Tanto la guerra santa quanto quella democratica pretendono oggi di imporre un principio d’ordine.
Entrambe dividono con precisione i campi, chiedono di schierarsi per
raggiungere gli scopi stabiliti. Rifiutare l’ordine della guerra non
significa però confidare nel pacifismo. Non appare neppure lontanamente
possibile ripetere l’esperienza del grande movimento che, dopo
l’aggressione all’Iraq nel 2003, era stato addirittura indicato come la
seconda grande potenza mondiale.
Nonostante la diffusa diffidenza verso
la guerra come soluzione, nonostante la scarsa fiducia in coloro che la
guerra dovrebbero condurla, contrapporre semplicemente la pace alla guerra in corso appare velleitario e, in fondo, impraticabile.
C’è una gran fretta di dichiarare una guerra per la quale gli aggettivi
ormai si sprecano. C’è chi, con tutta la sua autorità, dice che è già
scoppiata la terza guerra mondiale, c’è chi aggiunge che questa guerra
mondiale è guerra civile e c’è chi dice che siamo in presenza della
madre di tutte le guerre, la guerra globale. E prima di tutto c’è
ovviamente la guerra santa. Il tempo che abbiamo di fronte, però, non è
fatto solo di combattimenti, ma anche di una pace segnata
dall’oppressione e da linee di confine che si confondono in
continuazione dentro le metropoli e sulle strade che le congiungono. Se
dunque vogliamo l’opposto di questo tempo, non possiamo chiedere
semplicemente la sospensione della guerra, dobbiamo puntare decisamente alla trasformazione delle condizioni che lo rendono possibile.
Nonostante i proclami, non siamo nemmeno di fronte allo scontro
fondamentale tra principi inconciliabili. Il 13 novembre a Parigi non è
stata dichiarata la guerra che rende finalmente evidente i fronti,
perché nonostante tutto non è auspicabile consegnare questo tempo alle
relazioni tra gli Stati, nelle quali i nemici possono improvvisamente
diventare se non amici, almeno alleati. Per noi, invece, questo è
decisivo. Dobbiamo individuare con chiarezza i nostri nemici senza guardare ai fronti disegnati da altri.
Non si può dipingere di rosso una porta nera.
In questi ultimi giorni molto è stato giustamente detto sul differente
peso dei morti, misurando le poche lacrime versate davanti alle stragi
sui diversi e distanti fronti di guerra e lo scandalo per l’attacco a
una delle più importanti capitali d’Europa. Molto è stato detto per
indicare le cause di quanto accaduto a Parigi, ricordando quanta parte
hanno avuto le armi e i soldi occidentali nella costituzione di questo
grande nemico che ha scelto il nome di Daesh. Di causa in causa si corre
però il rischio di cadere in un determinismo imperialistico che fa di
Daesh, se non una marionetta eterodiretta dall’Occidente, almeno una
reazione meccanica e necessaria alle sue strategie neoimperiali. Per rifiutare l’ordine della guerra si deve invece riconoscere che non esistono solo soggettivazioni buone,
che sul terreno preparato e finanziato dagli Stati occidentali è sorta
una forza autonoma che per ampi strati di proletariato arabo e in parte
anche africano si presenta come portatrice di una rivolta credibile
contro l’«oppressione occidentale». Occorre guardare in faccia la realtà
e riconoscere che, anche nei luoghi dell’oppressione, nascono movimenti
e istituzioni di oppressione capaci di agire e di imporre il loro
dominio tanto nei territori dove organizzano le loro roccaforti, quanto
nelle roccaforti dei loro nemici. Occorre vedere che, attraverso le sue
azioni, Daesh non si rivolge solo contro i suoi nemici del momento, ma
svolge il suo discorso, fa propaganda, cerca nuovi uomini e donne da
arruolare.
Occorre quindi riconoscere l’autonomia ideologica e
politica di Daesh, insieme alla capacità di attrarre masse
tradizionalmente escluse offrendo loro le ragioni per
mobilitarsi attraverso una specifica costruzione del nemico: non certo i
«padroni del vapore», non chi ha scatenato le guerre in nome del
profitto, ma un Occidente uniformemente blasfemo e segnato dal peccato.
