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27/11/2015

Che succede in Libia?

Le radici del gran pasticcio libico stanno in parte nella storia degli ultimi decenni del paese, ma, in altra parte, nella sua storia remota, perché la Libia, come noi la conosciamo, è una realtà molto recente.

Paese vasto (1.700.000 kmq) ma scarsamente popolato, con ampie zone desertiche, oggetto di ripetute scorribande di popoli vicini che spesso sedimentavano qualche insediamento locale, è stato caratterizzato da un accentuato ruolo delle tribù, e, pertanto, da un inesistente senso nazionale, un limitato sviluppo economico e culturale. Storicamente, si formarono tre aree geografiche dai confini assai labili ma ben separate dalle zone poco o per nulla abitate: Cirenaica ad est della costa, Tripolitania ad ovest della costa e Fezzan nell’entroterra a sud, abitate da diverse comunità tribali in rapporti di scambio commerciale e culturale fra loro: a differenza di altri paesi come la Siria, in Libia, anche per la diversa disponibilità di spazio, non c’è mai stata una accentuata conflittualità fra le varie tribù.

A dare unità al paese e confini precisi fra le tre regioni fu l’ occupazione italiana, in particolare con la “riforma” della colonia voluta da Italo Balbo. Dopo la fine della guerra e l’indipendenza (1949), la Libia assunse una conformazione federale rispecchiata nella bandiera del periodo monarchico (con il rosso della Tripolitania, il nero della Cirenaica ed il verde del Fezzan), cui seguì un tentativo di accentramento di Re Idris. Nel 1969, il periodo repubblicano fu aperto dal colpo di stato di Gheddafi, sostenuto ed incoraggiato dall’Italia che protesse sempre Mu’ ammar da tentativi di assassinio e colpi di stato, in genere orditi dagli inglesi. Di fatto, Gheddafi, spesso atteggiato a leader terzomondista ed antimperialista, ha sempre agito all’ombra dell’imperialismo petrolifero italiano.

Sino al 1969, nel mondo arabo si era manifestata una forte spaccatura fra le tradizionali monarchie – ortodosse e filo americane – e i regimi repubblicani militar-nazionalisti inaugurati da Kemal Ataturk (anni trenta) e seguiti dall’affermazione dei regimi Baas ispirati da Nasser (anni cinquanta e sessanta) che esprimevano un primo tentativo di secolarizzazione delle loro società. Gheddafi rappresentò una prima correzione di rotta nel senso di una re-islamizzazione dei regimi repubblicani, facendo in qualche modo da battistrada all’ondata fondamentalista (che si affermerà qualche anno dopo in Iran) dalla quale, peraltro, rimarrà distinto. L’Islam politico di Gheddafi si collocò in una posizione intermedia fra il socialismo militarista panarabo ed il fondamentalismo jiadista (fu proprio lui a riesumare per primo il termine Jihad).

Peraltro, se è vero che quella gheddafista è stata una autocrazia militare simile a quelle baatiste, è anche vero che ebbe caratteri propri e quel che rese particolare quel regime fu la netta preponderanza della milizia sull’esercito regolare che, a differenza di quello siriano, irakeno o egiziano, di fatto, non ha mai combattuto una vera e propria guerra (il caso del Ciad non fa testo) e fu una realtà politicamente e militarmente molto debole. Inoltre Gheddafi fece ricorso anche ad un reclutamento mercenario nei paesi confinanti, che indebolì ulteriormente il peso politico dell’esercito.

Di fatto, l’unico reale limite al potere di Gheddafi fu quello delle tribù, per cui la struttura del potere in Libia fu sostanzialmente quella di un autocrazia che mediava fra le diverse tribù ed etnie, protetta da una guardia pretoriana pagata con la rendita petrolifera con opposizioni interne ed esterne al regime, troppo deboli per rovesciarla. In questo gioco, Gheddafi privilegiò costantemente le tribù del centro della costa  (zona della Sirte) da cui proveniva, ed ebbe molto rispetto per i Warfalla (la tribù libica più popolosa) mentre fu sempre ben più sfavorevole alla Cirenaica (da sempre più esposta alle influenze inglesi ed egiziane) allo stesso modo in cui esercitò una dura repressione contro le aspirazioni ad un sistema politico democratico e rispettoso dei diritti umani.

