di Michele Paris
A pochi giorni
dall’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte della Turchia, i
contorni dell’episodio sembrano sempre più confermare i sospetti
iniziali di una provocazione progettata a tavolino dal governo di Ankara
nel disperato tentativo di fermare le operazioni militari di Mosca in
Siria contro i terroristi che combattono il regime di Assad. La
decisione presa ad altissimo livello dal governo turco ha riportato nel
dibattito sulla crisi siriana tutte le ambiguità della politica estera
promossa dal presidente Erdogan e i legami a dir poco sospetti della sua
cerchia di potere con i gruppi fondamentalisti sunniti che operano a
sud del confine, incluso lo stesso Stato Islamico (ISIS/Daesh).
I
sospetti sui fatti di martedì sono stati ampiamente confermati non solo
dalle dichiarazioni dei vertici politici e militari russi, ma anche
dalla stessa contraddittoria versione fornita dalla Turchia. Il pilota
russo sopravvissuto ha affermato che le autorità turche non avevano
lanciato nessun avvertimento al velivolo prima dell’abbattimento.
Ankara, da parte sua, giovedì ha diffuso dubbie registrazioni degli
avvertimenti che sarebbero stati indirizzati ai due piloti russi. Nel
materiale audio pubblicato dalla Associated Press non vi è inoltre
traccia della risposta di questi ultimi.
Com’è stato ampiamente
riportato dalla stampa occidentale “mainstream”, secondo i tracciati
radar forniti da Ankara, se anche il jet russo avesse violato lo spazio
aereo turco, sarebbe rimasto all’interno di esso per non più di 17
secondi, rendendo alquanto improbabile il fatto che la Turchia avesse
potuto lanciare dieci avvertimenti ai piloti in cinque minuti. Anzi, ciò
rivela semmai come siano stati gli F-16 turchi a violare lo spazio
aereo siriano, nel quale hanno abbattuto il Su-24 russo, precipitato
infatti ben all’interno del territorio della Siria.
Vista la
situazione, appare chiaro che l’aereo da guerra russo non rappresentava
alcuna minaccia alla sicurezza della Turchia. Nei casi poi di
sconfinamenti che non indicano minacce, la pratica comune suggerisce
iniziative ben diverse per risolvere un episodio di questo genere, a
cominciare dall’invio di caccia del paese “invaso” per cercare di
accompagnare al di fuori del proprio spazio aereo il velivolo
“invasore”. Tanto più che, com’è stato fatto notare da Mosca, la Russia
ha siglato un accordo con gli Stati Uniti per evitare incidenti durante
le operazioni in Siria e tale accordo sembrava dover riguardare anche
gli alleati di Washington che fanno parte della coalizione impegnata
ufficialmente contro l’ISIS/Daesh.
Il ministro degli Esteri russo
Lavrov ha inoltre ricordato come lo stesso Erdogan avesse affermato
pubblicamente nel 2012 che una breve violazione dello spazio aereo di un
altro paese non giustificava l’abbattimento di un velivolo militare.
Queste parole erano state pronunciate dall’allora primo ministro turco
dopo che il governo di Damasco aveva ordinato l’abbattimento di un
caccia di Ankara accusato di avere sconfinato in Siria.
Se si
considera come accertata la provocazione da parte della Turchia, risulta
fondamentale chiedersi quali siano i motivi che hanno spinto Erdogan e
il premier Davutoglu a prendere una decisione così grave, ma anche se il
governo dell’AKP abbia agito o meno in accordo con gli Stati Uniti e
gli altri paesi NATO.
Per quanto riguarda il primo aspetto ci
sono sostanzialmente due questioni da valutare. La prima ha a che fare
con la necessità da parte turca di difendere le formazioni “ribelli”
fondamentaliste siriane dagli attacchi russi. Ankara ha investito
parecchio nella galassia integralista attiva in Siria, senza troppi
scrupoli nell’appoggiare gruppi come il Fronte al-Nusra - ovvero la
filiale siriana di al-Qaeda - e lo stesso ISIS/Daesh. La Turchia
continua infatti a rappresentare un centro logistico e un territorio di
passaggio fondamentale per i guerriglieri, il denaro e le armi dirette
verso la Siria.
Come ha fatto notare il presidente russo Putin
alcuni giorni fa, questa dissennata politica della Turchia non solo
risponde alle esigenze strategiche del governo di Ankara, che consistono
principalmente nella rimozione del regime di Assad, ma permette a una
schiera di funzionari, uomini d’affari e politici che ruotano più o meno
attorno all’AKP di realizzare considerevoli profitti.
Una delle
principali fonti di finanziamento dell’ISIS/Daesh è rappresentata dalla
vendita clandestina di greggio estratto dai pozzi petroliferi in Siria
sottratti al controllo di Damasco. Questo petrolio sembra finire in gran
parte proprio in Turchia, dove viene acquistato a prezzi decisamente
inferiori a quelli di mercato e garantisce un flusso di denaro continuo
nelle casse degli uomini del “califfo” al-Baghdadi.
Addirittura,
lo stesso figlio del presidente Erdogan, Bilal, è stato nei giorni
scorsi indicato come uno dei beneficiari di questo traffico illegale di
greggio dalle aree controllate dall’ISIS/Daesh verso la Turchia. Putin,
d’altra parte, nel corso del recente vertice dei G-20 proprio in Turchia
aveva rivelato in una conferenza stampa come “alcuni paesi membri di
questo consesso siano tra i principali finanziatori dell’ISIS/Daesh”.