Non conta nulla che a Parigi siano morti dei proletari. Non conta nulla
che a Parigi siano morti dei musulmani.
Quello di Daesh è un populismo armato che annienta ogni differenza in nome di un’unica opposizione globalmente rilevante
e perfettamente speculare a quella con cui l’Occidente legittima la sua
guerra al terrore. Daesh pretende di restituire all’Occidente il suo
terrore, ma ciò avviene intensificandolo e confermandone la logica.
Daesh è il rovescio dell’Occidente. Non è un caso che, mentre dice di
inseguire il Califfato, una forma politica autenticamente islamica, esso
si sia autonominato Stato, mostrando di aver interiorizzato fino in
fondo e di voler replicare la logica politica dell’Occidente moderno in
una dimensione globale.
Per rompere questo gioco di
specchi dobbiamo riconoscere che Daesh vuole fissare dei confini per
stabilire il legame tra popolo e territorio che sta violentemente
costruendo. Assicurare questo territorio e sigillarlo dalle
minacce esterne – quelle occidentali non meno del progetto
rivoluzionario della Rojava
– è il suo obiettivo. A questo scopo è servita la notte di sangue
parigina, che ha spostato il fronte del combattimento per irretire il
nemico e rafforzare lo Stato agendo al di fuori dei suoi confini. Daesh
non è soltanto un marchio lugubre, ma lo strumento necessario per
mettere ordine nel caos lasciato in eredità tanto dalla war on terror
statunitense e dalle sue applicazioni europee in Nord-Africa, quanto da
movimenti post-coloniali di liberazione che hanno generato società
tumultuose che solo la forza ha contenuto. Daesh serve anche a governare
le tensioni che le cosiddette «primavere arabe» hanno prodotto, utilizzando scampoli di modernità per riaffermare le tradizioni che confermano i ruoli immutabili degli uomini e delle donne.
Se nella «Umma», la comunità islamica di cui si persegue l’unità, è in
corso una guerra dei trent’anni, non stupisce che lo Stato possa
apparire la formula più convincente per governare l’anarchia che ne
deriva. Questo Stato territoriale e globale che prevede la schiavitù e
lo sterminio, concentra l’esercizio del suo potere su aree strategiche,
dove il controllo di pozzi petroliferi e siti produttivi è, nel modo più
classico, la base per imporre un ferreo dominio sul territorio e per
costituire l’unità del popolo.
Su questo processo di
soggettivazione transnazionale, che ha coinvolto migliaia di giovani
musulmani, è necessario evitare le formule gergali, le facili soluzioni,
le spiegazioni consolatorie. Non ci sono dubbi che un’intera
generazione cresciuta sotto le bombe sganciate in Medio Oriente abbia
visto con chiarezza il nesso tra la «libertà duratura» di Bush e gli
orrori di Abu Grahib. È almeno probabile che a molti di loro, che magari
a un certo punto sono migrati per trovarsi nelle metropoli europee,
Daesh abbia offerto un’efficace alternativa ideologica al pacchetto di
sogni infranti preconfezionato dall’Unione Europa. Con buona pace degli
antimperialisti dei nostri giorni, non ci pare però che Daesh organizzi
il reclutamento dimostrando ai suoi potenziali seguaci che liberté, égalité, fraternité
si alimentano di sfruttamento, segregazione di classe e razzismo
istituzionale. Questo magari servirebbe a costruire connessioni al di là
di ogni professione di fede e di ogni territorio, frantumando il fronte
dell’Occidente. Ma l’Occidente come nemico omogeneo e
indifferenziato è necessario per costruire un’identità di popolo e un
territorio da conquistare, per vendere la possibilità di
vendicare una condizione di oppressione troppo a lungo subita. È
evidente allora che questa funebre soggettivazione avviene attraverso la
porta nera che collega Raqqa a Parigi. Solo in questo modo
l’assemblaggio di condizioni di sfruttamento, oppressione e umiliazione
subite in forme e luoghi diversi può alimentare il populismo armato.
Solo in questo modo il fallimento dell’Occidente – che è poi la verità
che sta dietro alla sua ideologia di libertà e uguaglianza, di progresso
e democrazia – rende così seducente Daesh.
