di Dilar Dirik, attivista curda e dottoranda all’università di Cambridge.
La sua ricerca è incentrata sul Kurdistan e il movimento delle donne curde
(Titolo come apparso nel blog dell’autrice: The Women’s Revolution in Rojava: Defeating Fascism by Constructing an Alternative Society, dal capitolo “A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution” in Strangers in a Tangled Wilderness, Marzo 2015, Combustion Books. (Traduzione di Eugenia)
La resistenza contro lo Stato Islamico a Kobane ha fatto conoscere al
mondo la causa delle donne curde. Con la loro tipica miopia, i media
non hanno preso in considerazione le radicali implicazioni del loro
gesto, ovvero l’essere pronte ad abbracciare le armi in una società
patriarcale, e per di più contro un gruppo che sistematicamente stupra e
vende donne come schiave sessuali, anzi, persino riviste di moda si
sono appropriate della lotta delle donne curde per i loro scopi
sensazionalisti. Le combattenti più “attraenti” finiscono nelle
interviste e nei servizi che ne fanno poi un’immagine esotica da toste
amazzoni. La verità è che, per quanto possa essere affascinante –
sopratutto in una prospettiva orientalista – scoprire una rivoluzione
femminile tra i curdi, la mia generazione è cresciuta riconoscendo le
donne combattenti come parte della nostra identità.
L’Unità di Difesa Popolare (curdo:
Yekîneyên Parastina Gel, YPG) e l’Unità di Difesa delle Donne (curdo:
Yekîneyên Parastina Jin, YPJ) di Rojava, regione a maggioranza curda
nel nord della Siria, affrontano il cosiddetto “stato islamico” da due
anni e stanno opponendo una strenua resistenza nella città di Kobane.
All’incirca il 35 per cento dei combattenti, un numero stimato di
15.000, sono donne. Fondata nel 2013 come un’armata delle donne
indipendente, il YPJ dirige autonomamente operazioni e addestramenti. Ci
sono centinaia di brigate femminili sparse nel Rojava. Quali sono le
motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobane non è caduta? La
risposta si trova nella radicale rivoluzione sociale che accompagna i
loro fucili di autodifesa.
Innanzitutto bisogna analizzare le implicazioni di stampo
patriarcale, nella guerra e nel militarismo, per comprendere la natura
della lotta delle donne contro l’ISIS e della sistematica guerra
condotta dall’ISIS contro le donne. Normalmente, in guerra, le donne
vengono percepite come parti passive nei territori difesi dagli uomini,
mentre al contempo il sistematico ricorso alla violenza sessuale è
strumento di dominio e umiliazione del nemico. Essere militante è
“non-femminile” (un-womanly); scavalca le norme sociali e mina lo status quo. La guerra è vista
come una questione maschile: suscitata, condotta e conclusa da uomini.
Che “combattente” possa dunque essere anche donna, crea disagio
generale. Nonostante la tradizionale divisione di genere esemplifichi e
idealizzi le donne come delle sante, la punizione è altrettanto feroce
una volta che abbiano osato violare il ruolo prestabilito. Questo è il
motivo per il quale tante donne combattenti, ovunque nel mondo, sono
soggette a violenza sessualizzata in quanto combattenti in guerra o
prigioniere politiche. Come molte femministe hanno indicato, lo stupro e
la violenza sessuale hanno poco o nulla a che vedere con il
desiderio sessuale, ma sono strumenti per dominare e imporre la propria
volontà su un’altra. Nel caso delle donne militanti, il fine della
violenza sessualizzata, fisica o verbale che sia, è di punirle per
essere entrate in una sfera maschile.
Le militanti curde stanno combattendo contro lo stato turco (secondo
esercito più grande della NATO e primo ministro che si appella alle
donne chiedendo loro di partorire almeno tre figli), contro il regime
iraniano (il quale disumanizza le donne apparentemente nel nome
dell’Islam), contro il regime siriano (stupro sistematico come strategia
di guerra) e contro i jihadisti, come quelli dell’ISIS. Inoltre,
combattono anche contro il patriarcato, ancora insito nella stessa
società curda. E ancora contro matrimoni precoci e forzati, violenza
domestica, delitti d’onore e cultura dello stupro.