A
evidenziare questi legami non è stato solo il governo russo, ma anche
quello americano, ad esempio con il sotto-segretario di Stato, David
Cohen, che lo scorso ottobre aveva quantificato in circa un milione di
dollari al giorno i guadagni dell’ISIS/Daesh provenienti dalla vendita
di petrolio, principalmente alla Turchia.
I recenti bombardementi
della Russia contro convogli che trasportavano greggio proveniente dai
pozzi controllati dall’ISIS/Daesh avrebbero quindi provocato un danno
strategico ed economico tutt’altro che indifferente per la Turchia,
spingendo il suo governo a mettere in atto una clamorosa ritorsione.
L’altra
motivazione che avrebbe indotto Ankara a ordinare l’abbattimento del
caccia russo è legata invece agli sviluppi diplomatici e militari emersi
dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre. Se l’intervento russo in
Siria ha già messo in crisi la strategia di Erdogan in questo paese, le
prospettive per la Turchia sono ulteriormente peggiorate in seguito al
progetto del presidente francese Hollande di costituire una coalizione
anti-ISIS/Daesh che includa Mosca.
La provocazione contro la
Russia di martedì sarebbe perciò un tentativo di ostacolare queste
manovre in atto tra Mosca e Parigi, tant’è vero che uno dei temi che
hanno trovato maggiore spazio sui media ufficiali subito dopo
l’abbattimento del Su-24 è stato proprio il complicarsi dei piani di
Hollande per mettere in piedi un più ampio ed efficace fronte contro i
terroristi attivi in Siria.
Nei piani di Erdogan, agitare una
presunta minaccia russa alla sicurezza nazionale turca avrebbe dovuto
convincere la NATO a intralciare la riconciliazione franco-russa e,
nella migliore delle ipotesi, trascinare la stessa Alleanza direttamente
nel conflitto siriano per ottenere un ridimensionamento dell’impegno
militare russo e la creazione di una sospirata “no-fly zone” nel nord
della Siria.
La scommessa di Erdogan è stata ad ogni modo
estremamente rischiosa, oltre che sconsiderata, visto che, pur segnando
una pericolosa escalation del conflitto siriano con possibili serie
conseguenze future, almeno per il momento la risposta della NATO non è
andata al di là di una dichiarazione di circostanza che ha espresso
solidarietà alla Turchia per la violazione dello spazio aereo da parte
della Russia.
A livello non ufficiale, diplomatici di vari paesi
NATO sembrano anche avere espresso maggiori apprensioni per
l’atteggiamento turco, avallando di fatto la versione proposta da Mosca
per i fatti di martedì.
Le manovre di Erdogan che hanno portato
all’abbattimento del jet russo, come anticipato in precedenza, sollevano
però un importante interrogativo circa l’eventuale complicità di
Washington. I commentatori si sono divisi su questo punto, con alcuni
che hanno considerato impossibile un’iniziativa del genere senza il via
libera degli Stati Uniti. Se non altro, infatti, il mancato sostegno
americano avrebbe lasciato la Turchia completamente esposta a una
possibile devastante reazione militare russa.
Altri, al
contrario, ritengono che la decisione di Ankara sia stata l’ennesimo
esempio della natura impulsiva e imprevedibile di un Erdogan che
continua ad assistere al clamoroso fallimento della propria politica
siriana. In tal caso, quest’ultimo avrebbe voluto costringere Washington
e la NATO ad agire al proprio fianco dopo avere presentato il fatto
compiuto della presunta “aggressione” russa, seguita dall’abbattimento
del Su-24.
Secondo questa interpretazione, la prova che
l’amministrazione Obama e la NATO non fossero al corrente
dell’abbattimento dell’aereo russo starebbe nella risposta cauta che ne è
seguita. La freddezza occidentale dipenderebbe allora dal ruolo
destabilizzante della Turchia in relazione alla Siria, dovuto in primo
luogo al persistente appoggio garantito ai jihadisti, ma anche al timore
delle conseguenze di un gesto simile, ossia un rafforzamento
dell’impegno russo a favore del regime di Assad.
Infatti,
le prime iniziative di Mosca dopo la provocazione turca sono state
l’intensificazione dei bombardamenti contro i “ribelli” anti-Assad
fondamentalisti - o “moderati”, secondo il giudizio dei governi in
Occidente - e soprattutto l’annuncio del dispiegamento del sofisticato
sistema di difesa missilistico S-400 nel nord della Siria.
Quest’ultima
misura deve apparire particolarmente allarmante ad Ankara e in
Occidente, visto che segnerebbe l’istituzione di fatto di una “no-fly
zone” russa nelle stesse aree della Siria dove Erdogan - assieme agli
ambienti “neo-con” americani - intendeva crearla, restringendo dunque le
opzioni degli Stati Uniti e dei loro alleati per giungere al cambio di
regime a Damasco.
Al di là del coordinamento o meno con
Washington da parte di Ankara nell’abbattere il caccia russo, nonché
delle tensioni crescenti tra gli alleati che vogliono disfarsi di Assad
tramite le formazioni che compongono l’opposizione armata in Siria, gli
obiettivi strategici di questi ultimi coincidono in larga misura e le
differenze che stanno emergendo appaiono per lo più di natura tattica.
Gli
Stati Uniti e la Turchia, in particolare, hanno mostrato di essere
entrambi pronti a scatenare una guerra dalle conseguenze incalcolabili
contro una potenza nucleare come la Russia pur di difendere i propri
interessi sullo scacchiere mediorientale.
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