Chiara Cruciati – il Manifesto
Mentre l’orrore di due fosse comuni, tomba per 140 yazidi massacrati
dall’Isis, ricorda al mondo cos’è stato l’assedio di Sinjar, si
moltiplicavano ieri le voci di case sunnite date alle fiamme dai
residenti yazidi, forma di vendetta per le brutalità degli islamisti. E a
sventolare su Sinjar, dopo la liberazione dalla morsa dello Stato
Islamico, è la bandiera del governo regionale del Kurdistan (Krg), non
vessilli dell’Iraq. Erbil rivendica la zona: è territorio kurdo tornato
in mano kurda.
Il nuovo protagonismo del Krg sta radicalizzando lo scontro interno con il governo centrale di Baghdad
e c’è chi a mezza bocca lo dice già: la prossima battaglia sarà a
Kirkuk. Una città militarizzata dal giugno 2014, quando i peshmerga
distrussero il Battaglione 12 dell’esercito iracheno: approfittando
dell’avanzata dell’Isis a Mosul, i peshmerga di Barzani hanno sfondato e
ripreso la città, rivendicata da decenni.
Checkpoint volanti bloccano le strade, file di auto si sottopongono ai controlli dei peshmerga. Lungo le vie
principali compaiono poster con il volto del presidente kurdo Barzani,
barriere di cemento chiudono le zone considerate sensibili. Sui tetti
sventolano bandiere rosse, verdi e nere: sono drappi sciiti, ci dicono,
ogni colore si riferisce ad un diverso imam. Così gli iracheni sciiti
rivendicano l’appartenenza di certi quartieri. Perché Kirkuk, da un anno, sta vivendo una nuova “pulizia etnica”.
«Negli anni ‘80 Saddam Hussein avviò una vasta campagna di “arabizzazione” della città,
tra le più ricche di greggio del paese: spostò arabi sciiti da Karbala,
Najaf, Nassiriya, famiglie povere a cui offriva una casa e un po’ di
soldi – spiega al manifesto F., arabo sciita, che chiede l’anonimato – Oggi
le autorità kurde, che dal 2003 controllano parte delle istituzioni
locali e dal 2014 quelle militari, fanno lo stesso. Al contrario:
soldi agli arabi per incoraggiarli ad andarsene e appartamenti e terre
agricole a famiglie kurde di Erbil, Dohuk, Sulaimaniya per convincerle a
trasferirsi qui».
Alla fine degli anni ’50, a Kirkuk
i kurdi erano la metà della popolazione, il resto si divideva tra arabi
e turkmeni. La campagna di arabizzazione di Saddam ribaltò la
demografia interna: negli anni ’90 gli arabi erano il 70%. Ora si
potrebbe assistere ad un nuovo stravolgimento: «Erbil non è interessata alla gente. Vuole il petrolio e Kirkuk ne è ricca: 300mila barili di petrolio al giorno
– continua F. – Guardate alla battaglia kurda contro l’Isis: hanno
ricacciato indietro gli islamisti fino a spostare la linea del fronte
oltre i giacimenti petroliferi, poi si sono fermati. Vogliono i giacimenti e le condutture. Per questo puntano a modificare la demografia della zona».
Ci spostiamo a Omar, villaggio a
pochi km a sud di Kirkuk. Lungo la strada vediamo il fuoco delle
raffinerie di greggio. Entriamo nella comunità, poverissima, che oggi
accoglie centinaia di sfollati interni: arrivano da vicini villaggi
arabi sunniti. Come Saad, liberato come decine di altre comunità sei
mesi fa dai peshmerga. Eppure i kurdi non permettono agli sfollati di
tornarci: «Dicono per motivi di sicurezza perché si trovano in una zona
cuscinetto che i peshmerga hanno dichiarato area militare chiusa.
Probabilmente però non li fanno tornare perché vogliono prendersi questi
territori, molte comunità sono state distrutte».
Mona ha 30 anni
e cinque figli. Scappata da Saad un anno e mezzo fa, si è rifugiata con
la famiglia nel villaggio di Omar. Vivono in una tenda: «Fa freddo e
abbiamo poco cibo, mio marito era soldato nell’esercito iracheno, qui
non trova lavoro. L’ultima volta che abbiamo ricevuto cibo da
organizzazioni internazionali è stato 4-5 mesi fa». Qui le Ong non
arrivano, le autorità locali rendono difficile l’accesso e impediscono
la distribuzione dei voucher per acquistare beni di consumo, come accade
nei campi di Erbil, per non attirare altri sfollati: il distretto di
Kirkuk è oggi casa per 400mila profughi. La differenza con il resto del
Kurdistan iracheno è abissale: qui i rifugiati sono abbandonati a loro
stessi.
«Il mio villaggio è stato attaccato da Daesh, siamo fuggiti senza portarci dietro nulla – ci
racconta Mona – Ora è libero, ma non ci fanno rientrare». Eppure è a
una manciata di km di distanza. Perché la battaglia interna per Kirkuk è
già scoppiata. Da mesi ci sono scontri a sud, a Tuz Khurmatu, 60mila
abitanti e 70 villaggi nel distretto. I giorni scorsi hanno visto un’escalation degli scontri a fuoco tra peshmerga e milizie sciite:
«Tuz Khurmatu è strategica – conclude F. – Collega i governatorati di
Baghdad, Kirkuk, Tikrit. Per questo siamo convinti che Kirkuk sarà il
prossimo terreno di scontro: le milizie sciite che attaccano i peshmerga non sono indipendenti, sono collegate a Baghdad. Che non vuole perdere questa città».
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