di CAROLE DES MERES – Parigi
Oltre ad aver effettivamente portato
all’instaurazione di un clima di terrore e una reazione violenta da
parte dei militari francesi, la risposta agli attentati dello scorso 13
Novembre a Parigi ha profondamente toccato il Belgio e in particolare il comune di Molenbeek, indicato come «territorio-incubatore» di jihadisti.
È proprio in quel comune, infatti, che un terrorista francese risiedeva
in attesa dell’attentato. A seguito di questa scoperta le autorità di
Francia e Belgio si sono affrettate a scaricare l’una sull’altra non
solo la responsabilità di aver incubato gli attentatori, ma anche quella
di proporre qualche soluzione.
Media e politici francesi sono stati molto cauti nell’affermare pubblicamente una relazione tra banlieue e terrorismo.
Nessuna cautela invece in Italia, dove tra talkshow e interventi
pubblici alla Salvini, accompagnati da alcuni pseudo-giornalisti – di
«Libero» come del «Manifesto» – l’idea che sia necessario «risanare le periferie per sconfiggere il terrorismo»
ha stabilito con chiarezza un legame tanto scontato quanto problematico
tra un territorio specifico e un problema che gli «apparterrebbe», un
problema cioè dei suoi residenti, che sarebbero il prodotto del luogo in
cui risiedono. Detto altrimenti, il fatto che alcuni jihadisti fossero banlieuesard viene immediatamente tradotto nella capacità intrinseca delle banlieue di produrre jihadisti.
Come uno spazio periferico urbano possa produrre il «problema
jihadista» è meno scontato di quanto ci si possa immaginare, perché
dovremmo necessariamente pensare allo spazio come a un attore attivo e
autonomo nella produzione di un fatto. Bisogna insomma domandarsi: che
cosa può trasformare le periferie in spazi potenzialmente
«jihadizzanti»?
Disoccupazione, povertà, gentrification,
scarsa integrazione, esclusione sociale, degrado fisico: sarebbero
questi gli ingredienti che, quando spazialmente concentrati, creerebbero
il «problema-jihadista». Infatti, è solo quando questi elementi paiono
concentrarsi in specifici territori che tutto lo spazio tende a divenire
problema, oltre che riproduttore stesso di problemi. Su un piano politico, affermare che dei territori producano jihadisti può avere diverse conseguenze.
In primo luogo rischia di aprire la strada a una gestione straordinaria
di questi territori, in nome di una prioritarizzazione di quegli spazi,
ovvero di un processo che li fa divenire priorità da governare,
nonostante questa primazia sia politicamente prodotta e fondata quasi
esclusivamente su un approccio securitario che rischia di condurre a
inedite forme di esclusione e a violenze a opera dello Stato stesso. La
Francia, con i suoi «quartieri sensibili», ovvero con le sue aree ad
alta concentrazione di problemi socio-economici, nei confronti delle
quali lo Stato finanzia delle politiche fondate su un principio di
discriminazione positiva (dare di più a chi ha meno), ha riservato una
particolare attenzione a questi territori, un’attenzione
paternalistica, compensata da una gestione securitaria dai tratti
violenti, razzisti e repressivi a cui sono dovute molte delle rivolte
degli ultimi decenni.
In secondo luogo, il rischio, valido tanto nel contesto italiano, quanto in quello francese, riguarda il modo in cui la questione «quartiere produttore di jihadisti» viene accolta da chi abita quegli spazi.
Definire un luogo attraverso un problema, infatti, ha come esito certo
che chi ci vive dovrà necessariamente fare i conti con questo problema e
il modo di farlo dipenderà in gran parte da come ci si confronta con
esso. Detto altrimenti, se il problema jihadista diviene per qualcuno il
problema jihadista-musulmano, il rischio è che scoppino sacche di
rabbia laddove non era necessariamente presente o non era presente in
quella forma. È per questo secondo motivo, in particolare, che la
Francia, almeno a parole, tende a non dar eccessivo spazio a questa
relazione causale tra spazi specifici e i problemi che li attraversano.