L’ISIS ha dichiarato una guerra alle donne con rapimenti, matrimoni
forzati e schiavitù sessuale. Si tratta di una distruzione sistematica
della donna, una forma specifica di violenza: femminicidio. La violenza
sessuale è il castigo per le donne militanti che sono entrate in una
sfera riservata agli uomini, al “genere privilegiato”. Per i membri
dell’ISIS, che dichiarano “halal” (lecito) stuprare le donne nemiche e
che si aspettano 72 vergini in paradiso come ricompensa per le loro
atrocità, le donne militanti sono certamente un perfetto nemico…
Nonostante l’esplicita natura sessista della guerra e della violenza,
in tutto il mondo le donne si schierano in prima fila nelle lotte per
la libertà ma, una volta che la “liberazione” è raggiunta, vengono
respinte, rimandate nei ruoli tradizionali in modo da ristabilire la
“normale” vita civile; considerando ciò, cosa possiamo imparare sulla
liberazione da un punto di vista radicale?
La repressione delle donne curde avviene su vari livelli, e questa
esperienza ha maturato in loro la consapevolezza che le diverse forme di
oppressione sono interconnesse tra loro. Da qui scaturisce l’ideologia
che ora anima la resistenza nei tre cantoni del Rojava dichiarati
autonomi nel gennaio del 2014, tra cui, appunto, Kobane. È una
resistenza che trova risonanza con gente in lotta in tutto il mondo, che
sente la causa come propria.
Qual è il credo politico dietro la resistenza delle donne curde?
“Noi non vogliamo che il mondo ci conosca per le nostre pistole, ma
per le nostre idee,”, dice Sozda, una comandante del YPJ a Amude,
indicando le immagini che tappezzano la loro stanza in comune:
guerriglieri del PKK e Abdullah Öcalan, il rappresentante ideologico del
movimento, attualmente in prigione. “Non siamo soltanto donne che
combattono l’ISIS. Noi lottiamo per cambiare la mentalità della società e
mostrare al mondo di cosa siano capaci le donne.” Per quanto il PKK e
l’amministrazione del Rojava non siano esplicitamente legati,
condividono gli stessi principi politici.
Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), fondato nel 1978, ha
iniziato una guerriglia contro lo stato turco nel 1984. Inizialmente
puntava all’indipendenza del Kurdistan, ma sorpassò ben presto i
concetti di stato e nazionalismo, criticati in quanto oppressivi ed
egemonici. Ora propugna un progetto di liberazione sotto forma di
democrazia – inclusiva, femminista e radicale – e di autonomia
regionale: “confederalismo democratico” (parità dei generi, ecologia) e
democrazia diretta per tutti i gruppi (etnici, linguistici, culturali e
religiosi). Abdullah Öcalan afferma esplicitamente che il patriarcato,
insieme al capitalismo e allo Stato, sono alla base di oppressione,
dominazione e potere: “L’uomo è un sistema. Il maschile è diventato
Stato e lo ha trasformato in cultura dominante. L’oppressione di classe
di genere si sviluppano insieme. La mascolinità ha generato il genere
dominante, la classe dominante, e lo stato dominante,”. Si ribadisce il
bisogno di una lotta femminista autonoma e cosciente: “la libertà della
donna non può essere assunta una volta che una società ha ottenuto
generale libertà ed eguaglianza.” I quadri del PKK frequentano seminari
contro il patriarcato e a sostegno dell’uguaglianza di genere, in modo
di cambiare il senso di privilegio e diritto naturale dell’uomo sulla
donna. Öcalan dimostra le connessioni tra differenti istituzioni di
potere: “Tutte le ideologie, di stato e di potere, derivano da
comportamenti sessisti […]. Senza la schiavitù della donna nessun altro
tipo di schiavitù può esistere, e nemmeno svilupparsi. Il capitalismo e
lo stato-nazione non sono che il maschile dominante nella sua forma
istituzionalizzata. Detto con franchezza: il capitalismo e lo stato
nazione sono il monopolio del maschio dispotico e sfruttatore”. Anche
il movimento delle donne produce indipendentemente teorie e critiche
sofisticate, ma che, nel Medio Oriente, il leader di una lotta per la
liberazione metta la liberazione femminile come misura critica della
libertà stessa, è pressoché straordinario. Solo leggendo, capendo la
posizione di questo movimento e le sue azioni corrispondenti, è
possibile comprendere la mobilitazione di massa delle donne di Kobane.
Questa posizione non è emersa dal nulla, ma nasce da una tradizione
radicata con un determinato sistema di principi.