Ogni spiegazione di ciò che sta accadendo può cogliere pezzi di realtà solo se rifiuta un’opposizione tra centro e periferia
che tratta quest’ultima come un’eccezione rispetto a una condizione
altrimenti ordinata che riproduce la stigmatizzazione che grava sulle popolazioni delle «periferie»
delle metropoli arabe o europee, non a caso le prime a subire i duri
colpi tanto dei bombardamenti quanto degli stati d’emergenza. Ogni
spiegazione deve riconoscere che, accanto ad alcuni che hanno indossato i
giubbotti esplosivi e imbracciato le armi, in quelle metropoli ci sono
decine di migliaia di uomini e donne che conducono una lotta quotidiana
contro l’oppressione e lo sfruttamento senza per questo abbracciare il
fanatismo terrorista. Anche la migliore spiegazione non ci assolve dal
domandarci che cosa abbiamo da dire a questo segmento di
proletariato transnazionale per impedire che la risposta alla sua
condizione di oppressione e sfruttamento si trovi in una intransigente e
sanguinaria interpretazione del Corano. Se ci muoviamo fuori
dalle formule antimperialistiche, dalle giustificazioni vittimistiche,
da un pacifismo reattivo, dalla glorificazione dell’Occidente come unico
attore politico globale, dobbiamo chiederci quali possibilità abbia di
radicalizzare le sue pretese chi non si accontenta delle briciole
riservate dal capitale globale, chi rifiuta il prezzo di subalternità
imposto dalla promessa d’integrazione, chi disprezza il silenzio imposto
tanto dalla democrazia quanto dal dominio terroristico.
Mentre Daesh mostra di essere una
sintesi territoriale e globale, mentre l’Occidente reagisce alla sfida
dei migranti chiudendo i territori statali grazie a un governo globale della mobilità,
la nostra risposta non può essere quella delle piccole coalizioni che
parlano il loro dialetto o la ricerca del radicamento nei territori da
cui poi muovere all’assalto del mondo. Noi possiamo solo cercare
di essere all’altezza del movimento transnazionale in atto, un
movimento fatto di centinaia migliaia di migranti che assaltano il cuore dell’Europa con una forza maggiore e più carica di futuro del terrorismo jihadista.
Non si può lasciar dipingere di nero una
porta rossa. Contro la guerra e il suo ordine c’è solo la possibilità
di rompere i fronti mettendo in comunicazione su scala reale i movimenti
che stanno attraversando l’Europa congiungendola in maniere inaspettate
con l’Africa e con l’Asia. Non si tratta solamente dei movimenti dei
migranti e delle migranti, la cui centralità politica semplicemente non
può essere negata. Si tratta anche di quei movimenti che la guerra rischia ugualmente di ridurre al silenzio
e che sotto la parola d’ordine «refugees welcome» hanno fatto
intravedere la possibilità di un rovesciamento del governo europeo della
mobilità. Si tratta ancora di quell’insieme di collettivi politici e di
sindacati che indica nell’Europa lo spazio minimo della propria azione e
che tra mille difficoltà e molte contraddizioni sta cercando di
organizzare il primo sciopero transnazionale.
Tutti questi movimenti si troveranno di fronte l’ordine della guerra
che non è solamente uno stato di emergenza, ma la possibilità di
restaurare la normalità che essi vogliono sovvertire. Eppure la
dimensione politica globale che essi indicano è l’unica in grado di
contrastare effettivamente la guerra, perché impone un disordine che va
oltre la fissazione dell’alternativa tra guerra e pace. Non c’è più la
possibilità di costituire un fronte interno pacifista diverso e opposto a
quello belligerante. C’è però la possibilità di connettere gli uomini e
le donne che attraversano i fronti: alcuni materialmente, incontrando e
superando confini e fili spinati, altri rifiutando l’esistenza stessa
di quei confini. La rigida e quindi falsa contrapposizione tra
lo stato assoluto della guerra e quello della pace può essere combattuta
solo a partire da chi si muove tra le tragedie della prima e
l’oppressione della seconda, verso la meta apparentemente
irraggiungibile della libertà.
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