Alla fine l’accordo è arrivato, in barba ai diritti umani e alla nebbiosa
relazione con le milizie islamiste che combattono Assad in Siria. La
Turchia riceverà 3 miliardi di euro di aiuti e rientrerà in corsa per
un posto nell’Unione europea: tutto, purché tenga i migranti del Medio
Oriente lontani dalle coste del Vecchio continente.
L’annuncio è stato fatto ieri dal presidente della Commissione Europea Donald Tusk, che ha spiegato i termini dell’accordo: a
fronte dei 3 miliardi di euro erogati da Bruxelles, Ankara dovrà
implementare i controlli alle frontiere, schiacciare i trafficanti di
uomini e collaborare con l’Ue per il rimpatrio di quelle persone non
qualificate come rifugiati. Dovrà inoltre cooperare sull’assistenza ai
rifugiati nel paese, assistenza facilitata dagli aiuti Ue e che
sarà diretta soprattutto ai profughi siriani. Bruxelles controllerà
mensilmente i progressi compiuti da Ankara.
“Ci aspettiamo un passo importante – ha detto l’ex premier polacco in
conferenza stampa – verso il cambiamento delle regole di gioco
per arginare il flusso migratorio che sta arrivando verso l’Unione
Europea attraverso la Turchia”. Un flusso sempre più grande che a lungo
ha provocato litigi tra i paesi membri, e solo recentemente ha portato a
un accordo parziale sulla divisione per quote dei rifugiati in ogni
paese, una ripartizione per 28 dei richiedenti asilo su oltre 850 mila
migranti giunti quest’anno.
L’altra faccia ghiotta dell’accordo con Bruxelles è la possibilità di
riprendere il processo di adesione all’Unione Europea superando lo
stallo degli ultimi dieci anni e saltando una serie di step: il
processo, infatti, si basa sul completamento di 35 “capitoli”, ognuno
relativo a un aspetto della politica interna. Ankara, come rivela il
portale Middle East Eye, ne ha completato solo uno negli ultimi
dieci anni, ma comunque l’Unione Europea ha acconsentito ad aprire il
“capitolo” 17, quello relativo alla politica economica e monetaria,
entro il 16 dicembre. E a tenere due vertici l’anno con Ankara sul suo
processo di adesione.
Eppure, solo due settimane fa, Bruxelles sembrava decisa a
non accordarsi con la Turchia finché questa non si fosse “adeguata agli
standard europei” sui diritti umani e sulle libertà fondamentali. In un rapporto
redatto dalla commissione Europea e diffuso il 10 novembre scorso
si puntava il dito contro la stretta sulla libertà di espressione nel
paese che, dopo “due anni di progressi in materia”, era tornata al punto
di partenza. Le libertà fondamentali, si legge nel rapporto, sono messe
seriamente a repentaglio dagli arresti e dalle condanne a carico di
giornalisti, minacce agli editori ostili al governo, intimidazioni nei
confronti dei mezzi di comunicazione e delle modifiche alla legge su
internet.
Il rapporto era costellato da una serie di esempi di violazioni delle libertà fondamentali, che vanno dalla
gestione delle manifestazioni di Piazza Taksim nel maggio del 2013 –
durante le quali persero la vita 8 persone e centinaia rimasero ferite
per la brutalità delle forze di polizia – al maxi processo aperto lo
scorso anno proprio contro i manifestanti, 255 dei quali sono
stati condannati ad alcuni anni di prigione. Un processo che ha
completamente ignorato le forze di sicurezza turche e le loro colpe.
Bruxelles, però, ha contestato soprattutto il controverso uso del
potere giudiziario da parte delle autorità, segnalando “l’indebolimento
della magistratura, del principio di separazione dei poteri e le
pressioni politiche a cui sono stati sottoposti i pubblici ministeri”.
Un punto che non cessa di essere di attualità, in Turchia, con l’ultimo
di una serie di arresti clamorosi effettuato qualche giorno fa a
Istanbul: l’accusa di spionaggio, terrorismo e rivelazione di segreti di
stato per Can Dundar ed Erdem Gul, giornalisti del quotidiano Cumhuriyet rei
di aver prodotto e diffuso un servizio nel 2014 su un carico di armi
fermato dai soldati turchi alla frontiera con la Siria, e destinato alle
milizie islamiste dell’opposizione anti-Assad.
Sabato scorso, ovvero il giorno seguente al fermo dei due cronisti, il quotidiano Today’s Zaman
riferiva che erano stati arrestati anche due generali e un colonnello
dell’esercito turco, colpevoli di aver fermato proprio quel convoglio di
camion in direzione della Siria lo scorso anno. Il polverone scatenato
dal caso, che aveva suscitato enormi polemiche proprio a ridosso delle
elezioni presidenziali di maggio 2014, aveva portato l’attuale primo
ministro turco Davutoglu, allora ministro degli Esteri, a dire che i
camion trasportassero aiuti umanitari ad alcuni villaggi turkmeni
appena aldilà della frontiera a sud della Turchia. Secondo quanto detto
dal presidente Erdogan in una conferenza stampa sulla vicenda martedì
scorso, invece, i camion erano carichi di munizioni destinati al
cosiddetto Esercito Libero Siriano.
Due versioni diverse della stessa storia, quelle date dai due
più alti rappresentanti turchi, che gettano nuovo fumo sulle relazioni
controverse che da anni avverrebbero a ridosso della frontiera
turco-siriana, come hanno denunciato diversi analisti e giornalisti, e
come ha sentenziato recentemente anche il presidente russo Vladimir
Putin. Relazioni di cui l’Europa, impegnata da più parti a
invocare la distruzione dello Stato Islamico, sembra non interessarsi,
come non sembra interessata alla situazione dei diritti umani in
Turchia, il cui rispetto è condizione necessaria per entrare
nell’Unione. E anche se da Bruxelles promettono di “tornare a parlare
delle differenze che ancora rimangono con la Turchia sui diritti umani e
sulla libertà di stampa”, bloccare l’arrivo dei migranti è senza dubbio
la questione più impellente.
Fonte
Speculazioni geopolitiche, come sempre sulla pelle degli ultimi.
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