Il PKK ripartisce ogni posizione nell’amministrazione tra un uomo e
una donna, dalle presidenze del partito ai consigli di quartiere,
tramite il principio di co-presidenza (co-chair concept, lett. “seggio
in comune”). Oltre al fornire ad entrambi lo stesso potere decisionale,
il concetto di co-presidenza mira a decentralizzare il potere, prevenire
il monopolismo, e promuovere la ricerca del consenso
(consensus-finding). Il movimento delle donne è organizzato
autonomamente, socialmente, politicamente e militarmente. Mentre questi
principi organizzativi cercano di garantire la rappresentanza femminile,
la mobilitazione massiva sociale e politica mira alla coscienza della
società in modo da interiorizzare i concetti appoggiati. Influenzate
dalla linea femminista del PKK, la maggioranza delle donne nel
parlamento turco e nelle amministrazioni municipali sono curde. Insieme
al YPG/YPJ, unità del PKK realizzarono un corridoio umanitario per
salvare i Yazida nelle montagne del Jebel Sinjār (Nord-Iraq) ad agosto.
Alcune donne del PKK morirono difendendo la cittadina di Makhmour, nel
Kurdistan iraqeno, a fianco dei compagni uomini. Ispirati da questi
principi, i cantoni del Rojava hanno rinforzato i meccanismi di
copresidenze e quote, hanno creato unità di difesa della donna, comuni
femminili, accademie, tribunali e cooperative. Il movimento delle donne
Yekîtiya Star è organizzato autonomamente in tutti i settori, dalla
difesa all’economia, fino alla sanità. Assemblee e consigli femminili
coesistono con quelli popolari e hanno potere di veto sulle decisioni di
quest’ultimi. La discriminazione basata sul genere viene fronteggiata
dalle leggi. Uomini colpevoli di violenze contro le donne non sono
supposti a far parte dell’amministrazione. Nel bel mezzo della guerra,
uno dei primi atti del governo è stata la criminalizzazione di fenomeni
come matrimoni forzati, violenza domestica, delitti d’onore, poligamia,
matrimoni precoci e il “prezzo della sposa”. Molte donne non-curde,
specialmente arabe e siriane, si sono unite ai ranghi militari e
amministrativi del Rojava e vengono incoraggiate ad organizzarsi
autonomamente. In tutti i settori, incluse le forze di sicurezza
interna, la parità dei sessi è parte centrale dell’educazione e
dell’addestramento. Mentre alcuni editorialisti affermano arrogantemente
che le donne di Kobane lottano “per valori occidentali”, le accademie
femminili in Rojava criticano la nozione delle donne occidentali più
libere, e dell’occidente detentore di un monopolio dei valori come la
parità dei sessi. “Non c’è libertà individuale se l’intera società è
schiavizzata”. In seminari pubblici, le donne esprimono le proprie
critiche alle scienze sociali e propongono vie per liberare il sapere dal
potere. Eppure questa rivoluzione femminista popolare ed esplicita è
completamente ignorata dai media mainstream.
“La nostra lotta non è solo per la difesa della nostra terra”, spiega una comandante del YPJ.
Jiyan Afrin. “Noi in quanto donne facciamo parte di tutte le
estrazioni sociali, indipendentemente se combattiamo l’ISIS o la
discriminazione e violenza contro le donne. Stiamo cercando di
mobilitare e di essere le autrici della nostra stessa liberazione”.
Quale liberazione?
L’esperienza del movimento femminile curdo illustra che per una
rivoluzione sociale significativa i concetti di liberazione devono
essere sciolti dai parametri dello status quo. Per esempio, il
nazionalismo è un concetto patriarcale. Le sue premesse limitano le
lotte per la giustizia. Similarmente, l’idea di uno stato-nazione
perpetua il sistema egemonico, oppressivo e dominante. Piuttosto che
sottoscrivere questi concetti, la liberazione dovrebbe essere vista come
una lotta senza fine, il tentativo di costruire una società etica,
solidarietà tra le comunità e giustizia sociale. Dunque, piuttosto che
essere una questione basata sui diritti che carica il peso sulle donne,
la liberazione e l’uguaglianza dei generi dovrebbe diventare una
questione di responsabilità di tutta la società, perché misurano l’etica
e la libertà della società stessa. Per una lotta radicale e
rivoluzionaria, la liberazione della donna deve essere nel processo sia
obiettivo intrinseco, sia metodo attivo. La partecipazione politica deve
andare oltre al voto e ai diritti e deve venir radicalmente reclamata
dalle persone.
