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27/11/2015

Study Fast, Work Young. Il ruolo della formazione secondo Poletti (e non solo...)

Ci risiamo. Cambiano i governi, cambiano i ministri. Ma quel che proprio non cambia mai è il gioco perverso a “spararla più grossa” rispetto alla questione giovanile, al ruolo della formazione, alla precarietà. Proprio non ce la fanno, i nostri governanti, a non mortificare, demonizzare, ridicolizzare, un’intera generazione di giovani studenti e precari. Aveva iniziato l’allora ministro Padoa-Schioppa, definendo “bamboccioni” tutti quei giovani che, in una situazione di totale assenza di welfare, e con la disoccupazione galoppante, non riescono ad allontanarsi dal nucleo familiare. Ha proseguito la ministra Fornero, definendo “choosy”, schizzinosi, i ragazzi che non accettano la prima offerta di lavoro (magari precario. Magari neanche retribuito) che gli viene presentata. E poi Martone, secondo il quale chi si laurea a 28 anni è uno sfigato. E giungiamo, infine, ai giorni nostri. Inizia la ministra Giannini che afferma che studiare alla Sapienza costi meno di un’utilitaria (in riferimento alle sole tasse universitarie. Ed alla sola laurea triennale. Vaglielo a spiegare, alla Giannini, che oltre alle tasse ci sono gli affitti, i libri, i trasporti etc. E che solitamente alla laurea triennale segue quella magistrale. E vaglielo a spiegare che qua non ci stanno i soldi per il biglietto del tram, figurarsi per un’utilitaria). Segue a ruota il solito Poletti. Quello che proponeva di ridurre le vacanze estive per gli studenti delle superiori, a favore di periodi di tirocinio estivo (anche qui… Vallo a spiegare a Poletti che un giovane d’estate già si arrabatta di per se’ tra il lavoro da cameriere al bar, quello da spiaggino ed il volantinaggio). Ci è cascato di nuovo. E’ più forte di lui. Ignorando bellamente quel che la saggezza popolare suggerisce, ovvero che è enormemente più opportuno star zitti quando si hanno da dire solo idiozie, eccolo tornare alla riscossa. E ci dice che è enormemente preferibile muoversi a prendere una laurea, magari inanellando uno dopo l’altro una serie di voti modesti, preparando gli esami alla meno peggio, che prendersi i propri tempi e preferire uno studio maggiormente approfondito, che porti ad un voto di laurea significativo. Praticamente, non importa neanche più quanto abbiamo assimilato di quelle nozioni in pillole che ci vengono fornite nei corsi universitari, di quelle conoscenze acritiche e settorializzate. Tocca muoversi. Accumulare CFU, prendersi una laurea e togliersi di torno. Essere competitivi con chi si laurea in poco tempo, negli altri paesi europei. Entrare subito nel mondo del lavoro che, del resto, è notoriamente ricco di opportunità e prospettive, per i più giovani, con un tasso di disoccupazione ad un anno dalla laurea che sfiora il 50% e con una disoccupazione giovanile intorno al 40%.

Curioso che ancora una volta ci si preoccupi di demonizzare e ridicolizzare i fuoricorso, preoccupandosi dell’età cui ci si laurea, più che del fatto che l’Italia è fanalino di coda per il numero di laureati in Europa. A chi importa di garantire ad un’ampia fascia della popolazione l’accesso ai più alti livelli della formazione, o di formare dei laureati di un certo spessore? L’importante è muoversi. Togliere il disturbo. Se fino a poco fa si provava, almeno, ad impostare un discorso retorico basato sul “pochi ma bravi”, Poletti non ha peli sulla lingua. “Pochi e veloci”. Questa è la realtà dei fatti. Questa la richiesta del mondo del lavoro. Questa la soluzione per i giovani.

Ma non dobbiamo stupirci. Del resto, Poletti è solo meno accorto di altri. Dice le cose così come gli vengono. Pane al pane e vino al vino. In realtà, le sue dichiarazioni sono la brutale e grossolana semplificazione del progetto che i vari governi hanno condotto, nell’ambito della formazione universitaria, da anni. La funzione dell’istruzione superiore non dev’essere quella di garantire una formazione di qualità. La cultura, del resto, non è una merce particolarmente profittevole (e questo, lo diceva già Tremonti, tanto per rimanere in tema di eminenti personaggi pubblici che proprio non ce la fanno a risparmiarsi le sparate). Se i giovani pensano di iscriversi all’università per accrescere i propri saperi, la propria coscienza critica, la propria consapevolezza del mondo che li circonda, sbagliano. Tutto quel che troveranno all’università saranno un insieme disorganico di CFU da accumulare, di definizioni, formule, date, da apprendere, di libri da studiare e ripetere. Un processo totalmente passivo di acquisizione di nozioni, più che di saperi. L’importante è muoversi. Del resto, Poletti per primo, così come tutti coloro che hanno definito le linee guida che governano il mondo della formazione, è consapevole della mediocrità delle conoscenze che vengono trasmesse nei corsi di studio: una sommatoria di capitoli, argomenti etc da mettere insieme, per determinare un certo quantitativo di CFU. E solo questo conta. In un sistema in cui l’università continua a perdere ogni funzione che non sia quella di disciplinare a ritmi di vita forzati, ad essere flessibili in un sistema didattico estremamente rigido, a calibrare se stessi sull’esigenza di acquisire CFU in breve tempo, e togliere il disturbo. Proprio come il mondo del lavoro, sempre più precario ai tempi del jobs act, che esige lavoratori flessibili, adattabili e pronti a sacrificarsi, in un sistema che invece si fa giorno dopo giorno più duro sul piano dei diritti e delle tutele. E questo è quanto. A cosa serve approfondire un esame, magari affrontarne lo studio con approccio critico, coglierne le relazioni con la realtà che ci circonda, se l’università risponde unicamente all’esigenza di formare i precari del futuro? Se serve principalmente a predisporre i giovani a passare il resto della propria vita ad adeguarsi a due mesi di tirocinio non pagato, seguiti da sei mesi in un call center, poi altri quattro come cameriere in pizzeria, e magari qua e la anche un periodo di disoccupazione? Se questo è il futuro immaginato per gli studenti universitari, cosa c’è da stupirsi se in ambito formativo si affermi che è preferibile mostrarsi flessibili e rapidi nel fare un esame dopo l’altro, piuttosto che interessati e vogliosi di approfondire? E’ logico. Non fa una piega.

E' una fabbrica, l’università, la cui merce sono i lavoratori del futuro. E se il lavoro del futuro è precario, umiliante, discontinuo, e non richiede particolari caratteristiche che non siano flessibilità e cieca obbedienza, per quale ragione la fabbrica dovrebbe produrre merce di qualità? Meglio produrne velocemente, al fine di garantire al mercato del lavoro ampi margini di manovra, e una massa di giovani disposti a tutto pur di lavorare. Del resto, se ad una fabbrica viene commissionata la produzione di un auto destinata ad un mercato poco esigente, un’utilitaria (si, come quella menzionata dalla Giannini) con la quale fare brevi tragitti, priva di particolari optional e sufficientemente adatta a varie superfici, pensate che quella fabbrica produrrà delle mercedes o delle skoda?

Dal canto nostro, non ci resta che ricercare e conquistare, in questa fabbrica, i nostri spazi ed i nostri tempi. E rivendicare, ancora una volta, il diritto di studiare con lentezza.

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