La timida risalita del prodotto interno lordo (Pil), verificatasi nel 2015, è già terminata. E andrà peggio nei prossimi mesi, “grazie” alla congiuntura globale e ai venti di guerra intorno al Mediterraneo.
Riferisce l'Istat, stamattina, che “a settembre il fatturato dell'industria, al netto della stagionalità, registra una leggera flessione (-0,1%) rispetto ad agosto, sintesi di una variazione positiva (+0,6%) sul mercato interno e di una negativa su quello estero (-1,6%)”.
Se sulla distanza di un solo mese il gap sembra ancora minimo (-0,1), la dimensione dell'inversione di tendenza è più visibile nell'arco dell'ultimo trimestre, in cui “l'indice complessivo diminuisce dell'1,6% rispetto ai tre mesi precedenti (-1,9% per il fatturato interno e -1,0% per quello estero).”
Cosa implica? Che il modello mercantilista imposto a forza dai governi targati Troika, ultimi quattro anni, si sta rivelando un disastro. In pratica, si è deciso di privilegiare le esportazioni a scapito del mercato interno, comprimendo salari e tutele del lavoro dipendente (che rappresenta la parte maggioritaria della domanda domestica) in modo da aumentare la competitività dei prodotti destinati ai mercati esteri.
È in fondo il “modello tedesco”, che ha basato il suo successo sulla riorganizzazione delle filiere produttive europee sotto l'egida di quelle teutoniche, grazie all'immenso vantaggio competitivo garantito dall'euro (ogni moneta unica applicata a sistemi produttivi con differente grado di competitività-produttività avvantaggia i nuclei più sviluppati). Un modello, di conseguenza, che funziona – fino ad un certo punto, come si sta vedendo anche in Germania – soltanto nei territori dove sono all'opera i gruppi multinazionali capofila.
Per un paese come l'Italia, che sta dismettendo da venti anni il proprio patrimonio industriale, si tratta invece di una tragedia irreparabile, perché per costruire quel patrimonio sono occorsi decenni, mentre per smantellarlo bastano pochi anni.
Il calo sostanzioso delle esportazioni, certificato sempre dall'Istat due giorni fa, arriva a sentenziare l'assurdità micragnosa di una supposta “grandeur” italica fatta di furbizie anziché di struttura industriale all'altezza. Riferisce l'Istat che “a ottobre 2015 si rileva una flessione congiunturale per entrambi i flussi, più marcata per le esportazioni (-1,7%) che per le importazioni (-0,2%). L'avanzo commerciale è pari a +3,5 miliardi di euro, in riduzione (-449 milioni di euro) rispetto a ottobre 2014”.
Al centro di tutto sta il calo dell'energia – sia sul piano industriale (raffinazione) che su quello dei consumi – a conferma della stasi produttiva generale. “Negli ultimi tre mesi, la dinamica congiunturale dell'export verso i paesi extra Ue si conferma ampiamente negativa (-5,8%) e diffusa a tutti i principali comparti”.
La frenata dei paesi emergenti e, in minor misura, della Cina, gela le aspettative di crescita “trainata dalle esportazioni” proprio quando si era ormai arrivati a perfezionare – tra jobs act, voucher, lavoro “volontario” e quant'altro – un modellino di compressione fenomenale del monte salari erogato su questo territorio. Di conseguenza, i consumi non possono affatto compensare la caduta delle esportazione e il modello stesso cade in vite.
E con i venti di guerra che spirano, tra sanzioni reciproche e generale riduzione della “libera circolazione delle persone” (difficile pensare a un'espansione del turismo, dopo Parigi e la sostanziale cancellazione delle regole di Shengen) le esportazioni – tranne che nel settore delle armi – non potranno che peggiorare ancora.
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