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19/11/2015

Democrazia vs “Vincolismo”

Esiste ancora la democrazia in questo Paese? Non stiamo parlando della democrazia popolare, né tantomeno di quella proletaria, ma della cosiddetta democrazia liberale... Dicevamo, esiste ancora la democrazia ai nostri tempi? Ai tempi dell’Unione Europea?

Messa in questo modo la domanda potrebbe sembrare bizzarra perché il diritto di voto non è stato soppresso (anche se ormai quelli che vi rinunciano stanno quasi per superare i votanti), l’offerta elettorale può contare su decine di partiti (anche se, stringi stringi, stanno tutti nello stesso campo economico-sociale), in edicola si trovano decine di quotidiani diversi (anche se alla fine dicono un po’ tutti le stesse cose) e poi, da quanto ne sappiamo, non sembra profilarsi all’orizzonte nessun colpo di stato ne tanto meno si ode quel “tintinnar di sciabole” che così fortemente condizionò la vita politica del secolo scorso (anche se in giro per le strada, soprattutto in questi giorni, si vedono girare parecchi militari).

Eppure, nonostante questa parvente normalità, ci pare di poter dire senza timore d’essere smentiti che quell’insieme di istituzioni, regole e riti che abbiamo imparato a conoscere su noiosissimi libri di educazione civica viene oggi messo in discussione (nella sostanza, se non nella forma) da una moderna e tecnocratica forma di fascismo. Quello che qualcuno prima di noi ha acutamente definito come “vincolismo”. In nome di una serie di parametri tecnici ed economici apparentemente neutri, definiti in sede europea dalle classi dominanti e posti per l’appunto come “vincoli esterni”, è stato di fatto sottratto al processo democratico l’esercizio della politica valutaria, della politica monetaria e della politica fiscale definendo, aprioristicamente, il perimetro delle politiche economiche e sociali entro cui ciascun governo può muoversi e chiudendo ogni spazio di mediazione tra gli interessi delle diverse classi.

Le vicende greche da questo punto di vista rappresentano un vero e proprio paradigma: chi viene eletto, chiunque esso sia, non può che recitare la parte attenendosi al canovaccio scritto a Bruxelles. Ed è proprio intorno a queste riflessioni che ruota l’iniziativa che oggi pomeriggio faremo all’università, partendo dall’irriducibile incompatibilità tra i trattati europei e lo spirito della Costituzione, un aspetto ottimamente descritto da Vladimiro Giacchè nel suo ultimo pamphlet, fino ad arrivare alla descrizione di come il “vincolismo” si riverberi sulle stesse istituzioni democratico-borghesi. Non solo attraverso la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ma anche attraverso il processo di “europeizzazione” del sistema politico italiano sostanziato dal pacchetto di riforme costituzionali in esame alle camere e di cui parlerà Franco Russo. Una questione, quella delle riforme costituzionali, che storicamente (e colpevolmente) ha sempre suscitato poco interesse nel campo della sinistra di classe e che pure assume oggi una centralità inaggirabile. Lo svuotamento di potere degli organi rappresentativi e l’esecutivizzazione della politica non riguardano solo il superamento del “bicameralismo perfetto” ma, attraverso la riforma del Titolo V della Costituzione, revisionano i rapporti tra il governo centrale e le regioni rendendo lo Stato il responsabile esclusivo, ad esempio, delle politiche attive del lavoro, della promozione della concorrenza, della finanza pubblica, delle infrastrutture strategiche e della disciplina dell’ambiente. E assicurando attraverso la “clausola di salvaguardia” la possibilità di intervenire “a tutela dell’unità giuridica o economica della repubblica o dell’interesse nazionale” rispetto alle materie che restano di competenza delle regioni. Con buona pace del localismo, del federalismo, del municipalismo e di tutte quelle altre suggestioni che tanto hanno avuto fortuna anche a sinistra.

C’ è poi un altro aspetto della democrazia formale che abbiamo chiesto di approfondire a Carlo Guglielmi, ed è quello inerente al mondo del lavoro e alle relazioni industriali. Nello specifico ci riferiamo all’attacco a cui è sottoposto il diritto di sciopero, lo strumento di lotta principe dei salariati attraverso cui far valere le proprie ragioni in forma collettiva di fronte ai padroni. La tendenza, anch’essa continentale, è quella di spostare il diritto di sciopero da un diritto individuale inalienabile ad un diritto quasi esclusivo delle maggiori organizzazioni sindacali, per intenderci quelle concertative. Fa scuola in questo senso il Trade Union Bill, una proposta di legge del governo Cameron che probabilmente verrà approvata al parlamento inglese la prossima primavera e che la Commissione europea sta valutando come impianto base per una possibile direttiva europea.

Secondo la suddetta proposta di legge la convocazione degli scioperi nel settore pubblico dovrà passare attraverso l’indizione di referendum a cui dovranno partecipare almeno il 50% dei lavoratori interessati con una quota di voti favorevoli che, in alcuni comparti (sanità, scuola, trasporti) dovrà superare il 40% di tutti gli aventi diritto. Soglie talmente alte che di fatto impediscono la possibilità di indire degli scioperi e che sono accompagnate da un aumento vorticoso del periodo di preavviso, del periodo che necessariamente deve intercorrere tra uno sciopero e l’altro e delle sanzioni per i lavoratori ribelli. C’è di più, però: il Trade Union Bill mentre inasprisce le regole sui picchettaggi autorizza l’affitto di lavoratori antisciopero sia a tempo determinato che a tempo indeterminato, dando così sostanza ad un implicito ricatto nei confronti dei lavoratori in lotta che vedrebbero il loro posto “occupabile”  da un crumiro. Una filosofia, quella del Trade Union Bill, che informa anche le tre proposte di legge sulla materia attualmente in esame nel parlamento italiano, due delle quali a firma di Maurizio Sacconi e Pietro Ichino... tanto per capirci.

Infine, ed è questo l’aspetto che verrà affrontato da Nunzio D’Erme, è necessario capire come questo attacco alle libertà democratiche portato avanti in nome del “vincolismo” si riverbera nella vita di tutti i giorni. Nei quartieri, nelle periferie e nei territori in cui viviamo. Una questione che i tragici avvenimenti di Parigi hanno reso di stringente attualità. Desta impressione, ad esempio, la modalità con cui ieri la polizia francese ha operato il tentativo di arresto della cellula jihadista a Saint-Denis. Con delle modalità operative simili a quelle messe in campo da un esercito in un territorio occupato, quasi che la banlieue si trovasse a Falluja e non alle porte di una capitale europea. Con un intero quartiere che per diverse ore è stato materialmente chiuso dai militari impedendo ai residenti di entrare o uscire e intimando di restare chiusi in casa mentre veniva eseguita l’operazione. Una militarizzazione delle relazioni sociali e politiche in nome della “emergenza” con cui saremo presto chiamati a confrontarci anche noi.

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