La linea di frattura politica principale che si è formata in Libia si identifica in larga parte fra quelli che furono sostenitori e beneficiati di Gheddafi e quelli che furono suoi perseguitati ed oppositori. La rivolta libica della primavera 2011 fu stimolata dai servizi segreti di Francia ed Inghilterra che miravano a rimpiazzare l’influenza italiana in quella importante piazza petrolifera: sappiamo della fuga in Francia di Nouri Masmari, già nell’ottobre precedente, sappiamo che già nel novembre successivo il colonnello dell’aeronautica Abdallah Gehani incontrò un gruppo di agenti dei servizi francesi. Sappiamo anche che uomini dei reparti speciali inglesi sbarcarono in Cirenaica svolgendo un ruolo importante nell’organizzare l’insurrezione. Questo non significa che l’insurrezione anti Gheddafi sia stata una “invenzione” dell’intelligence occidentale: l’ostilità al regime c’era e non è un caso che la sua roccaforte sia stata in Cirenaica ed è proprio su questa base che i servizi anglo-francesi hanno potuto operare. Si formò un fronte composito ed articolato, riunito nel Consiglio Nazionale di Transizione che, alla borghesia “occidentalizzante” di Bengazi (la cui forza fu probabilmente sopravvalutata) aggiungeva tribù a lungo perseguitate ed altri oppositori fra cui anche aree di fondamentalismo islamico (la cui forza fu invece sottovalutata), mentre importanti gruppi come i Warfalla rimasero a lungo a vedere.

Subito dopo l’abbattimento del regime, complice l’assenza di un forte esercito e la preponderanza delle milizie locali, questa coalizione andò via via sciogliendosi, man mano che riemergevano le antiche divisioni tribali, sulle quali hanno giocato pesantemente le interferenze straniere. Dopo le prime scaramucce fra le milizie, fra  il 2013 ed il 2014 sono emersi due poli: “Dignità” a Tobruk (dove risiede il governo riconosciuto dagli occidentali) ed “Alba Libica” a Tripoli sostenuta da Turchia e Qatar, nel quadro dei tentativi di ciascuno di affermare la propria egemonia sul Medio Oriente e Nord Africa. Nella spaccatura fra i due si sono i inseriti i gruppi jihadisti che hanno insediamenti in diversi punti della Tripolitania (compresa la stessa Tripoli) ed un caposaldo a Derna in Cirenaica.

Dopo vari tentativi di mediazione andati a vuoto, qualche settimana fa era parso che Bernardino Leon, inviato dell’Onu, fosse riuscito a buttare le basi di un accorto fra Tripoli e Tobruk, ma, in pochi giorni la speranza è crollata ed, anzi, c’è stata una ripresa delle ostilità (che, fra l’altro, ha registrato una violenta fiammata antitaliana). Come spiegare questa inattesa evoluzione? In primo luogo, è probabile che l’inviato Onu abbia avuto troppa fretta ed abbia cercato di “forzare la mano” insieme ai moderati dei due schieramenti, per mettere i rispettivi falchi di fronte al fatto compiuto; peccato che, nella difficile situazione venutasi a creare, nessuno abbia il completo controllo del proprio schieramento, per cui i “falchi” hanno preso il sopravvento, non sappiamo se in entrambi i poli o solo in uno di essi e quale. Ma la ragione di fondo appare piuttosto un’altra: a non reggere è la geografia complessiva del Medio Oriente-Nord Africa, con i suoi stati artificiali nati dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, con le sue linee di confine tracciate con il righello, con le sue profonde disomogeneità da paese a paese.

Crisi come quelle libica, siriana, irachena (e direi anche sudanese) non troveranno mai una soluzione al di fuori di un riassetto complessivo dell’area sulla quale si dispiegano troppi piani di potenza e nessun progetto complessivo.

La Libia ci serve unita, viene spesso ripetuto e la cosa ha un suo fondamento, non ultimo il bisogno di far fronte all’offensiva jihadista, ma, direbbe Kant, aver bisogno di cento talleri ed avere cento talleri non sono affatto la stessa cosa ed il paese appare avviato verso la divisione. D’altro canto, anche in Iraq il disperato tentativo di tenere insieme curdi, sunniti e sciiti mantenendo in vita l’improbabile stato-nazione ideato da Churchill non pare stia avendo molto successo, come pure in Siria.

Nel frattempo cosa possiamo aspettarci? Una entropia crescente dell’area con la nascita di nuovi focolai, una ulteriore avanzata degli jihadisti e sempre nuove ondate di profughi che si dirigeranno verso l’Europa. D’altro canto, questo disastro lo abbiamo provocato noi con scelte remote (come il colonialismo e la successiva decolonizzazione malcondotta) e recenti (le sciagurate guerre del Golfo e dell’Afghanistan che hanno spalancato la porta al fondamentalismo). Ora arriva la prima rata del conto da pagare. Ne seguiranno altre ed il conto finale rischia d’essere molto pesante.

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