Chiara Cruciati – Il Manifesto
Dodici morti, tra loro
cinque bambini: è il bilancio del raid che ieri ha colpito la scuola
Heten, a Raqqa. Da quando la città siriana è stata eletta “capitale” del
califfato, la scuola era usata come base dai miliziani. Per ora nessuno
sa dire che bandiera fosse stampata sul jet responsabile dell’attacco,
la francese, la statunitense o la russa.
Si aggiungono alle centinaia di civili vittime della
coalizione, spesso occultati dalle forze militari impegnate tra Siria e
Iraq. A far uscire le loro storie provano attivisti e organizzazioni, a
volte i familiari. È quello che ha fatto Muawiyya al-Amouri, padre
siriano di sei figli, uccisi ad agosto a Atmeh, città
settentrionale vicino Idlib. Ha denunciato la morte dei bambini in un
raid Usa, mai reso noto se non giovedì quando per la prima volta il
commando generale Usa ha ammesso di aver bombardato nelle vicinanze di
Atmeh. Il target era una postazione dell’Isis: «La coalizione spende
molto tempo per individuare i target, assicurare la massima efficacia e
minimazzare le potenziali vittime civili», ha detto il portavoce Tim
Smith.
Rispondono analisti e attivisti: ad Atmeh l’Isis non c’è, né ci sono tracce di al-Nusra. Quelle
morti risollevano una questione spesso in ombra: chi, cosa e come i
raid colpiscono Daesh. Con quali informazioni di intelligence e con
quanta precisione. È ormai trascorso oltre un anno dall’inizio
delle operazioni Usa in Siria (quasi 3mila bombardamenti), un anno e 4
mesi da quelle in Iraq (altri 3.500) e lo Stato Islamico resta – più o
meno – dov’era. Si è ritirato da Sinjar, su pressione della
controffensiva peshmerga e dei kurdi siriani delle Ypg; ha perso Kobane e
parte del distretto di Hasakah dietro le operazioni congiunte di
esercito siriano e combattenti kurdi; ha perso il collegamento diretto
tra Raqqa e la seconda “capitale”, l’irachena Mosul, dopo l’intervento
di Erbil.
Ma continua a controllare ampi territori, un terzo dell’Iraq e
un terzo della Siria: una lunga catena che parte dal confine nord
occidentale tra Siria e Turchia, passa per Raqqa e arriva all’Iraq
orientale, a Fallujah e Ramadi, e a quello meridionale, dove ha
postazioni vicino alle frontiere con Giordania e Arabia Saudita.
Così mantiene aperto il collegamento tra le due realtà – l’irachena e
la siriana – tramite il valico di Al Qaim, lungo il fiume Eufrate,
trasferisce uomini e armi e tiene in piedi i traffici commerciali, il
sistema di contrabbando e quello amministrativo. È uno dei motivi per
cui Mosca e Washington concentrano buona parte della forza di fuoco
contro camion di petrolio e centri smistamento: l’Isis si adatta, dice
il ricercatore siriano Hisham al-Hashimi, e ora non usa più camion da
36mila litri, ma veicoli più piccoli, da 4mila. Inoltre, aggiunge, i
miliziani si sono spostati da zone residenziali e campi di addestramento
per nascondersi in bunker e tunnel sotterranei.
Manca però un elemento fondamentale a garantire una maggiore
efficacia: informazioni di intelligence credibili che informino sulla
posizione dei miliziani, i loro spostamenti. Non avendo uomini
sul terreno, se non qualche centinaio di consiglieri militari, e
continuando ad affidarsi ai gruppi di opposizione moderata ad Assad, gli
Stati Uniti sono rallentati, vanno alla cieca. Tanto da decidere di
appoggiarsi a chi i risultati li ottiene: i kurdi siriani che hanno da
poco fondato un nuovo fronte insieme ad assiri e arabi, le Forze
Democratiche.
Va meglio a Mosca che dalla sua ha l’esercito governativo e i servizi
segreti di Damasco. I risultati si vedono: a due mesi dal lancio
dell’operazione russa, le truppe del presidente Assad non hanno
sfondato, ma sono avanzate a nord di Latakia (verso l’obiettivo
principe, Aleppo) e al centro, verso Palmira e nei dintorni di Homs. La
presenza, più capillare, sul territorio di uomini collegati
direttamente o indirettamente a Damasco garantisce una maggiore
precisione. La stessa a cui anela la Francia: giovedì Parigi e Mosca
hanno annunciato uno scambio regolare di informazioni tra aviazioni.
Dall’altro lato del confine del “califfato”, in Iraq, dopo la
strategica vittoria a Sinjar il resto della controffensiva anti-Isis è
in stallo: a Ramadi, capoluogo dell’Anbar, calda provincia sunnita, le
forze governative irachene non sfondano. Hanno ripreso il parziale
controllo di alcuni quartieri – secondo l’esercito la metà – della città
e bloccato il ponte usato dall’Isis per i rifornimenti. Ma, mentre i
civili pagano la rappresaglia degli islamisti che stanno distruggendo
decine di case per vendetta, l’impressione è che non si riesca ad
avanzare con regolarità. A farlo sono le milizie sciite legate all’Iran e
in contrasto con i kurdi a Kirkuk. Tensioni interne che lasciano le
operazioni per la liberazione di Anbar e, a seguire, Mosul ancora solo
sulla carta.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento