odio, di cui il fallimento delle
spinte genuine (non certo tutte) della cosiddetta primavera araba ha
sicuramente ampliato l’appeal. È questo fattore – di classe, ancorché in forme stravolte e irriconoscibili – ciò che conferisce una relativa autonomia
ai militanti jihadisti rispetto ai vari sponsor: nessuno si uccide per i
giochi politici delle potenze. Un’autonomia residua minima minima però,
se è vero che la parabola dell’islamismo radicale, partita da un
“antimperialismo” (reazionario), è collassata sull’odio anti-sciita,
sullo scontro tra musulmani, sull’indistinzione totale tra governi e
popoli occidentali, sul tatticismo estremo rotto a ogni alleanza.
Con
questo il discorso non è certo esaurito. Restando alla dimensione
geopolitica, al momento sembra uscire rafforzato l’interventismo di Mosca
che può rilanciare verso l’Europa il suo appello anti-jihadista
trovando orecchie disponibili, in primis la Germania ma probabilmente la
stessa Francia, che si ritrova nella scomodissima posizione dell’anello debole della combriccola, quello più esposto alle ritorsioni di chi credeva di poter controllare (peccati di grandeur, ma forse che il popolo repubblicano per eccellenza li ha finora contestati?). Per Washington
lo scenario è ambiguo: le sta riuscendo di importare instabilità anche
in Europa come avvertimento contro qualsivoglia istanza di politica
autonoma – la vicenda dei profughi siriani con le sue ripercussioni
soprattutto sulla leadership indebolita di Mutti Merkel è assai
rivelativa al riguardo (a meno di pensare che si sia trattato di una
spinta solo “spontanea”). Ma, al tempo stesso, oltre una certa soglia
diviene più difficile per i governi europei attenersi in tutto e per
tutto al gioco del caos yankee, anzi crescono i segnali di attenzione
verso Putin.
Non solo nei piani alti. In effetti, è
sui fronti interni europei che si determinerà la piega politica che
prenderà la reazione agli attentati parigini (e ad altri eventuali). Al
di là della scontata risposta securitaria, è la destra
(quella seria tipo Marine Le Pen) a essere piazzata meglio non solo e
non tanto perché razzista, antislamica, ecc. ma perché ha saputo e a
misura che saprà mettere in guardia contro le avventure americane
in Medio Oriente dai costi scaricabili sull’Europa e dunque aprire
verso la politica estera di Putin (con risvolti conservatori
all’interno, chiaro). È questo il punto decisivo che la sinistra (ma
quale?!) non sa assolutamente cogliere: il fatto che l’egemonia yankee
sta diventando sempre più onerosa, su tutti i piani,
anche per l’Europa e non potrà non suscitare risposte, confuse,
contraddittorie, poco appetibili se vogliamo, ma terreno ineludibile di
costruzione di una prospettiva anticapitalistica. La sinistra invece
continua a oscillare tra una (giusta) istanza antirazzista ridotta
(però) a “profughismo” a prescindere, incapace di cogliere i giochi
globali e duri che stanno dietro le migrazioni, insomma ridotta a
variante subordinata del discorso assistenziale dei preti e degli
opportunismi di turno dei governi – e un “internazionalismo” di marca liberal presunto campione dei diritti individuali (sempre giocati, guarda caso, contro gli stati canaglia
di turno) che sfocia puntualmente nella subordinazione all’atlantismo,
convinta o per mancanza di alternative, quando non apertamente nel
“democraticismo umanitario” anti-russo e anti-cinese. Risultato: non si
capisce più nulla e ci si subordina ad altri discorsi. (Col che nessuno si sogni di leggere in questo abbozzo di analisi una proposta di “alleanze”...).
Una
volta si diceva: il nemico principale è a casa propria, e non si
intendeva certo dire l’unico. O la piazza – francese e non solo – se ci
sarà piazza nel clima di sconforto e paura che comprensibilmente ha
preso piede, inizierà a far pagare ai propri governi occidentali e alla
loro politica estera il prezzo dei giochi imperialisti
oppure non c’è modo effettivo di togliere spazio ai jihadisti – che è
questione politica, niente affatto risolvibile militarmente – e i giochi
di guerra sulla nostra pelle riprenderanno come e più di prima.
18 novembre ‘15
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