Infine, il rischio è quello di culturalizzare
e spazializzare un problema, quello di Daesh, con il solo risultato di
deresponsabilizzare totalmente altri attori centrali nel processo di
affermazione del «problema-jihadista» e di alimentare
l’illusione che il problema possa essere governato semplicemente
circoscrivendolo. Se lo spazio e la cultura di cui la banlieue sarebbe
incubatrice (una cultura definita come poco incline all’integrazione)
divengono le matrici del divenire jihadista, tutto il resto risulta
irrilevante poiché apparentemente incapace di cambiare il destino che il
territorio-trappola riserva ai suoi giovani, discolpando ogni altro
possibile soggetto dall’esito inevitabile. Allo stesso tempo, però,
attribuendo una geografia certa alla produzione di jihadisti, si tenta
di affermare una capacità di gestione del rischio da parte della
Nazione, che è prima di tutto individuazione del rischio stesso.
Si deve aggiungere che, cosi facendo, si nega ogni capacità critica e (mal)pensante a questi jihadisti,
facendone dei soggetti culturalmente e geograficamente problematici
alla nascita, al punto che l’influenza delle origini spaziali, oltre a
definire il problema di cui sarebbero portatori, detta addirittura la
direzione assunta dalla «patologia». Ciò emerge dalle parole dello
stesso sindaco del comune di Sens, a 100 Km da Parigi, da ieri
sottoposto a coprifuoco a causa del ritrovamento di alcune armi, secondo
cui anche i gusti criminali dei suoi banlieuesard dipenderebbero dal fatto di essere geograficamente prossimi a Parigi e ai problemi delle sue banlieue («una delinquenza più vicina a quella della regione parigina che a quella delle altre città di provincia»).
Per quanto anche la Francia non sia immune da questa lettura spaziale del jihadista, è altrettanto vero che in Italia il dibattito che lega periferie e terrorismo è nettamente più evidente.
Il motivo potrebbe essere di natura storica e dipendere da esperienze
diverse. Lo Stato francese ha un’esperienza di ormai quarant’anni nelle
politiche prioritarie dirette a specifiche banlieue ritenute sensibili.
La Politique de la Ville francese, che indica un corpus di
leggi, programmi e progetti rivolti ai quartieri «in difficoltà» con il
fine di «rivalorizzarli», già dagli anni ‘80 ha stabilito un legame tra territori periferici, devianza e migrazioni,
duramente criticato e via via modificato, che rende difficile
l’affermarsi di un’ulteriore relazione causale tra banlieue e terrorismo
jihadista senza che questa venga a priori cassata. Le conseguenze di
queste prioritarizzazioni e di queste causalità apparenti e costruite,
infatti, si sono rese visibili nei conflitti nati a seguito degli
scontri tra forze dell’ordine e giovani residenti dei comuni più esterni
che hanno animato le strade francesi nel 2005, durante i quali dei
giovani banlieuesard persero la vita innescando una reazione di
massa da parte dei residenti contro le violenze subite. Allo stesso
tempo, è altrettanto evidente che per quanto nessuno si esprima in
merito a questa relazione, sono soprattutto le banlieue
a essere oggetto delle perquisizioni recenti delle forze dell’ordine
parigine, mentre molta meno attenzione pare essere riservata al centro
città. Mancherà quindi una presa di posizione ufficiale e
politica, ma certamente anche la Francia tende a fare dei suoi margini
urbani il centro dei suoi problemi.
Una localizzazione totale della
questione jihadista mette volutamente in ombra gli aspetti globali entro
cui questa si struttura realmente, gli aspetti finanziari,
economici e spesso deterritorializzati che attraversano e definiscono il
terrorismo jihadista. È politicamente comodo pensare che i Daesh siano
frutto dello scarso effetto delle politiche di integrazione nei
confronti di un quartiere, piuttosto che connettere le questioni
micro-territoriali con le dinamiche globali per cercare di comprendere
quelle traiettorie per nulla lineari in cui il problema jihadista si
forma. Ciò che questi terroristi ci hanno fatto chiaramente comprendere,
infatti, è che loro non sono frutto di un «brutto posto», contro il
quale vogliono vendicarsi, ma che la loro visione del terrorismo è
globale e sceglie i suoi obiettivi attraverso una ricostruzione
complessa delle relazioni di potere, una ricostruzione che tiene assieme
singoli territori locali, esperienze individuali di sfruttamento,
precarizzazione e razzismo e geografie mondiali. Un terrorismo
che cresce all’interno di un sistema fondato sui confini e sul governo
della mobilità e ne fa un enorme punto di forza su cui costruire la
propria iniziativa anonima e violenta.
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