Esiste ancora la democrazia in questo Paese? Non stiamo parlando della
democrazia popolare, né tantomeno di quella proletaria, ma della
cosiddetta democrazia liberale... Dicevamo, esiste ancora la democrazia ai
nostri tempi? Ai tempi dell’Unione Europea?
Messa in questo modo la
domanda potrebbe sembrare bizzarra perché il diritto di voto non è stato
soppresso (anche se ormai quelli che vi rinunciano stanno quasi per
superare i votanti), l’offerta elettorale può contare su decine di
partiti (anche se, stringi stringi, stanno tutti nello stesso campo
economico-sociale), in edicola si trovano decine di quotidiani diversi
(anche se alla fine dicono un po’ tutti le stesse cose) e poi, da quanto
ne sappiamo, non sembra profilarsi all’orizzonte nessun colpo di stato
ne tanto meno si ode quel “tintinnar di sciabole” che così fortemente
condizionò la vita politica del secolo scorso (anche se in giro per le
strada, soprattutto in questi giorni, si vedono girare parecchi
militari).
Eppure, nonostante questa
parvente normalità, ci pare di poter dire senza timore d’essere smentiti
che quell’insieme di istituzioni, regole e riti che abbiamo imparato a
conoscere su noiosissimi libri di educazione civica viene oggi messo in
discussione (nella sostanza, se non nella forma) da una moderna e
tecnocratica forma di fascismo. Quello che qualcuno prima di noi ha
acutamente definito come “vincolismo”. In nome di una serie di parametri
tecnici ed economici apparentemente neutri, definiti in sede europea
dalle classi dominanti e posti per l’appunto come “vincoli esterni”, è
stato di fatto sottratto al processo democratico l’esercizio della
politica valutaria, della politica monetaria e della politica fiscale
definendo, aprioristicamente, il perimetro delle politiche economiche e
sociali entro cui ciascun governo può muoversi e chiudendo ogni spazio
di mediazione tra gli interessi delle diverse classi.
Le vicende greche
da questo punto di vista rappresentano un vero e proprio paradigma: chi
viene eletto, chiunque esso sia, non può che recitare la parte
attenendosi al canovaccio scritto a Bruxelles. Ed è proprio intorno a
queste riflessioni che ruota l’iniziativa che oggi pomeriggio faremo
all’università, partendo dall’irriducibile incompatibilità tra i
trattati europei e lo spirito della Costituzione, un aspetto ottimamente
descritto da Vladimiro Giacchè nel suo ultimo
pamphlet, fino ad arrivare alla descrizione di come il “vincolismo” si
riverberi sulle stesse istituzioni democratico-borghesi. Non solo
attraverso la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ma anche
attraverso il processo di “europeizzazione” del sistema politico
italiano sostanziato dal pacchetto di riforme costituzionali in esame
alle camere e di cui parlerà Franco Russo. Una
questione, quella delle riforme costituzionali, che storicamente (e
colpevolmente) ha sempre suscitato poco interesse nel campo della
sinistra di classe e che pure assume oggi una centralità inaggirabile.
Lo svuotamento di potere degli organi rappresentativi e
l’esecutivizzazione della politica non riguardano solo il superamento
del “bicameralismo perfetto” ma, attraverso la riforma del Titolo V
della Costituzione, revisionano i rapporti tra il governo centrale e le
regioni rendendo lo Stato il responsabile esclusivo, ad esempio, delle
politiche attive del lavoro, della promozione della concorrenza, della
finanza pubblica, delle infrastrutture strategiche e della disciplina
dell’ambiente. E assicurando attraverso la “clausola di salvaguardia” la
possibilità di intervenire “a tutela dell’unità giuridica o economica
della repubblica o dell’interesse nazionale” rispetto alle materie che
restano di competenza delle regioni. Con buona pace del localismo, del
federalismo, del municipalismo e di tutte quelle altre suggestioni che
tanto hanno avuto fortuna anche a sinistra.
C’ è poi un altro aspetto
della democrazia formale che abbiamo chiesto di approfondire a Carlo Guglielmi,
ed è quello inerente al mondo del lavoro e alle relazioni industriali.
Nello specifico ci riferiamo all’attacco a cui è sottoposto il diritto
di sciopero, lo strumento di lotta principe dei salariati attraverso cui
far valere le proprie ragioni in forma collettiva di fronte ai padroni.
La tendenza, anch’essa continentale, è quella di spostare il diritto di
sciopero da un diritto individuale inalienabile ad un diritto quasi
esclusivo delle maggiori organizzazioni sindacali, per intenderci quelle
concertative. Fa scuola in questo senso il Trade Union Bill,
una proposta di legge del governo Cameron che probabilmente verrà
approvata al parlamento inglese la prossima primavera e che la
Commissione europea sta valutando come impianto base per una possibile
direttiva europea.
Secondo la suddetta proposta di legge la convocazione
degli scioperi nel settore pubblico dovrà passare attraverso
l’indizione di referendum a cui dovranno partecipare almeno il 50% dei
lavoratori interessati con una quota di voti favorevoli che, in alcuni
comparti (sanità, scuola, trasporti) dovrà superare il 40% di tutti gli
aventi diritto. Soglie talmente alte che di fatto impediscono la
possibilità di indire degli scioperi e che sono accompagnate da un
aumento vorticoso del periodo di preavviso, del periodo che
necessariamente deve intercorrere tra uno sciopero e l’altro e delle
sanzioni per i lavoratori ribelli. C’è di più, però: il Trade Union Bill
mentre inasprisce le regole sui picchettaggi autorizza l’affitto di
lavoratori antisciopero sia a tempo determinato che a tempo
indeterminato, dando così sostanza ad un implicito ricatto nei confronti
dei lavoratori in lotta che vedrebbero il loro posto “occupabile” da
un crumiro. Una filosofia, quella del Trade Union Bill, che informa
anche le tre proposte di legge sulla materia attualmente in esame nel
parlamento italiano, due delle quali a firma di Maurizio Sacconi e
Pietro Ichino... tanto per capirci.
Infine, ed è questo l’aspetto che
verrà affrontato da Nunzio D’Erme, è necessario capire
come questo attacco alle libertà democratiche portato avanti in nome del
“vincolismo” si riverbera nella vita di tutti i giorni. Nei quartieri,
nelle periferie e nei territori in cui viviamo. Una questione che i
tragici avvenimenti di Parigi hanno reso di stringente attualità. Desta
impressione, ad esempio, la modalità con cui ieri la polizia francese ha
operato il tentativo di arresto della cellula jihadista a Saint-Denis.
Con delle modalità operative simili a quelle messe in campo da un
esercito in un territorio occupato, quasi che la banlieue si trovasse a
Falluja e non alle porte di una capitale europea. Con un intero
quartiere che per diverse ore è stato materialmente chiuso dai militari
impedendo ai residenti di entrare o uscire e intimando di restare chiusi
in casa mentre veniva eseguita l’operazione. Una militarizzazione delle
relazioni sociali e politiche in nome della “emergenza” con cui saremo
presto chiamati a confrontarci anche noi.
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