In un era nella quale grandi statiste alimentano guerre ingiuste in
paesi del terzo mondo pretendendo di “salvare le povere donne oppresse”,
insieme a gruppi razzisti e maschilisti che credono di contribuire alla
causa femminile nel medio oriente tramite azioni sensazionaliste
egocentriche che loro considerano radicali, e nella quale l’estremo
individualismo e consumismo sono propagati come emancipazione, le
combattenti di Kobane hanno contribuito a ri-articolare il femminismo
radicale rifiutandosi di attenersi alle premesse dell’ordine costituito
da stato-nazioni capitalisti e patriarcali, reclamando l'autodifesa
legittima, dissociandosi dal monopolio di potere dallo stato, e
combattendo una forza brutale non per conto degli imperialisti, ma per
una liberazione nella quale loro stesse stabiliscono i termini.
Da Kobane, la combattente YPJ Amara Cudî mi racconta via internet:
“Una volta ancora, nuovamente, i curdi sono apparsi sul palcoscenico
della Storia. Ma questa volta con un sistema di autogoverno e
autodifesa, specialmente per le donne, che ora, dopo millenni, scrivono
loro stesse la loro storia per la prima volta. La nostra filosofia ha
reso noi donne coscienti che possiamo vivere solo resistendo. Se non
possiamo difendere e liberare noi stesse, non possiamo difendere o
liberare altri. La nostra rivoluzione va oltre questa guerra. Per
riuscire, è vitale sapere per cosa stiamo lottando.”
Senza questo impegno collettivo per scuotere la coscienza della
società, per trasformare i senzavoce in attori politici, Kobane non
sarebbe stata capace di resistere per così tanto. Questo perché la
mobilitazione politica e ideologica della popolazione di Rojava sono
imprescindibili dalle vittorie contro l’ISIS: una rivoluzione genuina
deve prima sfidare la mentalità di una società. Perciò, la lotta delle
donne contro l’ISIS non è solo militare, ma anche esistenziale. Esse non
resistono solo contro la misoginia dell’ISIS, ma anche contro la
cultura dello stupro e del patriarcato nella loro stessa comunità.
Dopotutto, l’ISIS cavalca sopra il concetto di “onore” nella regione,
costruito intorno ai corpi e alla sessualità delle donne. Per questo, un
grande striscione nel centro di Qamishlo dichiara: “Noi sconfiggeremo
gli attacchi dell’ISIS garantendo la libertà delle donne nel medio
oriente.”
Uno non deve simpatizzare con il PKK, ma non può nemmeno sostenere la
resistenza a Kobane negando il pensiero che la alimenta, per poi
esprimere solidarietà alle donne coraggiose che combattono l’ISIS. Non
puoi scrivere l’epos delle donne di Kobane senza aver letto la vita di
Sakine Cansiz, cofondatrice del PKK, che aveva guidato un'insurrezione
in un carcere turco e aveva sputato in faccia al suo torturatore. È
stata assassinata insieme a Fidan Dogan e Leyla Saylemez il 9 gennaio 2013
a Parigi. Donne come lei hanno aperto la strada alla lotta contro lo
stato islamico – donne che erano state, prima dell’ascesa dell’ISIS,
etichettate come prostitute, terroriste, streghe irrazionali e confuse,
crudeli, perché combattevano lo stato turco, membro della NATO.
Oggi, le donne di Rojava decorano le loro stanze con foto delle loro compagne Sakine, Fidan, e Leyla.
La de-politicizazzione della lotta a Kobane priva i combattenti del
senso del loro operato e estrae la mobilitazione collettiva dal contesto
– questo per interesse della coalizione, che consiste di stati che non
solo avevano ignorato e marginalizzato la resistenza di Rojava all’ISIS
per due anni, ma anche rifornito di armi gli stessi individui che poi
avrebbero formato questo sanguinario gruppo. Solidarietà con le donne di
Kobane vuol dire anche interessarsi alle loro politiche. Vuol dire
sfidare l’ONU, la NATO, le guerre ingiuste, il patriarcato, il
capitalismo, la religione politica, il commercio mondiale di armi, il
nazionalismo, il settarismo, il paradigma dello stato, la distruzione
ambientale – i pilastri di un sistema che ha scatenato l’inizio di
questa situazione. Non permettete che coloro che hanno proiettato ombre
buie, violente sul Medio Oriente e che causarono l’ascesa dell’ISIS,
pretendino ora di essere i “buoni”. Sostenere le donne di Kobane vuol
dire alzarsi in piedi e diffondere la rivoluzione.
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